Daniele Cortis/Capitolo ventesimo
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CAPITOLO XX.
Occulto dramma.
Un filo d’erba non si moveva intorno al lago ovale di villa Cortis, non una fogliolina della sua corona di carpini. L’acqua tutta bruna, sino a mezzo lago dell’imminente Passo Grande, tutta chiara, al di là di nuvole argentee, non faceva una crespa; e anch’esse le avide nuvole meridiane pendevano senza moto, temperavano la luce a quel sopore del lago, blandito dalla sommessa voce dell’acqua che v’entra e n’esce. Era un riposo pieno di vita occulta, un trepido silenzio pieno di aspettazioni. Se qualche fiato veniva dal mezzogiorno, tutti i fili d’erba intorno al lago, tutte le foglioline appena nate dei carpini se lo dicevano; l’acqua sola sapeva che non era ancora il gran vento meridiano del maggio, la gioia e la festa di tutti i boschi, di tutti i prati e di lei; l’acqua non faceva una crespa e subito quel fiato se ne andava via, tutto posava, tutto taceva ancora.
«Che quiete!» disse Cortis sottovoce.
Elena, seduta presso di lui sopra un tronco rovesciato nell’erba presso all’entrata del gran viale che mette dal lago alla villa, non rispose subito. Pareva assorta nella contemplazione dell’acqua.
«Troppa quiete» diss’ella qualche minuto dopo, senza muovere il viso nè gli occhi.
«Perchè troppa?» chiese Cortis.
«Perchè si dimentica troppo, qui, si è troppo fuori del nostro mondo, non si pensa più che bisogna starci anche se ci si sta male. Si diventa molli, inerti. No?
Cortis raccolse un sassolino, lo gettò nell’acqua che diede una piccola voce dolente, stette a guardar le ondicelle che si allargavano in giro sino a toccar la riva.
«Per me, no» diss’egli. «Per me son beato di esser fuori del mio mondo, e voglio starne fuori ancora.
«Oh no, no, Daniele, mi fai male quando dici così.
Lo si sentiva che le faceva male, nell’accento accorato; lo si vedeva negli occhi grandi che si volsero a lui, lo guardarono prima con tristezza quieta, poi, improvvisamente, con passione.
Cortis le prese una mano ch’ella gli abbandonò.
«Perchè?» diss’egli teneramente, perchè ti faccio male? Non voglio mica seppellirmi nell’accidia, lo sai bene. In politica, almeno per ora, colle mie idee, sono fuori di posto. Sono nato trenta o quarant’anni troppo presto. Dico per la politica militante. Ma c’è la scienza, c’è il libro. Non le abbandono mica le mie idee. Solamente vedo che il nostro paese non è ancora maturo per esse e sarà molto bene che qualcuno aiuti a maturarlo facendogliele conoscere queste idee, discutendole bene nella teoria, prima di tentare la pratica. Io starò qui, studierò, scriverò, viaggerò anche; mi sarà necessario. E quello che scriverò lo discuteremo insieme, non è vero? Perchè spero che ci passerai molto tempo a Passo di Rovese?
Queste ultime parole Cortis le pronunciò a voce bassissima, quasi timidamente.
Ella gli sorrise in silenzio con gli occhi umidi velati. Poi sussurrò: «Devi tornar alla Camera, per far piacere a me. Devi dirigere il giornale.
«Oh, quello è bell’e andato» rispose Cortis.
Elena trasalì; la sua mano inerte strinse quella dell’amico.
«Come bell’e andato? Hai risposto?
Avevano scritto a Cortis da Roma, il giorno prima, chiedendogli i suoi intendimenti circa il nuovo giornale. Poichè non aveva potuto fare il discorso, contava egli che si uscisse subito? Oh che si aspettasse dell’altro? Persisteva nel proposito di tenere la direzione fino all’adunarsi della Camera nuova? O ragioni di salute ne lo impedivano?
«No» disse, «non ho risposto, ma oggi rispondo.
«No, no, rispondo io» esclamò Elena.
Cortis si mise a ridere.
«Sì, rispondo io, e tu sottoscrivi!
Gli occhi le lampeggiavano.
C’era nell’erba, accanto a lui, un piccolo volume giallognolo, un Shakespeare di Tauchnitz. Egli lo raccolse, si pose a sfogliarlo, dicendo: «Dov’è questo passo che hai sognato a Roma?
Elena gli strappò il libro.
«Promettimi» diss’ella, «promettimi che mi fai vedere la risposta.
«Questo sì; te lo prometto.
Il suo viso grave e la sua voce esprimevano una meraviglia quasi dolente.
«Hai paura di me?» proseguì. «Vuoi mandarmi via?
Ella si piegò tutta un momento verso di lui, portata da un impeto muto; le sue labbra segnaron l’atto di un bacio. Ripiegò tosto indietro, lo guardò ancora e poi aperse il libro con mani tremanti, lo sfogliò anche lei avanti e indietro, a lungo. Finalmente porse a suo cugino il libro aperto, tenendovi l’indice sopra un punto dov’egli lesse: «My little body is a-weary of this great world.»
«Il mio piccolo corpo è stanco di questo gran mondo.» Le tristi parole additategli silenziosamente gli misero nell’anima un freddo, un turbamento arcano. Le guardò ancora, poi alzò gli occhi ad Elena come per interrogarla; ma ella teneva i suoi chini all’acqua addormentata.
«Il Mercante di Venezia» diss’egli. «Non me ne ricordavo.
In quel momento un suono di campane arrivò sul lago deserto; altre campane risposero da un’altra banda.
«Mezzogiorno!» esclamò Elena, alzandosi, sorpresa che fosse già così tardi. Al tocco, di solito, si portavano le lettere a casa Carrè. Le ore del mattino erano le più angosciose per Elena. Dopo l’arrivo della posta respirava un poco, gustava con avidità intensa la sua dolce casa, le sue montagne, la presenza e le parole dell’amico, con questo pensiero che fino al tocco dell’indomani poteva vivere in pace, lettere non ne capitavano più.
«Hai fretta?» disse Daniele, senza moversi. «Ascoltiamo un poco queste campane.
Ella tacque, si volse a guardar fra i carpini verso il fondo della valle, verso casa. Qualche occhiata di sole pallido moveva ora sul vicino prato, sulle teste nere degli abeti che spuntavan su dietro a quello.
