Pagina:Daniele Cortis (Fogazzaro).djvu/330

320 daniele cortis


teste nere degli abeti che spuntavan su dietro a quello.

Anche laggiù a villa Carrè e sulle ghiaie del Rovese, e, al di là, sulla muraglia nuda di monte Barco erano stampate larghe macchie di sole. Elena non vedeva dietro a sè l’austero Passo Grande farsi azzurro, cupo, quasi nero, al di sopra delle sue larghe frane, dei borri nevosi, sotto una corona pesante di nebbione. Non vedeva questa minaccia, ma pure anche i pallidi sorrisi di sole com’eran tristi! Quella sensibilità di Cortis, quel suo compiacersi della natura, della solitudine, delle campane, così nuovo in lui, le davan pena.

Non era ben guarito ancora, nello spirito. Guarirebbe? O qualche corda s’era spezzata in lui?

Daniele ascoltava le campane che dicevano sempre sempre la stessa cosa profonda, inenarrabile, mettevano nella solitudine un raccoglimento devoto.

«Mi par d’essere ancora un bambino» diss’egli «quando mia nonna mi faceva recitar l’Angelus Domini.

«Io pregherei meglio qui che in chiesa» disse Elena.

«E come pregheresti?» chiese Cortis sorridendo. «Cosa domanderesti?

«Non merito niente, Daniele» diss’ella triste. Vi era tanto affetto in quel «Daniele» insolito, tanto dolore, tanta sincerità di confessione!

Le campane del mezzogiorno suonavano ancora, ma Cortis non le ascoltava più. Aveva qualche cosa da dire, qualche cosa che lo turbava molto. Si alzò, prese il braccio d’Elena, si avviò con lei giù nell’ombra verdechiara del viale di carpini.