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La nuova linea si rafforza

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LA NUOVA LINEA SI RAFFORZA.

18 settembre.

Su tutta la nuova linea delle posizioni si lavora. Da una parte e dall’altra è un tramestìo di picconi che beccano la roccia. Si ode fra lo scoppiettare rado delle fucilate questo sordo [p. 228 modifica] raspamento di attrezzi, un rumore assiduo e minuto di scavo. Il combattimento è in un periodo di sosta. Il furore degli attacchi e dei contrattacchi si è lentamente placato; l’azione generale si è andata localizzando a poco a poco sulle posizioni più importanti, attacchi e contrattacchi hanno concentrato la loro violenza su certe vette che appaiono come i cardini della linea agitata della battaglia, ed ora si consolidano le conquiste.

Ogni lotta ha le sue fasi di immobilità. Gli eserciti sono come gli atleti, che alternano lo sforzo vigoroso e impetuoso a raccoglimenti guardinghi, che dopo un parossismo di colluttazione si mantengono allacciati nell’atteggiamento raggiunto, attenti al minimo moto dell’avversario, ogni muscolo teso. Spesso è proprio quando uno degli atleti sembra già con le spalle a terra, che l’avvinghiamento prende fermezze statuarie; perchè la resistenza si fa più disperata e l’attacco più pensato, calcolato, misurato, vigile. Poi, improvvisamente, un nuovo scatto veemente, e la lotta attiva si riaccende nell’attimo prescelto.


Oggi si lavora. I boschi del Veliki Hribach e del Nad Logem risuonano di colpi d’ascia. Si abbattono alberi, e nell’ombra degli incerti sentieri si vedono tronchi scortecciati che avanzano oscillando fra un grigiore di soldati, [p. 229 modifica] come pagliuzze portate da un formicaio. Servono a creare rafforzamenti, blindamenti, coperture. Una operosità da cantiere brulica sulle posizioni. Si direbbe che si stiano tracciando le fondamenta per una città. Le trincee primitive delineatesi nel combattimento, quei muricciuoli improvvisati, quei monticoli di pietra che ogni soldato erigeva febbrilmente avanti a sè, quelle piccole buche che conservavano impressa nella fanghiglia rossa la traccia d’un uomo accovacciato, tutte circondate da un pagliettamento scintillante di bossoli sparati, si trasformano lentamente in fossati profondi, in corridoi senza fine scavati nella roccia, serpeggianti a zigzag, difesi da parapetti di macigni coronati da sacchi. Vien fatto di pensare a quelle immani fortificazioni campali che Cesare descrive nei suoi Commentari, a quei baluardi sterminati che le legioni di Roma facevano sorgere in poche ore di fronte al nemico, al limite delle loro grandi strade di conquista divenute le eterne arterie del mondo.

Un grande struscìo metallico di badili sui sassi: a grandi palate si riempiono i sacchi vuoti. Arrivano impacchettati, i sacchi, grandi balle di tela: in un istante sono distribuiti, colmati, legati, e passano da una mano all’altra, in perenne catena, pesanti e bitorzoluti, fino ai parapetti in costruzione. File di portatori scaricano in fretta gomitoli di filo di ferro [p. 230 modifica] spinato e ripartono correndo. «Qua, date una mano! su, forza!» — squadre di soldati ansanti portano «cavalli di Frisia», enormi grovigli di ferro, e domandano aiuto. Fuori, nascoste, vigilano le sentinelle avanzate. Lungo le nuove trincee, immobili, estranei al lavoro, l'occhio alle feritoie, attenti, stanno gli uomini incaricati della prima difesa. Hanno disposto intorno a loro pacchi di cartucce e granate a mano. Di tanto in tanto si scuotono, imbracciano il fucile con gesto pronto, mirano, sparano. Delle pallottole nemiche arrivano a raffiche, scocchiano sui sacchi o passano alte con un sibilare di frustata. Nessuno, ci bada. Ma ogni soldato lavora presso al suo posto di combattimento, pronto a correre alle armi. I fucili si allineano appoggiati al parapetto, con le giberne e le baionette appese alle canne. Gli ufficiali vanno e vengono sorvegliando, facendo urgenza. Tutti, ufficiali e soldati, sono sporchi di fanghiglia fino all’elmetto; le loro uniformi hanno preso il colore rossastro del terreno. Sembrano fatti della stessa sostanza della montagna. Da lontano questi uomini si direbbero dei detriti del suolo che si muovono.

In certe posizioni la fronte si fortifica sulle rovine dei trinceramenti nemici espugnati. Qui il formicolìo del lavoro s’imbuca in uno sconvolgimento spaventoso, fra sgretolamenti da frana, entro una confusione di pietrame, cosparsa [p. 231 modifica] di armi spezzate, di morti. La bufera del fuoco ha demolito, sparpagliato, mescolato tutto, ha spazzato parapetti, colmato camminamenti, disseminato travi, scudature, paletti, fili di ferro, mitragliatrici. I nostri trascinano i rottami più vari e ne fanno delle strane barriere. Al di là delle nuove trincee s’innalza un oscuro intrico di cose informi irriconoscibili, lamiere lacerate e accartocciate che avevano forse sostenuto dei blindamenti, assi metalliche contorte, resti di reticolati. Il primo ostacolo che si oppone al nemico è il gigantesco rimasuglio dei suoi materiali di difesa.