Anche laggiù a villa Carrè e sulle ghiaie del Rovese, e, al di là, sulla muraglia nuda di monte Barco erano stampate larghe macchie di sole. Elena non vedeva dietro a sè l’austero Passo Grande farsi azzurro, cupo, quasi nero, al di sopra delle sue larghe frane, dei borri nevosi, sotto una corona pesante di nebbione. Non vedeva questa minaccia, ma pure anche i pallidi sorrisi di sole com’eran tristi! Quella sensibilità di Cortis, quel suo compiacersi della natura, della solitudine, delle campane, così nuovo in lui, le davan pena.
Non era ben guarito ancora, nello spirito. Guarirebbe? O qualche corda s’era spezzata in lui?
Daniele ascoltava le campane che dicevano sempre sempre la stessa cosa profonda, inenarrabile, mettevano nella solitudine un raccoglimento devoto.
«Mi par d’essere ancora un bambino» diss’egli «quando mia nonna mi faceva recitar l’Angelus Domini.
«Io pregherei meglio qui che in chiesa» disse Elena.
«E come pregheresti?» chiese Cortis sorridendo. «Cosa domanderesti?
«Non merito niente, Daniele» diss’ella triste. Vi era tanto affetto in quel «Daniele» insolito, tanto dolore, tanta sincerità di confessione!
Le campane del mezzogiorno suonavano ancora, ma Cortis non le ascoltava più. Aveva qualche cosa da dire, qualche cosa che lo turbava molto. Si alzò, prese il braccio d’Elena, si avviò con lei giù nell’ombra verdechiara del viale di carpini.
«Senti» diss’egli. «Ti ricordi che ti ho scritto una volta di Pergolese e di quell’incognita, che ti ho domandato se adesso saranno insieme? Non pregheresti per una riunione così, nell’altra vita?
«No» rispose Elena con un fil di voce, «non potrei. Ti faccio male» soggiunse. «Perdonami.
Egli tacque.
«Tu hai tanta fede» diss’ella «e io no. Io non posso domandare a Dio di farmi felice. Potrei domandargli di far felice te, lo desidero tanto; ma non ho il coraggio di domandargli queste cose, io, al Signore; non ne ho il diritto. E non mi pare neppure che vada bene. Appena gli posso domandare che sia fatta la sua volontà e che ci aiuti tutti e due a benedirla qualunque sia.
Cortis le strinse il braccio, le prese la mano sinistra con ambedue le proprie, gliela strinse forte in silenzio. Non parlarono più, nè l’uno nè l’altra, per un gran tratto.
Come giunsero al punto dove un valloncello ombroso mette capo alla destra del viale, Cortis s’arrestò, chiese ad Elena se volesse andare a salutare il suo tiglio. Non v’era solo il tiglio da quella parte; v’era anche la colonna con le mani congiunte e la scritta latina.
«Andremo domani» diss’ella piano «se non ti rincresce. Verremo più tardi; vuoi?
Avrebbe preferito serbar quel piacere a dopo l’ora di posta, quando era meglio in grado di goderlo. E poi si sentiva troppo turbata dalle parole di Daniele sulla riunione futura, troppo in pericolo di lasciargli intendere quanto l’amasse; perchè egli non lo sapeva ancora, quanto! Questo non andava bene, questo non lo voleva, perchè, quel giorno terribile, egli avrebbe sofferto di più.
Le parve di vedere sul viso di Cortis un’ombra di malcontento e soggiunse subito, arrossendo:
«Sai, vorrei essere a casa per l’ora di posta. Sono tanti giorni che lo zio non scrive!
Tanti giorni? Non n’erano corsi che quindici dal loro arrivo e lo zio aveva bene scritto due volte! Fatti i conti si trovò ch’eran soli cinque o sei giorni. Ad ogni modo avrebbe dovuto scrivere prima ed Elena si diceva inquieta. Cortis le chiese cosa facesse Lao a Roma, tanto tempo. Di un affare sapeva, ma quello era finito. Quest’affare, di cui Cortis non diede a Elena altra spiegazione, dimenticando forse di avergliene già fatto cenno a Roma, era la cessione di credito convenuta con l’avvocato Boglietti, per la quale Lao gli aveva scritto da Roma ringraziandolo e partecipandogli che al pagamento era già stato provveduto da lui, direttamente.
Elena rispose che lo credeva occupato d’affari molto gravi, più di così non gli poteva dire. Cortis pensò agli affari del barone Di Santa Giulia, non parlò più fino al cancello di casa sua, dove cominciò a cadere una pioggerella tepida, minuta minuta, che si vedeva tremolar lucente in un raggio di sole e non si udiva.
«Entriamo» diss’egli, «aspettiamo qui o almeno facciamoci dare un’ombrello dal gastaldo.
Ella non volle, e prese, staccandosi dal suo braccio, il viottolo a sinistra che scende verso la villa.
Tanta impazienza lo ferì un poco.
«Senti» diss’egli fatti pochi passi, «non so perchè io debba continuare a stare in casa tua. Potrei venir qua, oramai. Non sono mica più convalescente; sto benissimo».
«Fa come vuoi» rispose Elena, in tono di sommessione. «Fa quello che ti par bene; può essere che sia bene fare così.
Egli si sarebbe aspettata un’altra risposta e non fu contento di questa. Gli parve troppo freddamente savia, ingiusta verso di lui. Facile per natura ad adombrarsi fuor di ragione, lo era adesso più che mai. Quelle parole d’Elena, male interpretate, gli fecero dimenticare per un momento le altre che poco prima l’avevano commosso.
Così nè l’uno nè l’altra provavano più desiderio di parlare, e la piova tepida, che veniva ora più fitta, sussurrando intorno a loro, sulle alberelle del pendìo e poi sui grandi noci, e poi sulle siepi della via maestra il suo continuo, quieto: «zitto, zitto» favoriva quel silenzio. Elena camminava un po’ innanzi, perchè lui non le aveva più offerto il braccio. Non v’eran più macchie di sole, adesso. I campi si perdevano, la via sfumava davanti in una nebbiolina bigia dietro alla quale i grandi fantasmi delle montagne parevano lontani, lontani.
Elena camminava frettolosa senza nemmanco aprire il suo ombrellino da sole. Lui era stato lì per dirle che lo aprisse e poi non aveva parlato. Il povero berretto rotondo di velluto nero non serviva che a farle stillare meglio l’acqua sugli orecchi e sul collo. Oltrepassata quella casa solitaria che chiamano «la Fabbrica», Cortis le si accostò a un tratto, le prese l’ombrellino, l’aperse, le prese il braccio, senza parlare. Lei lasciò fare, gli sorrise con una dolcezza inesprimibile, contenta che quella nuvola leggera fosse passata, non volendone parlare neanche lei. Quindi stese la mano, sopra il muricciuolo di destra, al ciglio erboso del campo fiorito di anemoni; ne colse uno, glielo diede.
