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seguendo la battaglia 223


mano: è una breve irruzione, un passo in avanti. L’artiglieria dalle due parti folgora.

E non si vede niente. Qualche uomo che scivola curvo fra gli alberi, qualche tiratore appostato dietro al suo muricciuolo, e più su, appena intravvisto in una radura, un pezzo di parapetto fatto di sacchi, infangato, rossastro, con la gran tela di ragno davanti. La battaglia è sepolta nella verdura. Le trincee sorpassate sono ancora ingombre di cadaveri nemici. Si sente un odore di resina, di polvere e di morto. Gli uomini che tornano indietro per i servizi e quelli che vanno si scambiano frasi laconiche: «Come va lassù?» — «Bene.» — «Resistenza?» — «Mitragliatrici.» — «Passa in fretta alla dolina!» — «Grazie!».... Arriva da lontano il fragore profondo del bombardamento sul resto della fronte.

Riuscendo dal bosco feroce, dal Nad Logem, improvvisamente si spalanca allo sguardo il panorama della pianura di Gorizia, luminoso, diafano, con un’ampiezza marina, così vasto che la guerra vi si perde. Appare quieto, deserto, pieno di immobilità. L’Isonzo azzurro sembra una striscia sottile di sereno. Sull’acqua, il ponte di ferro, schiantato dalle cannonate, si è tutto coricato di fianco. Qualche villaggio diruto fuma. I grossi calibri austriaci battono le rovine di Poc, di Rupa, di Rubbia.