Dal mio verziere/Impressioni di un sogno
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Impressioni di un sogno1
Un sogno in cui non sia che terra e cielo: il cielo cristallino, uguale, soffuso d’un calmo e un po’ freddo sorriso verso la terra; le vette estreme rivolte come braccia adoranti e aspettanti verso il cielo: tutto il pallore e il silenzio e i terrori e la grandiosità selvaggia delle altezze, come in qualche vasta e gentile concezione di Shakespeare. Ecco la scena. E in questo sfondo primordiale un asceta, umile, ardente, pio, che benedice i suoi fratelli invisibili con la rugiada e gli aromi fluttuanti dei rododendri in fiore, e due fanciulle, due purezze assolute, ma l’una come l’acqua, l’altra come la fiamma. Intorno ad essi tutta la vita organica, vegetativa; in essi tutta l’elevazione spontanea del pensiero nella contemplazione mistica dei fenomeni naturali: la rispondenza immediata, come un riflesso, fra le più belle cose create e i sentimenti più casti, tendenti tutti verso l’infinito, tutti nati dallo stesso principio di adorazione. Il visibile e l’invisibile, gli aspetti e le visioni, la realtà e il simbolo insieme fusi ai confini del mondo.
L’autrice di questa concezione un po’ insolita, una donna d’attività e d’ingegno, si domanda se l’essere umano, sbocciato e allevato così al riparo di tutte le brutture, nell’ignoranza completa del male, possa affrancarsene; ma dal fondo della storia, dall’ideale e leggendario paradiso terrestre che forse le attraversò la mente mentre ella sognava questo sogno verginale, tutto accenna mestamente di no; tutto dice che il male, l’antico avversario, è annidato come un germe mortale in noi, non fuori di noi; che è in nostro potere di arrestarne il progresso, ma non di strapparne la radice; che l’ignorarlo non sarebbe un aumento di difesa, ma un aumento di debolezza, e la inevitabile, brusca rivelazione porterebbe la morte.
Le Marie, le due gemelle, affidate quasi nasciture dalla madre derelitta all’asceta che impose loro lo stesso nome, il nome grave e soave ad un tempo, crescono come due asfodeli in quella solitaria sfera di sogno. Ma nell’una, l’ho detto, era la purezza dell’acqua lustrale, nell’altra la purezza struggitrice del fuoco. I canti e l’opera dei minatori, a piè della montagna, che sbigottiscono l’una, rivelano all’altra la vita ed essa si slancia, vi si perde, mentre la sorella muore per la sola divinazione della verità.
L’autrice, che si chiama Neera, ha circonfuso l’austero e delicato lavoro di una semplice leggiadrìa di stile che forma un insieme armonioso con l’idea. Ma non tutti, temo, l’hanno compresa. La maggioranza ha aperto il libro credendo di imbattersi in un romanzo dei soliti, un romanzo analitico sentimentale, come quelli a cui la penna industre della scrittrice lombarda ci ha abituati; poi non trovando case, nè ville, nè salotti, nè signore, nè sfumature psicologiche, nessun vestigio di civiltà, insomma, i più restano disorientati, scontenti, come dinanzi a una mistificazione. Invece questa opera di Neera è un’originale e aristocratica opera d’arte, la più originale e la più aristocratica ch’ella abbia scritto fin qui. Poichè il valore d’una creazione non risiede nella mole e nemmeno nell’importanza del lavoro, ma nell’equilibrio, nella completa fusione del pensiero con la parola, nel raggiungimento di quel qualunque ideale vagheggiato. Una volta lessi, non mi ricordo più dove, ma certo in un libro bello e buono, questa gran verità che dovrebbe apparire come il famoso Mane Tekel Fares sulla prima pagina d’ogni libro che s’imprende a giudicare: Non bisogna domandarsi perchè l’autore ha voluto far così invece che in altro modo: ma esaminare come è riuscito: non giudicare l’opera dal punto di vista della nostra simpatia o antipatia per quel tal soggetto o per quel tale ambiente, ma giudicarla nella luce in cui si rivelò all’autore: vedere se ha o no raggiunto il suo fine. Le parole, come si vede, sono mie, ma non importa; la massima che mi colpì è questa. L’arte deve essere libera, la critica d’un oggettivismo assoluto.
Però io penso pure che il pubblico, i lettori, hanno i loro diritti. Il diritto, cioè, di trovare qualche mano dipinta che indichi la vera via quando ci si trova fuori dalle strade maestre. Ora le prefazioni non fanno più paura a nessuno, le prefazioni non si saltano più, si leggono, si gustano e... anche qualche volta, fanno risparmiare di leggere il libro. Sul serio: quando si abbia la fortuna d’avere un’idea un po’ insolita, un po’ originale, e la fortuna ancora più grande di saperla esporre con garbo e con ingegno in pochi tratti da maestro, bisogna avere anche la compiacenza di indicarne un po’ la topografia, di fare qualche onore di casa. Noblesse oblige, non c’è rimedio.