Stavano per arrivare al cancello del recinto Carrè, quando ne uscì il portalettere. Cortis lo chiamò, gli domandò se avesse recato lettere a casa Carrè.
«Per lei, signor deputato, sì; lei ne ha sempre un fascio. Per la contessa, nessuna; solo i giornali.
«E per me?» chiese Elena palpitando.
«No, signora, niente, per lei.
Un giorno ancora! Elena trattenne un lungo respiro di sollievo, ma strinse involontariamente con il proprio braccio quello di Cortis. Questi la guardò, fu sorpreso di vederle tanta contentezza negli occhi. Come mai, se desiderava aver notizie dello zio? Ella arrossì indovinando la sua sorpresa, si affrettò a dire che certo lo zio si divertiva molto, a Roma, non pensava più a loro; meglio così!
Entrarono, presero la scorciatoia che, ad un centinaio di passi dal cancello, taglia diritto allo studio di Elena e quindi alla villa.
«Entriamo?» disse Cortis, nel passar davanti allo studio.
Elena sorrise un poco, pensando ch’egli non si accorgeva quanto fossero fradici tutti e due, ma tuttavia non si oppose.
«Sedersi poi no!» disse ridendo, poichè fu entrata. «Il mio povero divano!
Cortis non ci aveva pensato. Si dolse della sua distrazione, voleva uscire. Ma ora ella non volle, per non parere di biasimarlo. Si poteva stare in piedi, non c’era nessuna fretta di andare a casa! E adorava le violette, le rose banksiane bianche posate in un vasetto di bronzo sul tavolino. Intanto Cortis guardava i libri.
«Oh!» esclamò questi. «I tuoi ringraziamenti e saluti!
Era quel volume delle Mémoires d’outre-tombe che Elena, partendo per Roma, aveva lasciato a sua madre onde lo restituisse a Cortis. Cortis lo aveva poi dimenticato nel salotto della contessa Tarquinia, ed ora Elena, trovatolo in casa, se l’era ripreso.
«Non andavano?» disse Elena guardandolo con un sorriso affettuoso. «Erano troppo freddi?
Che dolcezza, che purezza di sorriso e di sguardo! Egli le prese ambedue le mani, la guardò in silenzio. Si udì un passo sulla ghiaia. Elena ritrasse le mani in fretta. Tosto dopo entrò un domestico ad avvertire che la signora contessa li aveva veduti arrivare e li aspettava subito.
«Cosa c’è?» chiese Elena.
«Credo che sia venuto un telegramma» rispose quegli. «Pare che arrivi il signor conte Lao».
«Ecco perchè non ha scritto» disse Cortis.
Elena non rispose, cercò di non lasciarsi vedere in viso, perchè avrebbe dovuto godere di quell’improvviso annuncio, e n’era tanto commossa da poter forse simular la calma, non la gioia.
Neppure la contessa Tarquinia era troppo felice di questa notizia, non le sarebbe rincresciuto niente che l’assenza del signor cognato fosse durata di più. Adesso poteva fare alto e basso, in casa, a sua posta, adesso nessuno brontolava, nessuno faceva dei brutti musi quando parlava lei, nessuno le diceva «sciocchezze!» Adesso respirava, insomma.
«A voialtri» diss’ella porgendo il telegramma a sua figlia. «Telegrafa da Bergamo; hai visto? E cosa gli viene in mente di condurre quel povero vecchio di Clenezzi che starebbe tanto meglio a casa sua? Non capisco niente. E poi cosa sarà andato a fare, a Bergamo?
Sfogava così, povera donna, il suo intimo dispetto; si sfogava sopra tutto a concludere che da simili originali bisognava aspettarsi ogni cosa.
«Che sarà successo?» pensava Elena salendo in camera. «Sarà oramai aggiustato tutto? Saran già fissati il giorno e il luogo della partenza? Dio, la temuta lettera era forse in viaggio? Suo marito le aveva fatto pervenire, prima che lasciasse Roma, un bigliettino in cui s’impegnava di scrivere cinque o sei giorni avanti la partenza. Le pareva di vedere suo zio, di udirgli dire «partirà il giorno tale», e un brivido le correva nella persona, le rompeva il pensiero. A che ora arriverebbe, questo zio? Lo desiderava con ansia febbrile. Quello stato lì era il peggiore di tutti. E non avere un’anima in cui versar la sua, non un aiuto, non un conforto! Anche se credesse come Cortis, non potrebbe tuttavia pregare che lo zio le portasse una buona notizia, un felice scioglimento impensato. Oramai quel ch’era fatto era fatto; non si poteva mutar più. Si poteva solo dire al Signore: Sia fatta la tua volontà.
Ella era in piedi davanti alla sua finestra con le palme strette a’ due lati del volto, con gli occhi spalancati, con il pensiero fisso in queste parole di preghiera, a cui però il cuore non veniva ancora. Udì la voce di Cortis che abitava il quartierino a pian terreno sotto di lei e ora aveva aperto la finestra e parlava con qualcuno. Ah no, il cuore non voleva dirle quelle parole; non lo poteva! Il cuore voleva vita, amore, felicità! Le due palme strette al volto discesero lungo le guance con una espressione convulsa che le allargava gli occhi ancor più. «Daniele!» diss’ella sottovoce, angosciosamente. E chiuse gli occhi, si sentì un momento sul suo petto con il suo amore e il suo nome.
La contessa Tarquinia venne a consultare sua figlia sulla camera da disporre per il senatore Clenezzi, sul pranzo da preparargli, se di grasso o di magro, perchè era di sabato e la contessa non lo conosceva abbastanza, il senatore, non sapeva niente delle sue idee, delle sue abitudini. Non aveva proprio voglia di tanti fastidi!
«Almeno» diss’ella, poi che restò sola con Elena «dico che sapremo qualche cosa di tuo marito. Non ti ha mica scritto, eh? Bella, sai. Così sei ancora più libera, puoi star qui fino che vuoi.
Ella non sapeva niente delle pratiche segrete di Lao; sapeva solo, da Elena, che quella sera, a Roma, lo aveva lasciato abbastanza tranquillo, speranzoso di uno scioglimento che non sarebbe, a quanto diceva, il peggiore dei possibili, disposto a lasciar lei libera di andare o stare come le piacesse meglio.
Elena non le rispose, la seguì abbasso per andar a vedere un quartierino di fronte a quello di Cortis, dove avrebbe alloggiato Clenezzi. In sala trovarono Cortis che stava leggendo delle lettere e che sorrise silenziosamente ad Elena quando gli passò davanti.
