Dal mio verziere/Per colpa di un Poema
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Per colpa di un Poema.
Credevo proprio di non parlarne più. Ma poichè un’amabile quanto valente scrittrice ha voluto ricordarmi, a proposito di Cammillo Checcucci e della sua Vita, mi sento tentata di aggiungere una parola in coda all’argomento.
Qualche mese addietro, appena letto il volume, dissi ad alta voce le mie impressioni nella Battaglia Bizantina, e le intitolai così: «Poeta o Scienziato?» La risposta mi veniva da sè; me la dava l’eco dell’ultima parola. Ora la signorina Gianelli, invertendo appunto forse per ragione d’eco la domanda, mi grida: — Poeta, poeta, poeta. — Vediamo un po’.
Ricordo che mentre m’accingevo con gioia a far la conoscenza di questo nuovo astro, che per il fervore dell’entusiasmo di molti pareva destinato a impallidire il sole, mi venne fra le mani un periodico fiorentino che fra un coro di lodi riportava un brano del poema. Era una parte del canto alla Terra. Ebbene, mi ci accostai con una specie di reverenza, come ogni volta che so di stare per essere iniziata al culto d’una nuova manifestazione del bello; lo lessi, lo rilessi, con un’attenzione quasi religiosa ma ahimè, dopo non mi trovai nel cuore e nella mente che l’interrogazione fatale: — Sta tutto qui? — E questa interrogazione, allora forse un tantino imprudente, mi assediò anche terminato il libro che chiusi triste per la delusione. Al solito. Fuori di qualche ispirazione felice, specialmente nei primi canti, io non trovai, confesso, che aridità, che monotonia, che goffaggine, che... presunzione. Delle immagini leggiadre, degli squarci lirici efficaci, degli accenti delicati, dissi tutto il bene che potevo; sul resto risi. Un poeta a cui è balenato il concetto colossale di un poema sulla Vita, che ha domandato la sua ispirazione agli elementi, alle forze, a Dio, doveva darci qualche cosa di più, doveva dirci qualche cosa di nuovo, doveva farci entrare nel mondo riflesso dalla sua fantasia e non trascinarci in una faticosa spedizione geologica, facendoci inciampare nei ciottoli ad ogni momento. Non ho dimenticato ancora certi marsupiali, certe capillarità di sensazioni, certi sbilanci e certi incagliamenti.
«Il poeta», dice uno degli ingegni più chiari e più penetranti d’Italia, il Nencioni, «il vero poeta, non è un sognatore ma un veggente,» ed io gli faccio eco con intima convinzione. Un veggente, sì; egli deve aver lo sguardo più acuto di noi e l’orizzonte più vasto; egli deve fissare e discernere ciò che non è che una fluttuazione iridata e luminosa ai nostri occhi; egli deve sviscerar l’anima delle cose e intenderne il linguaggio arcano: intuirne il simbolo, e senza enumerarci le sfere celesti farci sentire con una parola tutta l’immensità dell’infinito, evocarci con un’immagine tutto un mondo di larve e di splendori; richiamarci, con un metro o con un’intonazione, le visioni delle età passate; farci respirare, insomma, l’aria dei secoli e illuminarci di tutte le luci e avvolgerci di tutti i colori. Oh, non chiediamo al poeta il perchè delle cose; l’analisi svela e distrugge; la poesia deve afferrare complessivamente gli aspetti, i sentimenti, per farsene un’anima e rivestirla poi di tutti gli splendori dell’idealità. E sempre dall’alto, qualunque soggetto ci svolga, storia leggenda, ci canti le sinfonie della natura o le battaglie del cuore.
L’estensione non fa l’altezza, la vastità di un concetto non fa l’opera d’arte. In nessun’epoca, credo, si fece tanto spreco di grandiosità come nel seicento; parole, monumenti, pitture, vita, tutto doveva essere grande, magnifico. E quanto orpello invece! quanto presuntuoso barocchismo! Che abbondanza opprimente di materia, che assenza malinconica di classica sobrietà!
Mancava l’essenza, quell’essenza che ho cercato invano fra i quindici canti che compongono il poema della Vita; quell’essenza che deve scorrere sotto la trama d’un’opera d’arte come una linfa vivificatrice, che dà freschezza, e intensità, e vigorìa, e tumulti fecondi. Che m’importa se sono quattro versi invece che quattrocento quelli che mi dànno la divinazione dell’infinito o che mi fanno piangere sulle lotte degli umani? La corda ha vibrato, l’emozione artistica o del sentimento c’è; basta. Io preferisco un piccolo bronzo di Jerace alla torre Eiffel che ha sbalordito mezzo mondo. Questione di gusti.
E voi stessa, signorina, che difendete l’autore della Vita, non potete trattenervi dal convenire che accanto alle bellezze che io pure riconosco, v’è nel poema «l’ampollosità che affanna e la minuzia pedantesca che agghiaccia. A profondità filosofiche, dite, seguono declamazioni, in cui il pensiero diluisce; agli slanci più arditi, ai più vigorosi colori, alle grazie più schiette dell’arte, sono spesso vicini subentrano lunghi periodi intralciati, che accusano la preoccupazione ed hanno quasi l’aria di bisticci scientifici.» Ebbene, a me pare che ce ne sia abbastanza per distruggere il poeta. Come volete che la poesia alata, eterea, inafferabile e luminosa, e ingannatrice come il regno della fata Morgana, non dilegui all’apparire della scienza, che ci avverte di tutte le menzogne, che ci mette in guardia contro tutti gli incanti, che ci sveglia da tutti i sogni?
Un poema scientifico per me è una contraddizione, un paradosso. Si reggerà se la scienza si personifica in larve fantasiose come nel Faust di Goethe, in spiriti smaglianti come nel capolavoro dantesco, (lasciando dormire i genii) se si diffonde nel panteismo, come nei versi puri e freddi del Marradi, oppure se diverrà favola come in una delicata creazione di Alfredo Baccelli. Ma un poema cosmogonico e solitario come quello del Checcucci, in cui non si sente che la sua voce come quella di Dio, durante i sei giorni della Creazione, non può che trascinarci sotto il suo peso soffocando in sè ogni melodioso accento di passione, frenando ogni volo, spegnendo bagliori, ottenebrando l’immensità. Poi, che ne dite voi, signorina, voi l’autrice elegante di tanti versi armoniosi, fra cui non dimentico certi «Fiori d’Arancio» fragrantissimi: che ne dite di certe trascuraggini di forma che accuserebbero la fretta, se non si sapesse anche troppo che la Vita costò sei anni di lavoro al suo poeta? di certe ripetizioni, stucchevoli, d’immagini e di vocaboli? di certe parole così barbare, così barbare che fanno accapponar la pelle come lo stridere d’una lama sul vetro?
Cuore e fede, cara signorina, possono fare un galantuomo, ma non bastano per formare un poeta. Del resto che importa? meglio per lui e per noi. I galantuomini sono così rari! e dei poeti ce ne sono tanti...