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pensare di te cosa pur lieta e amorosa, e così sempre seguire pascendo amore di dolci e giocondi ragionamenti. Ma dimmi, Pallimacro, in che modo cadesti tu in questo amore? Cercasti tu il male tuo, com’io vedo fanno molti, che per tutto porgono gli occhi a qualche nuova ferita?

Pallimacro. Io nè cercava nè mi piaceva intrare sotto questa servitù, quale ora pruovo e prima da te avea udito troppo era grandissima. Ma certo i nostri animi qualche volta non sono nostri, e qualche volta ci conviene volere cosa che ci duole. Quanto io, affermo questo, che sforzato mi convenne amare. Amai contro a mia volontà, volli quello che mi dispiacea, e dispiacevami quello che al continuo pronto facea e dicea. Nè però io restava di seguire dove la fortuna mia me conduceva in tanta miseria in quanta ora mi truovo. Qui m’ha condotto la fortuna mia. Ma quale uomo fussi sì duro, il quale non amassi sentendo sè essere amato, quanto certo io in molti modi conobbi me molto essere amato?

Filarco. E qui ancora peccano i giovani, i quali stimandosi degni d’essere amati, subito giudicano ogni minimo sguardo venire da grande amore. Sono e’ segni di vero amore cangiare colore, rimirare fiso cadendo col sguardo dolce a terra, raccorsi sospirando.

Pallimacro. Molto più che questi erano certi segni d’amore quegli e’ quali mi vinsero ad amare. Oh Deifira mia, a te ogni mio atto, ogni parola, ogni cosa mia piaceva. Tu fra le genti con gli occhi mi ricercavi da lungi; tu mai eri sazia di lodarmi a tutti e proferirmi; tu, quanto io era dove tu fussi, mai ti pareva se non poco guardarmi in fronte ridendo e ragionarti meco. E quanto spesso, tristo me, vidi te rimanere addolorata, ove io da te mi dipartia. E quante cagioni non raro fingesti per ritrovarti dove io fossi. E quanto sospirando spesso accusasti me, che sì tardo fussi ad amarti. E io, misero me, misero me, non so quale allora presagio di miei ch’ora soffero mali m’impauriva, onde forse giudicasti che io fuggissi te, Deifira mia, il quale ora ti seguo piangendo. Oh infelice me! Io dandoti più scuse, Deifira mia, così t’insegnai quanto ora sai troppo straziarmi. Oh Pallimacro sfortunato! Che sciagura fu la tua fabbricare e porre in mano l’arme a questa spiatata, con che ora ella mai si senta sazia d’accorarti!