«Dimmi tu, Daniele» gli chiese la contessa tornando in sala due minuti dopo, «dimmi tu cosa gli si deve dare a questo senatore. Di grasso o di magro?
«Elena lo sa» rispose Cortis.
Elena fe’ un atto di sorpresa.
«Lo so» diss’ella.
Cortis si dolse, con una ipocrisia tradita dagli occhi gai, ch’ella non leggesse le sue lettere. Le aveva bene scritto una volta che Clenezzi andava a mangiar di magro in Trastevere, dove un cuoco lombardo gli faceva certi... certi... come li chiamava? casonsèi.
Ah sì, adesso Elena se ne ricordava.
«Che vergognosa!» esclamò sua madre. «Sgridala, che hai ragione. Scordarsi le cose proprio nel momento giusto di doverle sapere!
Andò a vedere se il suo cuoco milanese sapesse fare questa roba. Elena aspettò che chiudesse l’uscio e chiese quindi a suo cugino se credeva proprio che non leggesse le sue lettere.
«Sai...» soggiunse, e voleva dire: quante volte! Ma non compì la frase. Cortis intese e, presala per mano, se la trasse a sedere vicina, sul canapè.
«Lo so» diss’egli teneramente. «Lo immagino.
Ella gli aveva abbandonata la sua mano e guardava in silenzio ora lui, ora la porta. Pensava che partirebbe forse tra pochi giorni, che le era lecito pigliarsi quelle dolcezze. Poi sussurrò:
«Hai avute tante lettere.
«Sì, amici di Roma.
Ella guardò la propria mano prigioniera e disse ancora più piano di prima:
«Cosa vogliono?
«Oh niente, avere le mie notizie, sapere se vado, quando vado.
«Adesso no...» diss’ella.
«Oh no certo!
Elena liberò la sua mano, ne accarezzò leggermente quelle di Cortis, guardandole, sussurrando:
«Ma dopo... quando starai bene... proprio bene... proprio come prima...
Strinse ora quelle mani, alzò il viso e fece un sorriso di dolcezza, di tristezza infinita, dicendo:
«Allora sì?
«Signore, vi ringrazio!» disse la contessa Tarquinia rientrando. «Li sa fare.
«Sì?» disse Cortis, alzandosi senza rispondere ad Elena. «Allora il pranzo è trovato. Per la serata, una bottiglia, un poco di Donizetti o di Pergolese, e l’uomo è felice.
«Per la musica c’è Elena» disse la contessa.
«Io non suono sicuro. E a che ora dite che vengano?
Non potevano venire che alle sei e mezzo; ci mancavano ancora più di quattr’ore. Non pioveva più. La contessa aveva un paio di visite a fare in paese. Fece attaccare e un quarto d’ora dopo se ne andò.
«Che lettere ci siamo scritte!» disse Cortis, tornando a sedere presso sua cugina. «Pare impossibile!
«Perchè impossibile?
«Mi domandi?
Elena abbassò gli occhi, disse timida e grave:
«Io non voleva che tu mi amassi.
«Perchè non volevi?
«Lo sai, perchè credevo che non potessi essere felice, così.
Cortis si chinò verso di lei, le disse sorridendo:
«Ma adesso non lo credi più, non hai più di queste ubbìe?
«Lo credo ancora» rispose Elena coprendosi il volto. «Solo non ho più quella forza. Sai» soggiunse a un tratto lasciando cader le mani «che in Sicilia ho sperato di morire?
Egli le afferrò le mani, la guardò stringendo le labbra, respirando affannosamente come se avesse paura che gliela portassero via. Ella ebbe un momento di vertigine, socchiuse gli occhi sentendosi mancare, gli tolse pian piano le mani, ritrasse la persona nell’angolo opposto del canapè. Un domestico passò in quel punto per la sala recando degli oggetti nelle camere destinate al senatore Clenezzi.
«Facciamo due passi fuori?» disse Cortis. «Non piove più.
«Sono troppo stanca» rispose Elena. «Va tu, va solo.
Cortis non rispose e non si mosse. Il domestico, ripassò loro davanti, uscì.
«Era meglio» mormorò Elena.
«Cosa era meglio?
«Morire.
«Tu non devi mai dir questo!» esclamò Cortis con tale impeto, ch’ella temè non lo udissero, gli fe’ segno di chetarsi, di abbassar la voce.
«Non devi dir questo» riprese egli piano, ma sempre con accento concitato. «Non sai quello che dici. Non sai come t’amo, io. Non mi permetto un solo pensiero colpevole, sai, Elena, neppur uno! Mai! Ma dimmi, credi tu che io sia nato per quella bassa felicità che cercano i più? Io, vedi, ho bisogno di amare e anche di soffrire per quello che amo. Allora sono felice, allora mi sento come un fuoco di vita nell’anima, come una benedizione di Dio, sento tutta la mia dignità d’uomo, tutta la mia forza. Anche quando si tratta delle mie idee, del mio paese che amo tanto. Sai, la coscienza mi dice che dovrebbero passare davanti a tutto. Bene, anche per loro sono felice di soffrire. Più mi si combatte, più mi si offende, più soffro, meglio sto. Se adesso mi sorride poco l’idea di tornare a Roma e alla Camera, è perchè ho paura di non potervi far niente di buono, e non per le opposizioni. E se t’amo, Elena, ma come, ma come vuoi che la mia felicità non sia questa di seguitare ad amarti, sacrificando, ora e sempre, tutto quello che si deve sacrificare, ma sapendo, però, che anche tu mi ami e che il tuo amore è così forte e così nobile come il mio? Come vuoi che io prenda moglie? Perchè? Per aver la vita ingombra e l’anima vuota? Il mio amore sei tu, la mia vita sei tu, la mia felicità sei tu, anche così, vivendo come spiriti, pregando Dio che ci aiuti sempre, e ci riunisca meglio un giorno o l’altro, non dico in questo mondo! Perchè io lo prego così, sai, e ci ho una gran fede!
Adesso era Elena che respirava affannosamente, bevendo le parole calde e lo sguardo di lui. Era troppo! Si alzò di slancio, gli strinse forte forte la mano, non rispose ai suoi richiami, uscì in giardino per la porta di ponente, andò a cadere sopra uno dei sedili di ferro che la contessa tiene lì fuori.
Un gran vento freddo si era levato da settentrione e ruggiva negli abeti, infuriava negli arbusti, nel glicine avvolto al cipresso morto, nell’erba del prato, confondendo la sua voce a quella profonda del Rovese che veniva su da man destra, ripercossa dalle squallide scogliere nude del monte Barco. In fondo a Val di Rovese il cielo era puro. Una striscia di nitido sereno mostrava la neve e il sole sulle cime lontane di Val Posèna. La vetta del Passo Grande non aveva più nebbie; il profilo ne spiccava bruno sulle nuvole chiare che correvano a furia verso mezzogiorno; e là in faccia, tra Val di Rovese e Val Posèna, le guglie del Corno Ducale avevano un chiarore rossastro, una certa luce serena.
