Dal Trentino al Carso/La conquista di Gorizia/Nella “Trincea del Sogno„

Nella “Trincea del Sogno„

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NELLA «TRINCEA DEL SOGNO».

13 agosto.

Questa notte, dalle nostre nuove posizioni di Monfalcone si udivano i picconi e i badili austriaci mordere e smuovere i sassi della Quota 77, al di là del vallone della Pietra Rossa.

Era una notte di plenilunio, limpida, calma, tepida, e nel silenzio solenne del campo di battaglia risuonava il rumore regolare del lavoro nemico, a qualche centinaia di metri dalle nostre vedette; il rumore di uno scavo. Dopo il combattimento, pareva che solo degli affossatori fossero rimasti sulle collinette contese, e non avessero riposo. Gli austriaci si fortificavano.

Qui non ci siamo ancora liberati dalla lotta di trincea. In nessun punto, dal Sabotino al mare, il terreno ci è conteso con tanto feroce accanimento come in questo estremo settore.

Una settimana di battaglie non ci ha portato avanti che di cinquecento passi ad oriente di Monfalcone, mentre la pianura di Gorizia era invasa e il Carso conquistato fin oltre Oppacchiasella. E più a destra, presso la spiaggia bassa e paludosa, sulle prime collinette, non vi è stato alcuno spostamento. Lungo la strada che da Monfalcone conduce a Duino, [p. 188 modifica] la strada di Trieste, le trincee che la tagliano non sono ancora sorpassate. La nuova linea della conquista italiana viene a saldarsi alla vecchia, alla sponda del mare.

Fin verso l’alba la luna ha inondato di chiarore le posizioni. Si distinguevano ad una ad una nella pallida luce le alture sinistre sulle cui cime squarciate l’assalto italiano è tante volte salito. Apparivano sbiadite, oblunghe e azzurre come ondate. A sinistra il Cosich, preso alla mattina di giovedì. Più avanti il Debeli, oscuro di boscaglie, preso la notte dopo dai cavalleggeri appiedati, limite attuale dell’avanzata. Di fronte al Debeli, un’altra onda, più alta, regolare, fosca di sterpi, la Quota 144, che nasconde un tratto della strada fra Doberdò e Duino, e contro la quale l’attacco nostro ora tende.

La Quota 121, conquistata da poche ore, da cui questo paesaggio spettrale tutto si scopre, avanza il suo fianco sassoso, sconvolto dalle cannonate, sul vallone della Pietra Rossa, buio, screziato di acquitrini chiari e opalescenti nel calmo riflesso lunare. Formavano come delle vaghe macchie di luce nel fondo, quelle acque immobili striate di giunchi, e, per un effetto di risonanze, che la notte sembrava raccogliere, il rumore dello scavo nemico pareva che salisse da loro. [p. 189 modifica]Alla destra, l’Adriatico apriva la sua distesa argentata, senza onde, ferma, metallica, e mandava fino ai nostri il suo grande alito salato, tepido e lieve. Duino sporgeva sul suo sperone massiccio a disegnare il nero profilo della sua torre sullo specchio lucente del mare. Ogni pochi minuti, un rimbombo, poi un ululato nel cielo pieno di stelle, e sulla Quota 144 sprizzava il bagliore di uno scoppio di granata. Dei colpi di fucile, di tanto in tanto, sfuggiti all’ansia di qualche vedetta nemica.

Verso la metà della notte si sono uditi dei rombi di aeroplani invisibili, lontani, e il cielo all’orizzonte, in direzione di Grado, si è costellato di uno sfavillamento di esplosioni. Qualche incursione aerea degli austriaci. Il luccichio degli shrapnells è durato quasi un’ora, poi si è estinto.

Nella nostra prima linea, sulla Quota 121 e sulla Quota 85, un brusìo lieve, un lento muoversi di ombre, un sussurro cauto. Apprestavamo anche noi parapetti e difese.

Trasformavamo in trincee i camminamenti nemici al rovescio dell’altura conquistata. Nei profondi passaggi scavati entro la roccia, bersaglieri e fantaccini, di reggimenti che hanno bagnato del loro sangue ogni pietra di queste colline feroci, riempivano con le mani sacchi a terra, e se li passavano l’un l’altro. I sacchi, bitorzoluti di schegge e di detriti, si [p. 190 modifica] accumulavano a strati regolari, rapidamente, dal lato del nemico, formando baluardi bucati da feritoie.