Neera potrebbe dirmi che non ha scritto per tutti, che le basta di essere intesa e apprezzata da coloro pei quali il titolo è un appoggio bastevole, ma non importa: doveva dire anche questo. Allora il volumetto elegante e severo sarebbe stato assunto in una sfera superiore, nella sua vera. Ad ogni modo, chi ha fine intelletto d’arte ha l’obbligo di ammirarlo e d’intenderlo come una musica classica religiosa, come una pagina di Bach o di Palestrina. Le ardue difficoltà dell’ambiente insolito, dell’esposizione di sentimenti primordiali, del rimanere nell’idealità senza smarrirsi nel misticismo, nella semplicità e nella purezza senza cadere nella rigidità, sono state affrontate e vinte dalla valente scrittrice con molta bravura. Ella deve aver letto a lungo i Vangeli, deve aver gustato la rozzezza sublime di quella letteratura primitiva che significava le cose più alte, più belle, più grandi che siano nella natura umana. Deve averne intesa la poesia silvestre, l’efficacia, la vera religiosità, poichè nelle umili e ispirate e ardenti aspirazioni dell’asceta passa un soffio biblico, veramente; e nella selvatica e mite adolescenza delle fanciulle ritroviamo il riflesso di qualcuna delle vergini dolci e ardenti che ridono come fiori fra le mèssi in quell’antica opulenza patriarcale. Qualchecosa di semplice, di solenne, di poetico è filtrato nello stile e nell’idea; qualchecosa di profondamente sincero: sia ispirazione, sia fede.
Ecco, per dare un saggio del bellissimo libro la scena più leggiadra e più ideale, quella della morte di Maria dopo la sparizione della sorella:
«Era il tramonto; le ombre invadevano la cameretta, ed ella non aveva voluto che si accendesse il lume. Davanti alla piccola finestra la neve scendeva lenta.
«— Padre, recitami le litanie della Vergine.
«Egli incominciò.
«Nella luce crepuscolare, con quell’uomo inginocchiato per terra, con quella fanciulla che moriva, la bellissima fra le preghiere acquistava un fascino soprannaturale. Ad ogni versetto Maria rispondeva col semplice movimento delle labbra, calma ed assorta in una visione interna. Come al prete mancava la voce per lo strazio, ella gli pose la mano sulla spalla, quasi a confortarlo, ed egli continuò. Giunto alle parole Virgo fidelis, un singhiozzo gli spezzò la voce.
«Oh! era ben lei la vergine fedele, la vergine martire del proprio ideale, l’ermellino che non sopravvive alla macchia! Virgo fidelis, riprese due o tre volte nell’esaltamento del proprio dolore; nè altro aggiunse, ed ella non lo richiese.
«L’ombra diveniva sempre più nera. Egli fece un movimento per accendere il lume, ma la mano posata sulla sua spalla lo trattenne, e, mentre cercava di distinguere al buio il dolce viso, Maria disse:
«— Quanta luce!»
La morte di questa fanciulla immacolata come un giglio, il suo seppellimento sulla più alta vetta, nella neve candida che velava la terra e riempiva lo spazio, hanno un carattere simbolico in cui lo spirito si diletta e si raccoglie. Lo svolgimento graduato delle emozioni e dell’amore nell’altra Maria, è pure reso a tratti delicati e sicuri, da artista. D’un’elevatezza d’apostolo e di martire sono tutte le aspirazioni e i pensieri dell’eremita rivolti a Dio.
«.... che cosa egli aveva fatto? Aveva creduto di poter compiere da solo quello a cui non riuscirono milioni di martiri e di eroi, quello che Dio non permette ancora. Aveva creduto di allontanare ogni male dalle sue pecorelle, tenendole lontane dal mondo, quasi Egli non fosse laggiù come Difensore e dappertutto come Punitore».
Così l’atto d’umiliazione lo quetava, e come un eroico neofita dei primi tempi, questo martire spirituale finisce per benedire la mano che lo flagella, per trovare nel suo dolore, come i veri eletti, il sublime marchio dei privilegiati, un elemento di perfezione:
«— Colpitemi ancora, ancora, mio Dio, e fate che il mio cuore arda d’amore per Voi, poichè non nell’appagamento sta la perfezione, bensì in un crescendo di ardore. — »
E il sogno cessa a questo triste e sublime matutino...