Il bombardamento non ha sosta. In certi momenti rallenta, sembra stanco, pare che stia per quietarsi, poi tutto ad un un tratto riprende violento, come se preparasse un attacco. Muta obbiettivi, folgora da ogni parte, batte le retrovie, si concentra in tiri di demolizione. Sulla strada che si era percorsa quasi al sicuro mezz’ora prima, si appesantisce subitamente un’atmosfera di morte. E sembra diversa. I luoghi assumono un’altra fisionomia, sotto la percossa del cannone. Prendono una espressione inattesa, solenne, truce e ostile. Quando il grido dei soldati nei rifugi avverte: «Attenti, la strada è bombardata!» — si guarda avanti con una diffidenza oscura verso le cose mutate. Tutto sembra pieno di un’attesa feroce. [p. 232 modifica]

Non si ode una voce. I gridi dei conducenti si estinguono. Ogni uomo inoltra grave, silenzioso, con una decisione di lotta sul viso. Il traffico continua ininterrotto, ma i carri e i cassoni galoppano, le salmerie trottano, le automobili passano veloci rombando fra nembi di polvere, le squadre di servizio vanno in fila lungo i margini, ordinate, curve e rapide come nella battaglia. Il traffico continua, ma una urgenza sinistra lo affretta. Ognuno si sente un po’ inseguito. Bisogna passare e si passa, ma chi sta per entrare nella strada bombardata si ferma sempre un momento, si prepara e si slancia.

La strada si apre davanti a lui annebbiata, funerea, misteriosa. A istanti è piena di fragori. Scroscianti raffiche di schegge l’attraversano, delle pietre rotolano giù dal declivio, qualche murello frana. Poi una quiete profonda, lugubre, inverosimile. Delle nubi di fumo si dissipano lontano. Si rivedono le rovine bianche del Villaggio, laggiù, allo sbocco, che erano scomparse. Un altro colpo arriva. Niente: è scoppiato indietro, sul greto. Attenti, c’è una buca. Fumiga ancora. Due passi lontano un mulo abbattuto agita gli zoccoli. Un camion cisterna è rovesciato sul bordo, con due ruote sollevate, e l’acqua sgorga dal suo corpo massiccio come fosse il suo sangue. Nessun ferito? No, ecco i conducenti che ritornano a piedi, [p. 233 modifica] quatti quatti. Siamo alla voltata. Si riodono finalmente delle voci, dei gridi di mulattieri; c’è un piccolo affollamento di gente che si dispone a passare. Rinascono i clamori della vita. La strada bombardata è finita. È ridiventata una strada qualunque, bonaria ed amica.

Gli austriaci adoperano i grossi calibri per questi tiri di interdizione, lenti e intermittenti. Di tanto in tanto, tutte le loro artiglierie allarmate si concentrano sopra un punto o sopra l’altro delle posizioni, attirate da improvvisi fuochi di fucileria. La giornata si è fatta oscura, minacciosa, la sera si avvicina, e nell’ombra le vedette sparano ad ogni rumore sospetto. I colpi spesso si moltiplicano, le trincee da una parte e dall’altra si popolano di tiratori. Uno strepito di battaglia si desta, e allora l’artiglieria nemica entra in azione, per qualche minuto, con una prontezza singolare. Essa è organizzata in modo da concentrare i suoi tiri ad una parola convenzionale lanciata dal telefono. Il comando le arriva direttamente dagli osservatori. Sopra un settore minacciato, convergono in pochi istanti tutte le batterie che hanno la possibilità di arrivarvi. Questo è il segreto della resistenza austriaca.

Soltanto gli attacchi simultanei e decisi sopra vaste fronti, richiamando nello stesso minuto in dieci, in venti punti diversi, la concentrazione della difesa — cioè disperdendola — [p. 234 modifica] riescono ad aver ragione della formidabile organizzazione delle artiglierie nemiche, per la quale la loro efficenza si moltiplica. Gli altri ostacoli non sono insuperabili se i comandi sanno nutrire a tempo gli assalti con ondate successive, se rincalzi voluminosi spingono subito irruzioni di truppe fresche oltre le posizioni conquistate, portando la fronte di battaglia sempre più in là, in zone che l’artiglieria nemica non ha misurato e che deve cercare. Il nostro primo assalto è sempre arrivato. Nulla lo ferma. Nè la fucileria, nè le mitragliatrici numerose che gli austriaci, col sistema germanico, sottraggono al bombardamento, incavernandole.

