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e lo sguardo saturi di quei splendori provano la voluttà del dissolversi nell’infinito, una cordicella che si strappa, un sacchettino di zavorra che cade, una valvola che sibili ci ricordano che viaggiamo sull’aria per via di combinazioni fisiche e non sul mantello di Mefistofele o sull’aquila di Giove. Fa tristezza ed ira cadere così da un bello squarcio di lirismo in una frase giuridica o in una fredda formula tecnica di chimica e d’astronomia; e al moltiplicarsi degli esempi, incalzanti verso il fine, si arriva a far un atto d’impazienza e concludere che la Vita del signor Checcucci è un delirio scientifico, uno di quei deliri splendidi e tremendi che il Lombroso potrebbe additarci come affermazione di qualche sua teoria: — o, — più fantasiosamente, balena l’idea di un incubo punitore cagionato da un rimorso: per esempio il rimorso d’aver abbandonato una professione per un’altra, ambedue poi cozzanti e soverchiantesi nel sogno.

Citare è difficile per la copiosità della vena poetica, abbondanza inevitabile forse per un poema cui «poser mano e cielo e terra».

Un’immagine delicatissima; Shelleyana — un po’ troppo Shelleyana anzi — è questa nel Canto del Regno Vegetale:

E tu m’affida, o gracil sensitiva,
Chi vesta in te sensibile persona,
Chi teco tremi nelle tue paure;
E se del viver mio tu pur sei viva
Vieni e allevia alle mie le tue sventure.


e quest’altra ardita e assai bella, nello stesso canto parlando ai fiori:

Ma quando il triste inverno e gli uragani
Vi sfrondano gli steli,