Elena sentiva un ristoro nell’aspetto del cielo e delle montagne; sentiva il furioso vento freddo come uno spirito di purezza e di pace che le facesse bene sulla fronte e nel petto, che le quietasse l’immaginazione, il sangue, il cuore. Ed anche i sussurri, gli scrosci subiti per le piante, tutte le varie voci dolenti e sdegnose del vento le facevan bene, quantunque non potesse ora parlar con loro come una volta, quando le ascoltava in qualche angolo deserto, contemplando sola, beata, e tanti dolci pensieri le venivano in mente, tanti sogni. Neppure alle montagne poteva ora parlare, ma tuttavia poteva, fra i loro cari aspetti venerabili, ascoltarsi il cuore come nell’intimo della sua cameretta.
Ah folle, imprudente cuore, cosa diceva mai?
«Andrò» diceva; «ma se non andassi?» E batteva allora, batteva forte, forte, da spezzarsi, immaginando con violenza, contro una debole volontà renitente, la infinita gioia di viver vicino a lui, di saper che sarebbe così, tutta, tutta la vita. «No, no» disse ella sottovoce, ma pur pronunciando le parole, «partirò, partirò, debbo partire.» E soddisfatta così la coscienza, subito ritornava a quelle immaginazioni, parendole di poter accontentare almeno la fantasia, per un momento.
«Contessina!» le gridò la cameriera da un balcone. «Non stia a quel vento!
Ella trasalì come se avessero sorpreso il suo segreto, si alzò e andò a rifugiarsi nel piccolo gabinetto, dove almeno occhi indiscreti non arrivavano.
Il volume delle Mémoires era lì aperto sul tavolino come ve lo aveva lasciato Cortis. Elena lo prese. Ancora, ancora quella pagina, quelle parole: «jamais ternie». Non ne poteva staccar gli occhi, e pareva che venissero a lei, proprio a lei, quelle parole, e nel momento opportuno; se ne difendeva, si diceva che la sua volontà non aveva peccato; solo la fantasia. Non v’era ancora una macchia, una sola piccola macchia sulla sua vita! Poi andò avanti a leggere quasi inconsciamente, si fermò su queste altre parole:
«Depuis t’avoir vu, mon coeur s’est relevé vers Dieu, et je l’ai placé tout entier au pied de la croix, sa seule et véritable place.»
Un gran silenzio si fece nell’anima sua, un lungo silenzio di ogni pensiero e di ogni sentimento. Pensò poi che avrebbe desiderato anche lei di poter adorare la croce così. Riprese il libro e la lettura:
«Il n’est rien tel, mon ami, que l’idée de la mort pour nous débarrasser de l’avenir.
Si fermò anche qui.
Era vero, in Sicilia aveva desiderato di morire. Adesso no, benchè l’avvenire le comparisse tanto spaventoso. Come mai? Pareva impossibile. Vi era forse nelle oscurità dell’anima sua molta più radice di speranza ch’ella stessa non credesse; v’era fors’anche un vago timore di giungere mal preparata a quel mistero di là dalla tomba, di cui lei e Cortis avevano idee tanto diverse. Quale spasimo per esso s’ella morisse senza fede!
Avrebbe voluto pensarci, a questa fede, e non poteva. La tormentosa aspettazione dell’arrivo di suo zio l’aveva, ad ogni suonar d’ore da Villascura, riassalita più forte, cresceva ogni momento. Tentò continuar la lettura e dovette smettere subito. Era stanca e non poteva star ferma. Le pesava star lì, o star con sua madre ch’era già rientrata. E mancavano ancora quasi tre ore alle sei e mezzo.
Stava sulla soglia del gabinetto quando uno strepito di zampe e di ruote suonò sotto il porticato. Diede addietro per istinto. Aveva paura, adesso, che fosse lo zio. Come mai, così presto? Quanto avrebbe dato perchè non fosse lui, perchè tardasse almeno un’altra ora! Non aveva ancora pensato se dovesse domandargli di suo marito o aspettare una parola sua; non aveva ancora pensato a comporre il proprio contegno sì da riuscirgli impenetrabile, perchè con lui, che sapeva tante cose e aveva forse qualche segreto sospetto, non sarebbe troppo facile il dissimulare. Ecco ch’era lui, proprio lui; ecco i saluti clamorosi di Cortis, la voce del senator Clenezzi. Sua madre ordinava a un servo di chiamare la contessina. Ella si fece coraggio e si avviò verso il portico.
Il senatore Clenezzi le venne incontro solo, con il cappello in mano, gridando:
«La vede, la vede, la vede? Suo zio, sa! Io non avrei mai avuto il coraggio! Cara baronessa!» diss’egli inchinandosi tutto sorridente quando fu a portata di stringerle la mano.
Elena gli rispose alcune parole gentili, poi gli domandò subito dello zio.
«Ora sta bene, proprio bene» rispose il senatore. «È scappato dentro per paura del vento, perchè quello poi è un affare serio. Non ho mai visto una cosa simile. Se non mi sono soffocato, in carrozza!...
Elena lo interruppe, gli domandò dell’umore di suo zio.
«Ah bono, bono, bonissimo. Vorrei che l’avesse veduto stamattina, quando ci siamo messi in viaggio. Ha voluto prendere il treno omnibus del mattino per guadagnare qualche ora. Pareva un ragazzo.
«Mi dica» domandò ancora Elena in fretta. «Sa ch’egli abbia finiti i suoi affari a Roma? Che non ci debba più tornare?
«Oh pare di no, pare di no. Mi ha detto che adesso deve mettersi in economia e che non si muoverà di qua per un bel pezzo, ma che è sicuro di averci buona compagnia, sempre. Andiamo, andiamo, baronessa, altrimenti quello là va in furia.
Infatti Lao, dalla sala, picchiava forte nei vetri, chiamava «Oh! oh!». Elena, cui le parole del senatore avevano per un momento gelata, si scosse, corse a quella volta sorridendo.
Alle otto di sera, due ore dopo il pranzo, il senatore Clenezzi parlava ancora con entusiasmo del famoso piatto bergamasco, riuscito perfettamente.
«Magnifica villa, magnifico paese, contessa» gridò rientrando con Daniele da una passeggiata «ma quei casonsèi!
