Dal mio verziere/Poeta o scienziato

Poeta o scienziato?

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Impressioni di un sogno Per colpa di un Poema

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Poeta o Scienziato?

Mentre quasi tutti i giornali letterari fanno a gara per innalzare in un’apoteosi sfolgorante Camillo Checcucci e il suo poema della Vita, il Fanfulla della Domenica ci fa una risatina su e gli volta le spalle. Anche elevando la risatina e l’atto all’ufficio salutare dello schiavo antico dietro il carro del conquistatore, dispiace di non vederne ammessa la discussione da uno dei giornali più simpatici d’Italia. Oh, bel paese, dalle facili ebbrezze e dai facili disdegni! bel paese in cui ogni giorno spicca il volo e... si tuffa un Icaro, sei pur adorabile coi tuoi novi entusiasmi di nazione ardente e giovinetta! Intanto la novellina di Cornelio Lapide e l’esempio dell’Alfieri che qualcuno tirò in ballo per questo poeta emergente dalle ombre, mi sembrano abusi d’un effetto di gran cassa in una marcia, sia pure trionfale. E innanzi tutto è proprio vero poeta il Checcucci? poeta nell’anima, nella fantasia, nelle sensazioni, nelle divinazioni? o piuttosto la poesia non è in lui che la fodera del geologo, dell’ignologo, dell’areologo, del naturalista?... Egli sale, è vero, a vertiginose altezze, e si immerge nei bagliori di atmosfere luminose; ma vi sale in pallone: non coll’ala libera e poderosa; ed assai spesso mentre l’anima [p. 35 modifica] e lo sguardo saturi di quei splendori provano la voluttà del dissolversi nell’infinito, una cordicella che si strappa, un sacchettino di zavorra che cade, una valvola che sibili ci ricordano che viaggiamo sull’aria per via di combinazioni fisiche e non sul mantello di Mefistofele o sull’aquila di Giove. Fa tristezza ed ira cadere così da un bello squarcio di lirismo in una frase giuridica o in una fredda formula tecnica di chimica e d’astronomia; e al moltiplicarsi degli esempi, incalzanti verso il fine, si arriva a far un atto d’impazienza e concludere che la Vita del signor Checcucci è un delirio scientifico, uno di quei deliri splendidi e tremendi che il Lombroso potrebbe additarci come affermazione di qualche sua teoria: — o, — più fantasiosamente, balena l’idea di un incubo punitore cagionato da un rimorso: per esempio il rimorso d’aver abbandonato una professione per un’altra, ambedue poi cozzanti e soverchiantesi nel sogno.

Citare è difficile per la copiosità della vena poetica, abbondanza inevitabile forse per un poema cui «poser mano e cielo e terra».

Un’immagine delicatissima; Shelleyana — un po’ troppo Shelleyana anzi — è questa nel Canto del Regno Vegetale:

E tu m’affida, o gracil sensitiva,
Chi vesta in te sensibile persona,
Chi teco tremi nelle tue paure;
E se del viver mio tu pur sei viva
Vieni e allevia alle mie le tue sventure.


e quest’altra ardita e assai bella, nello stesso canto parlando ai fiori:

Ma quando il triste inverno e gli uragani
Vi sfrondano gli steli,

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E quali aperte mani
Volan le foglie a scongiurare i cieli,
Allor mi vince una pietà profonda
Come d’un volgo preso da terrore,
E qual piovesse vittima ogni fronda,
Conforme ai rami mi si schianta il cuore.

E alla terra parla così:

. . . . genuflesso sulle tue rugiade
Vedrò che gioie alle muscose rocce
E che conforti infonda all’arse biade
La fresca carità di quelle gocce;
Verrò le notti ad arrestar per l’ombre
Gli odorosi messaggi
Spinti alla luna dalle tue vallee
E a spiar l’amor suo calar sui raggi
E l’amor tuo salir dalle maree.

Emanazione di poesia fresca e gentile: come questa al Fuoco è davvero una vampa scoppiettante, striata, gagliarda:

Eccola; scocca e vola
Miracolosa, indomita e possente
L’elettrica scintilla
Che scatta al mondo la vittoria e leva
Dall’agitata argilla
Le fiamme dei metalli e gli occhi d’Eva.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Dai fatui fuochi all’albe nebulose
Balza, lampeggia e crea,
E ardendo cuori e cose
Nei soli è luce e nelle teste idea.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Ed io l’invoco con la testa ignuda
Questa tremenda dia
Che brucia a baci e a spasimi si dona;
Penetri stimma nella carne mia,
Paga se solca d’un suo raggio santo
La croce del dolor da dove io canto.

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Dal mare dipinge più efficacemente i tumulti che le immensità:

E quanto più sollevi le procelle
Ad insultar gli scogli;
Tanto maggior la tua tristezza pare,
E fra loro accenandoti le stelle,
Ti chiameranno l’astro dei cordogli.
Ma va’ per l’universo a dar l’allarme
Col tuo tetro fragore
Come in tempesta stormo di campana.
E sia quel verbo ansante di dolore
L’eco fedel d’ogni sciagura umana.

Cantando l’aria, accenna ad intuirne fantasticamente, e ne rende qualchevolta magicamente, le fluttuazioni frementi di vita e piene di mistero:

Spiriti esulta il regno tuo, vanenti
Divinità camminan le tue sfere;
Son limpide città d’ombre viventi
Queste sul capo mio tacite sere?
Non forse ospiti in seno
L’anime che migran dai petti umani
Ferme sull’ali a scongiurar l’oblio
Dai consueti mani,
Sospese in te fra il camposanto e Dio?
E quando sui sopiti
Sfiorano i sogni ed erran le visioni,
È forse allor che quei poveri estinti
Tentan parlare ai vivi...