Ma una offensiva su vasta scala non può mantenere a lungo una contemporaneità di azione; essa finisce per avere concentramenti successivi di sforzo. Quando la minaccia non preme più su tutta la linea, la organizzazione del fuoco nemico trova delle opportunità, converge tutta sulla posizione la cui riconquista è più urgente, e la batte preparando i contrattacchi. Gli assalti si rinnovano, la lotta si accanisce, e l’avanzata italiana deve affermarsi fra difficoltà che al primo momento sembravano sorpassate.


L’ultimo sforzo nemico è stato sulla Quota 144. È una grande collina isolata, regolare, [p. 235 modifica] al di là del Debeli. Sta allo sbocco meridionale del Vallone come una sentinella. Sorvegliava tutti i nostri movimenti nella gola, e intorno al laghetto melmoso di Doberdò. Intorno a questa altura è un circolo di strade. Tutte le strade della regione vanno a passare ai piedi della Quota 144. Dalla sua cima si dominano le retrovie nemiche della zona di Monfalcone, la via di Duino, la via di Brestovica, e verso il nord, la via che sale a Nova Vas, sulle vitali arterie di guerra. Si prevedeva una disperata difesa della collina sassosa e sterposa, solcata da trinceramenti profondi, e non potevamo prenderla di sbalzo. Le nostre linee erano sul Debeli. Bisognava scendere nella valle e risalire i fianchi della Quota 144. Quattrocento metri di percorso. Non si superano di slancio. La conquista è stata lenta, metodica.

Quattro colonne sono avanzate all’attacco. Due al centro, verso la vetta, due ai fianchi verso i costoni. Nel pomeriggio del 14 erano già sulle pendici dell’altura, su certi prati variegati di cespugli e costellati di rocce bianche a fior di terra. Il granulamento dei soldati attaccati al terreno sembrava perfettamente immobile. I segnali che indicano i limiti dell’avanzata erano fermi. E pure, guardando bene, si vedeva ogni tanto uno strisciare confuso di uomini, un inerpicarsi lentissimo di plotoni. Da ora in ora si era sorpresi di ritrovare i [p. 236 modifica] segnali un poco più su. L’artiglieria intanto demoliva le trincee, sconvolgeva la vetta, la bruciacchiava, la trasformava.

Ma non erano le trincee austriache che si opponevano all’avanzata. Erano i fuochi d’infilata, la fucileria sui fianchi, il tiro delle artiglierie di Duino, di San Giovanni. Le colonne laterali erano ostacolate. Il centro, un poco più protetto, progrediva. La linea di attacco prendeva la forma di cuneo. Il cuneo d’uomini, ora già fuori dei praticelli e aggrampati alle rocce, si allungava, si allungava insensibilmente. Alla sera era sotto alla cresta, a qualche metro dai resti dei reticolati.

Alla notte, in un diluvio di pioggia, l’assalto è balzato avanti, ha superato la trincea. Ve n’era un altra più in là, che non s’era vista, intatta, con la sua barriera di pesanti «cavalli di Frisia». Una quantità di mitragliatrici nemiche ha aperto il fuoco. È seguito un primo contrattacco con granate a mano. I nostri si sono abbarbicati alla prima trincea, e hanno resistito. Il giorno 15 è continuata la lotta. La linea di attacco sui fianchi ondulava, subiva dei contraccolpi impressi dal movimento della battaglia sul massiccio carsico. Nel settore di Monfalcone si accendeva pure il combattimento con nuova violenza, appunto per aiutare l’azione sulla Quota 144. La battaglia si estendeva fino alla riva del mare. [p. 237 modifica]

Gli austriaci hanno rinnovato alla notte i tentativi per rovesciare l’attacco. I nostri hanno mantenuto il terreno, tenaci. Il giorno 16 hanno ripreso l’azione. Per la seconda volta, arrivati all’altra trincea, sono stati fermati dalle mitragliatrici. Si preparò un terzo assalto. Aperti varchi più ampi nei reticolati, per mezzo di tubi esplosivi, nel pomeriggio la massa si è gettata avanti, impetuosa, irresistibile, a valanga, con un clamore immenso, preceduta da una grandine di bombe. La vetta è stata definitivamente raggiunta.

Ed è stata tenuta sotto a tiri di artiglierie così incrociati che più volte i nostri soldati hanno creduto fossero cannoni italiani che facessero fuoco per errore. Tempestando il rovescio gli austriaci speravano forse di isolare i conquistatori. Il nemico ha lanciato contrattacchi con forze sempre maggiori, respinti sempre. Le sue perdite sono enormi. Tutta la vetta è coperta di un disseminamento di cadaveri.

L’ultimo contrattacco è avvenuto questa notte, sotto una pioggia gelida, in un incerto chiarore di luna velata. Di esso parla il bollettino odierno, annunziando così, indirettamente, che siamo anche sulla Quota 144. Essa costituiva una delle posizioni più difficili ad essere espugnate. Il suo possesso ha un valore che l’avvenire rivelerà.