Credeva che la contessa fosse sola, ma invece ella aveva circolo, quella sera. Erano accesi in sala i lumi del biliardo, e il conte Lao si divertiva a giuocare da solo, come usava nei momenti di buon umore, onde persuadersi di non avervi ancor perduto l’occhio e la mano.
Nella stanza del piano erano accese le candele del tavoliere da giuoco, le candele del piano, la grande lucerna sul tavolino ovale davanti al canapè dove la contessa era seduta con la signora Zirisèla. L’arciprete, il medico e il signor Zirisèla che avevano appena incominciato il tresette, si alzarono, all’entrar di Clenezzi e di Cortis, con un diabolico strascicar di sedie e di piedi benchè il quarto giuocatore, don Bortolo, restasse seduto brontolando: «Andiamo, andiamo, quante minchionerie!
Si alzò anche la signorina Zirisèla, molto rispettosamente. Si alzarono il dottor Picuti e altri due o tre signori che guardavano il giuoco. Il povero Clenezzi, miope, non sapeva da che parte voltarsi, faceva inchini a più non posso, mentre la contessa Tarquinia gli snocciolava in fretta una litania di presentazioni.
«E la baronessa Elena?» diss’egli, guardandosi attorno.
Elena entrava allora in sala. Aveva udito Cortis passare con Clenezzi sotto le sue finestre, ed era discesa subito. Lao posò la stecca, accennò silenziosamente a sua nipote di accostarsi al biliardo.
Elena obbedì, palpitando.
«Non mi domandi niente?» diss’egli.
«Aspettavo che parlassi tu, zio.
«Bella anche questa! non te ne importa niente, a te?
Elena gli rispose con uno sguardo così serio, così doloroso che lo zio si pentì della sua ruvidezza, e si affrettò a dire:
«Bene, bene, spero che sia finito tutto, ma è stato un affar serio.
«Finito tutto?» esclamò Elena. «Come?
«Eh, come! Il processo non si farà più e non ci son più debiti altro che per me.
«E lui?» diss’ella sottovoce.
«Cosa lui?
Elena non ebbe cuore di domandar che ne fosse di suo marito. Lao voleva certo dir qualche cosa perchè non la richiese più di spiegarsi meglio.
Prese Elena per le braccia, e, trattala a sè, le mormorò:
«Vuoi sapere quanto mi costi?
«Scusa, Elena» disse avvicinandosi timidamente la signorina Zirisèla che dava del tu a Elena con il tono di chi teme prendersi troppa libertà. «La contessa e quel signore ti pregherebbero di venire.
«Va pur là» disse il conte. «Parleremo dopo.
Elena esitava.
«Sai cosa vogliono?» diss’ella.
La signorina non aveva inteso bene. Far musica, forse. Certo si discorreva, adesso, e con calore, nella stanza del piano. Elena osservò che non pareva vi si desiderasse molto la musica. Pendeva ancora perplessa quando sua madre venne sulla soglia della sala e chiamò:
«Dunque, Elena?
Ella obbedì senza rispondere e Lao tornò a giuocare al biliardo.
«Ho piacere che sia venuto fuori questo discorso» diceva il dottor Picuti, alzandosi rosso rosso e dirigendosi a Cortis che ripeteva:
«Lasci pure, lasci pure, non fa niente.
«Basta, basta, adesso facciamo un po’ di musica» disse la contessa. «Elena, ci fai sentire qualche cosa!
«Brava, brava!» diceva Clenezzi sottovoce, ma Elena non ebbe neppur il tempo di esprimere il suo reciso rifiuto perchè il dottor Picuti, risoluto di parlare ad ogni costo, saltò subito in mezzo con un solenne:
«La permetta, contessa; la permetta, deputato.
Qualcuno avea tirato in campo, poco opportunamente, la protesta degli elettori contro Cortis, e Zirisèla aveva brontolato qualche parola, giuocando, su certi machioni che soffian nel fuoco stando coperti, come s’era detto del dottor Picuti, riguardo a quella protesta.
«Soffiar niente e machione niente» proseguì il Picuti.
«Chi vi ha nominato, voi?» esclamò Zirisèla.
«So quel che dico» replicò l’altro inviperito. «So che buone lingue abbiamo in paese e come si fa a rovinare un galantuomo senza nominarlo.
«Ah Picuto, Picuto!» interruppe don Bortolo. «La prima gallina che canta ha fatto l’uovo.
«Andiamo, andiamo, Bortolo» borbottò l’arciprete picchiando con le sue carte sul tavolo, «intende animum tuum ad ludum.
«Sì sì, ad ludrum... ad ludrum... ad ludrum...» brontolò il cappellano aguzzando gli occhi sulle proprie e palpandole tutte, una per una.
Intanto il dottor Picuti, dopo avergli risposto: «Voi tacete, che avete un bel tacere», gridava:
«Glielo dirò io, signor deputato, chi sono state le canaglie.
«Ohe, ohe, ohe» fece Zirisèla, mettendo giù le carte e girandosi sulla sedia verso colui.
Allora Cortis non si tenne d’imporre silenzio a tutti.
«Basta» diss’egli «e non voglio saper niente, non me n’importa niente. Non ho rancore contro nessuno, proprio. E poi, voialtri, elettori vecchi, siete morti e sepolti. Come volete che me la pigli con voi? Molto più che sono morto e sepolto anch’io.
«Come, come, come?» dissero alcune voci.
«Sì, sì, morto e sepolto, basta così» rispose Cortis; «e Lei, caro Picuti, vada a guardare il tresette, e Lei, cara Elena, venga a fare della musica.
L’arciprete, Zirisèla e gli altri bisbigliarono un momento fra loro, mentre Elena accennava di no e guardava Cortis con una preghiera muta negli occhi.
«La scusi, dottor Daniele» disse a un tratto Zirisèla. «Ella non si è mica dimesso da deputato?
«No, non ancora; ma lo faccio subito, appena sarò in grado di occuparmi un poco; perchè quello che volevo dire lo scriverò.
Tutti protestarono, tranne i preti e la signorina Zirisèla. Ma perchè? Ma per cosa? Ma La fa male! Lei ha da esser sempre il nostro deputato! Anche il mangiapreti Zirisèla disse, alludendo al silenzio dell’arciprete, che aveva le proprie idee, ma che quando certa gente taceva, a lui gli veniva voglia di gridare: «Viva il dottor Daniele, per Giove! Viva il nostro deputato!
«Io non taccio un corno, per tacere» esclamò don Bortolo, «ma... dico... contessa... se la vuol che si faccia questo brindisi... non so se mi spiego.
«Eh mi pare!» gridò Lao dalla sala.