E così dopo i quattro elementi il Checcucci ci canta i tre regni della natura, poi l’Uomo, il Sole, l’Atomo, l’Etere, la Materia, la Forza, e Dio; e quasi tutti i canti hanno un corruscare multicolore di gemme e si svolgono in fili d’oro. Ma, purtroppo, [p. 38 modifica] quasi in ogni canto c’imbattiamo anche in versi di questo genere (parla all’Universo):

E come tu combaci ed utilizzi
A governar gli empiri
Senza sbilanci e senza incagliamenti,


o come questi, che fanno agghiacciare il sangue:

Chi sa da dove è emerso
Per capillarità di sensazioni
Questo respiro....


oppure:

Han le carezze dell’amor gli artigli
E la maternità dai marsupiali
Insegna al mondo a palpitar sui figli;


od anche, parlando all’uomo:

A tutte le convalli e tutti i mari
Rapisti i sali, i fosfori, e gl’incensi
E son tuoi tributarî
Tutti i vissuti a ingentilirti i sensi.

E intanto quei «tributari» richiamano alla mente le tasse e l’esattore con una lucidità spaventosa. L’uomo è proprio il più maltrattato dal signor Checcucci. Un po’ più giù lo consiglia a tracciar sulla creta:

L’itinerario delle tue sventure;


gli dice di costringere i cieli

A imbeverar d’elettrico le valli

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concludendo che la vaporiera

. . . . . . ridestrutto nel torace il sole
Il suo monarca rapida trascina.

Inoltre il Checcucci dimostra una certa predilezione per le similitudini... come chiamarle? sociologiche?... tendenza allarmante in un poeta; e canta le sponde colonizzate dai baci del sole, i pianeti in sodalizio di pietà, la nazionalità dei mondi, le teorie, ruggenti entro i vulcani (teorie persuasive!) la fratellanza dell’universo, i raggi delinquenti e i lampeggi degradati, l’assemblea torrida, l’atomo che non presenzierà più «dei cieli al gran lavoro» l’umanesimo dei cieli, il genio collettivo ecc.; poi da sociologo diventa impresario e sogna

I drammi dell’amore
Rappresentar nella platea dei cieli
Maestro il tempo e metodo il dolore


avvertendoci però del suo temperamento un po’...... nervoso, poichè l’energia che rattiene gli atomi componente il suo corpo gli

.... apre in solchi elettrici le vene
E in batterie magnetiche il costato.

Ancora, nel canto: Forza e Materia, ci ammanisce versi come i seguenti:

Tanto chi ozia, quanto chi lavora
Per vie segrete fatalmente crea.
Tramonta il sol, ma dura l’afa ancora,
Muore la testa ma riman l’idea,
In tutta questa universal famiglia

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Non siamo che congiunti
Dal tempo per l’abisso spatriati,
Dispersi in cielo a grumoli di punti
Economicamente utilizzati.

Ecco: che questo sia linguaggio da buon padre di famiglia è indiscutibile; ma da poeta poi... avrei i miei dubbi e non pochi. Dubbi che si fanno giganti udendolo riprendere più avanti sullo stesso tono che

Nel gran tesoro della creazione
Ogni tormento tuo sarà quotato:
E perchè il bello e il buono
Possan compire la loro evoluzione
Fa d’uopo al ciel che venga utilizzato
Ogni tuo pianto ed ogni tuo perdono.

E in un altro punto, chiamandoci con un sonoro «Quà, quà» che fa venir voglia di cedere il passo agli anatrotti, fra le tante belle cose che ci promette, trovo anche questa:

Annunzio ai proletari
La carità dei codici venturi
Sfamati, a domicilio, dagli armenti
E annunzio ai nascituri
Come parlar coi fuochi ai firmamenti.

È uno sgomento, Dio buono! E vado domandandomi con melanconico rammarico come mai un verseggiatore che ha saputo pennelleggiare così finamente e così grandiosamente certe alate visioni, sia poi caduto in queste goffaggini che mutano le iri variopinte in un abito da Arlecchino e farebbero diventar monella una suora di carità. — Perchè quell’insistenza sul verbo mugliare, insistenza che ci [p. 41 modifica] trasporta troppo spesso vicino alle... cascine? — Perchè quella predilezione per un’immagine già sfruttata completamente dal De Amicis in un verso solo della sua migliore poesia «Come vorrei morire» nell’ultimo splendido verso:

«Col sole in fronte ed una palla in core»


dopo il quale, tutti questi del signor Checcucci: «Col fuoco ai fianchi e con la luce in testa», «Col genio in testa ed il coraggio in cuore», «Con la porpora ai labbri e il riso agli occhi», «Coi cori a rango e coi vessilli in testa», ecc. non sono che parodìe? Peccato! Forse se il poeta della Vita si contentava di cantarci i miti e le leggende e i simboli degli elementi, dei regni della natura, dei paesi del sole, invece di farci della cosmogonìa, della cosmologia e dell’archeologia da trattato scientifico, l’Italia esulterebbe oggi per una originale e artistica creazione di più. Così come è, i bei versi vigorosi, iridati e fluenti cingono un’aureola al loro cantore: ma temo forte che i vapori terrestri, stagnanti, finiranno per offuscarne la luminosità. In alto dunque, e voli: abbracci un po’ meno e idealizzi un po’ più e perdoneremo volentieri all’angelica farfalla di non essere un elefante. Dal grandioso che sbalordisce, al grottesco che attira il frizzo, il passo è così breve!