«Bravo conte! Lei mi capisce per aria, lei! Capo d’un conte! Un bicchieretto solo.
Tutti furono addosso a quell’indiscreto di cappellano.
«Eccoli!» diss’egli gridando più forte di loro. «Son beati, capisce, contessa? E mi strapazzano!
Lao comparve sulla porta con la stecca in mano.
«È questa la musica» diss’egli «che si fa stasera?
«Avanti, avanti, baronessa!» disse il senatore Clenezzi.
Elena gli fece un gesto supplichevole, ma inutilmente. Il senatore insistette. Ella si avvicinò a Cortis, gli disse piano: «Salvami, non posso.
Cortis chiamò Lao ch’era ancora sulla porta.
«Comincia tu» diss’egli.
«Io? Bravo!» rispose Lao, girando sui talloni.
Cortis si rivolse alla signorina Zirisèla che si scusava tutta tremante, sapeva poco, era fuori d’esercizio. Per fortuna il papà di Zirisèla intervenne col suo vocione burbero di comando.
Incominciato il supplizio della signorina, Cortis chiese sottovoce ad Elena cos’avesse, perchè non potesse suonare.
«Sono stanca» diss’ella, «e poi, sai! Davanti a questa gente! Se fossimo noi due soli, suonerei forse. Ma neppure» soggiunse dopo un momento.
«Perchè neppure?
«Non domandarmelo. Forse te lo dirò. Non adesso però. Ma tu non domandarmelo, sai.
Ella potè prendergli di furto una mano, stringergliela forte come se avesse paura. La contessa Tarquinia, udendoli bisbigliare, li guardò. Allora tacquero, finsero di ascoltare le agilità della signorina Zirisèla.
Ambedue sentivano il rapido stringersi dei loro legami in quella tacita complicità, pensavano al futuro. Elena ne vedeva uno spaventoso; Cortis aveva dei sinistri presentimenti. Il contegno d’Elena era nuovo da poco in qua. Ella non si curava molto, adesso, di nascondere i propri sentimenti, o almeno non vi riusciva più, e ciò bastava ad accrescere la passione di Cortis. Ma dove si andrebbe a questo modo? Non verrebbe presto il momento in cui non potrebbero più stare nè divisi nè uniti?
Furono soli a non batter le mani quando la signorina schiacciò sul piano gli ultimi accordi. Elena se n’avvide troppo tardi, andò a congratularsi con lei.
«A Lei, senatore Clenezzi!» disse Cortis, forte. «Lei cantava una volta, m’ha detto. Ci faccia un po’ sentire quel pezzo di Pergolese, quelle che ci ha cantato donna Laura a Roma.
«È matto?» rispose il senatore. «Lei ce lo deve cantare, baronessa. Sa, le famose strofette che Le ho fatto mandare a Cefalù: Se cerca, se dice.
Ma Elena non cantava, non aveva mai avuto voce. Lao, ch’era rientrato durante il pezzo della Zirisèla, si pose al piano senza parlare e cominciò a cercarvi il motivo del Pergolese, interrogando Clenezzi con gli occhi.
«Bravo!» esclamò costui. «Bravo! Così» E si mise a cantare con la sua fioca voce fessa:
Se cerca, se dice...
Nel dire la frase:
Ah, no, sì gran duolo |
trovò tanto improvviso vigore che don Bortolo esclamò restando di giuocare «bravo, cane!» e fece rider tutti, mentre il senatore continuava imperterrito:
Rispondi, ma solo: |
Soltanto Elena non rideva. Chiese di chi fossero le parole. Clenezzi cominciò un panegirico di Metastasio, levando al cielo questi versi tutti sentimento, tutti vezzi, tutti musica anche senza le note divine del Pergolese.
«Sì, sì» disse Lao alzandosi, «meglio questi pochi versi antichi che tanto brodo moderno, non dirò di porco, che io lo apprezzo, ma di asino. Falsi però anche questi, sapete; falsi nella midolla. Zucchero di barbabietole. Lo si sente anche nella musica, quasi. Bella, ma, ma, ma... non so, un poco effeminata. Pare impossibile che quella roba lì sia d’un abate. Si capisce ch’era un abate da burla, Metastasio. Un prete deve sentir la passione più di così.
«Che discorsi!» brontolò la contessa Tarquinia.
«Non è vero, don Bortolo?» ribattè Lao.
«Cosa, signore?
«Che quando un prete è innamorato, è furioso?
«Tre assi, conte!» rispose il cappellano continuando a giuocare. «Can da toro d’un conte! Tre assi, tre assi.
L’altro si volse ad Elena.
«Dimmi, cara te, se uno che ama ed è riamato sul serio pianterà mai l’amica per cedere ad un altro sentimento qualsiasi, a un dovere immaginario come quello lì? Che amore vuoi che sia? Se è amor vero, neanche il codice gli ha da resistere!
«Oh!» fece Cortis, e voleva continuare, ma Lao gli ruppe la parola in bocca.
«Non fatemi teorie!» diss’egli. «Son vecchio e conosco il mondo. Cosa mi venite a contare? Non credo a certi eroismi. Storie! Sono poi anche eroismi balordi. Di tre persone ne potrebbero star bene due. Signor no, bisogna che l’eroe, questo imbecille, si sacrifichi per farle star male tutt’e tre; perchè vi domando io, se non starà male l’amante, se non starà male la moglie e se non starà male anche il marito. Son cose contro natura che non possono riuscire a bene. Ma diavolo!
Elena disse allora con una voce strana, diversa dalla sua solita:
«Si deve guardare, prima di fare il proprio dovere, cosa ne seguirà, chi sarà contento e chi non sarà contento?
«Molto, molto si deve guardare in questo genere d’affari» rispose Lao.
«Che lievito di canaglia che hai!» disse Cortis, ridendo.
«E credete» soggiunse Elena, «che quel personaggio di Metastasio avrebbe fatto bene a dirglielo, alla sua amica, che doveva andar via per sempre?
«No» rispose Cortis. «Se lo credeva un dovere no, perchè poi gli sarebbe stato molto più difficile di compierlo.
Il tresette finì in quel momento.
La contessa Tarquinia avea fatto recar del vino poco prima.
«Al nostro deputato, dunque!» esclamò don Bortolo. Tutti fecero eco.
«Grazie» disse Cortis «ma non accetto brindisi.
«Oh sì, sì» esclamò Elena. «Da me sì» soggiunse sottovoce.
Egli non osò contraddirla in quel momento e tacque.
«Io ho bevuto, intanto» disse il senatore, ed è un vino che non può sbagliare.
«Vino da preti, signore» osservò il cappellano. «Vino da poveri sacerdoti. La capirà in che paese la si trova, signore.
La conversazione si sciolse subito. Tutti si congratularono. Non erano ancora usciti dalla sala, che Lao si lagnò del tanfo rimastone.
«Aprir tutto per dieci minuti, qui» diss’egli a sua cognata.
Vennero i domestici, portarono via i lumi, apersero le finestre. Solo Cortis rimase nella stanza a godersi il lume scuro delle stelle, il soffio e il fragor del vento. Aveva forse sperato che rimanesse anche Elena, ma ella era uscita con suo zio, l’aveva seguito sul più lontano dei quattro canapè della sala, mentre Clenezzi calando adagio adagio sul più vicino accanto alla contessa Tarquinia, le diceva con un sospiro:
«Ah contessa, Pergolese è una gran cosa, ma quei casonsèi!
«Del resto» continuò Lao sottovoce «è combinato tutto come si desiderava. C’è solo questo di nuovo, che non va più in America.
Elena gli afferrò un braccio, gli piantò gli occhi in viso.
«Non ha dei conoscenti a Yokohama?» disse Lao.
Elena lasciò il suo braccio, non rispose, benchè sapesse perfettamente che dei lontani parenti di suo marito, inglesi, avevano una casa di commercio a Yokohama.
«Non lo sai, tu?» continuò l’altro. «Pare che ne abbia. Almeno lo ha detto lui all’avvocato chiedendogli questo cambiamento. Non so, pare che qualcheduno di costoro sia a Roma, che gli abbia fatto delle proposte. Avrà forse un collocamento. Così sarai più contenta anche tu.
«Oh sì, sì» diss’ella.
Non v’era nell’ampia sala che una macchia di viva luce sul panno verde del biliardo, sui birilli, sulle bianche palle brillanti. Tutto il resto era penombra ed Elena vi si sentì più coraggio per una domanda non sincera:
«È già partito?
«No, no. Almeno non credo; perchè io ho lasciato Roma da cinque giorni e vengo da Bergamo, ora. Mi occorrevano danari, capisci, e li ho trovati a Bergamo. Ma no, non è partito certo. Bisognerà tuttavia che parta presto perchè l’avvocato ha trattato, sì, con tutti i creditori, ma non fa pagamenti se lui non è via. Pare poi che lui, almeno finora, non abbia capito per chi l’avvocato agisca. Pare che sospetti non di noi, ma del Governo. Già Boglietti lo deve aver aiutato a questo. Lo vuoi sapere, dunque, quanto mi costi?
«No, zio, ti prego» rispose Elena, alzandosi.
«Dove vai, adesso?» le chiese Lao.
«Ho caldo» diss’ella.
Uscì, per la porta vicina, nel giardino.
Là, in occidente, i grandi pianeti fiammeggiavano nel cielo sopra le montagne nere, come la notte ch’ella li aveva guardati dal finestrino del vagone, viaggiando verso Roma e immaginando il mare, la lontana Sicilia: sinistre luci nella loro fissità splendente al disopra delle ombre tutte piene di fragor d’acqua e di vento. Elena si trattenne un poco a guardarle, appoggiata allo stipite della porta. Poi scivolò via rapidamente a sinistra, girò il canto della casa e venne a fermarsi davanti alla finestra della stanza del piano. Cortis vi si affacciò subito.
«Vai a Roma, sai» diss’ella. «Torni alla Camera.
Egli non rispose.
«Per amor mio» sussurrò Elena senza guardarlo. «Se fossimo uniti andresti» soggiunse. «Lo vorrei.
«Tu vorresti solo quello ch’è bene, amica mia» diss’egli sorridendo. «E se non mi paresse bene non ti ascolterei.
«Sicuro, ma questo è bene.
«Non lo so; a ogni modo, sarebbe per le elezioni generali. Adesso non so se mi converrebbe di tornare alla Camera.
Pensò un poco e quindi proseguì abbassando la voce:
«Però è vero, se fossimo uniti, mi sarebbe più facile di ritornare. Un altro sognerebbe di fermarsi qui a vivere d’intelletto e d’amore. Io no, io vivrei d’amore e di battaglie; ti vorrei testimone delle mie vittorie e conforto delle mie sconfitte. Mi getterei nella lotta a occhi chiusi, solo, da don Chisciotte. Oh che vita sarebbe! Che vita, Elena! Aspetta!
Saltò senz’altro sul davanzale della finestra e poi giù a fianco di sua cugina, la trasse con sè verso i prati.
«Mi sento un fermento di vigore, stasera» disse egli, «come nelle convalescenze della mia prima giovinezza. Tornerei certo a Roma e alla politica attiva se potessi sperare che là si vivrebbe vicini come ora qui. Altrimenti no. Se tu tornassi a Cefalù, temo che resterei a Villascura.
«E se mi fermassi con la mamma e con lo zio?» diss’ella.
«Credo che andrei, perchè mi saresti tanto più vicina, a ogni modo. Sarà così, non è vero? Resterai con loro?
Ella gli strinse il braccio, gli appoggiò quasi la tempia alla spalla, e mormorò:
«Saresti contento?
Cortis piegò il viso a quello di lei, la guardò negli occhi. Ella li chiuse quasi subito e camminava così, alla cieca, con la bocca socchiusa, col cuore tremante, quando udendo chiuder le invetriate della finestra da cui s’eran partiti, staccò il capo dalla spalla del suo compagno, sospettosa d’un occhio umano che la potesse coglier tra l’ombre della notte in quell’atto di abbandono.
Adesso c’era un lume da capo nella stanza del piano.
«Vuoi che rientriamo?» diss’ella fermandosi.
Rientrò sola, dalla porta ond’era uscita, mentre Cortis faceva un lungo giro a sinistra per andare agli abeti senza passare dal portico.
Elena si sentiva male nello staccarsi da lui; tanto male quanto non s’era sentita mai. Non si riconosceva più; le pareva di essere smossa oramai, nei suoi propositi, da una corrente che finirebbe col mandarli a fascio, col portarseli via. La sua coscienza parlava ancora, le diceva: «I momenti supremi son questi, sei in tempo di salvarti», ma un indistinto fuoco di amore, di sgomento, di rimorso, le faceva credere di aver già mosso il primo passo, se non altro col pensiero, sopra una china dove non riuscirebbe a fermarsi. Entrò in sala subito, fuggendo quest’angoscia. In sala non v’era più nessuno. Lao, Clenezzi e la contessa Tarquinia eran tornati nella stanza del piano, dove il primo suonava con giovanile slancio l’aria dell’Olimpiade, e Clenezzi ne singhiozzava miserevolmente le parole:
Se cerca, se dice: |