Gli uomini che non erano di turno per il lavoro dormivano nel fondo della fossa, urtati dal va e vieni delle squadre. Arrivavano dalle trincee di approccio, che erano state trincee di combattimento fino a ieri, file di soldati curvi e ansimanti, portanti sulle spalle casse di munizioni e mitragliatrici. Bombe e cartucce erano distribuite tacitamente lungo le posizioni. Senza rumore, le scarpe avvolte di stracci, delle pattuglie partivano in ricognizione, scavalcavano i parapetti e sparivano nella notte chiara, a passi di cacciatore, precedute dagli ufficiali. Tutta la zona, fino oltre gli acquitrini, fino al nemico, era esplorata, e dopo lunghe ore le pattuglie rientravano facendo il segnale di riconoscimento.

Quando il giorno è sorto, questa mattina, si è vista la nuova posizione austriaca, la Quota 77, percorsa da trincee di sassi costruite nella notte, tutta fasciata dalle linee grigie delle difese improvvisate, e fra i cespugli un fulvo intrico di «cavalli di Frisia». «Eh! ci vuol altro!» — dicevano i nostri osservando il lavoro del nemico; e lo guardavano, lo studiavano, stanchi ma contenti, pensando all’assalto prossimo.

Vivevano in vicinanza dei cadaveri, la col[p. 191 modifica]lina era ancora piena di morti, e i soldati nostri avevano dimenticato gli orrori passati, gli assalti sanguinosi e vani, le lunghe e atroci sofferenze, tutti accesi di entusiasmo, di un entusiasmo grave, senza parole, composto, fatto di fierezza e di risoluzione, terribile, un entusiasmo che è tutto negli occhi, che è in una indicibile espressione di forza, di volontà, di certezza.

Hanno familiarità con la morte, la sentono sempre vicina, e cadere colpiti non ha nel loro pensiero più importanza del cadere addormentati. Per compire i prodigi di valore dei nostri soldati in questa guerra di assalti, per tornare e ritornare all’attacco di posizioni massacratrici, bisogna arrivare a saper combattere con la certezza di morire.

Sporchi, bronzati, con le barbe lunghe, temprati dalle intemperie, fortificati dalle fatiche, inselvaggiti, modesti, terribilmente calmi, pronti a tutto senza esitazione e senza eccitazione, i soldati d’Italia hanno qualche cosa di possente e di antico; emana da loro il senso di una cosa formidabile e semplice come la violenza di un elemento. Non è possibile descriverli, è necessario vederli per comprenderli. La lunga lotta feroce li ha trasformati, ha fatto risalire dal fondo della loro anima virtù guerriere che dormivano da secoli, la vecchia combattività della razza. [p. 192 modifica]Non si riconoscono più in loro i cittadini chiamati alle armi, sembrano reduci da guerre senza fine, da guerre di generazioni; e sotto ai loro elmi di acciaio pare di riconoscere i volti barbuti che sfilano sulle attorte sculture della Colonna Trajana, i piccoli e bruni soldati latini il cui eroismo stupiva il barbaro atletico dalla pelle bianca.

Quando il sole si leva, i cannoni austriaci cominciano a battere la Quota 121. I nostri cannoni battono la Quota 144. Il laghetto di Doberdò è nostro da ieri, e l’occupazione del Vallone, che si è spinta al sud di Oppacchiasella verso il misero villaggio di Nova Vas, minaccia da settentrione la Quota 144. Da lì al mare la lotta, che i nostri aspettano, si riaccenderà forse fra poche ore. Intanto, nella trincea nuova che corona la Quota 121 finalmente nostra, i soldati dispongono ad ogni imbocco di camminamento, i cartelli indicatori col nome imposto alla località: «Trincea del Sogno».

Per riconoscersi nel labirinto dei passaggi e dei trinceramenti, su tutte le posizioni, ad ogni strada sotterranea, ad ogni cammino protetto, ad ogni bastione, si è dato un nome. Sono spesso nomi eloquenti che descrivono i luoghi o che ne fanno la storia. Per arrivare alla Quota 121 si passa per la «Trincea dei Morti». Poi vi è la «Trincea della Speranza». [p. 193 modifica] L’ultima è la «Trincea del Sogno». Pareva fino a ieri un sogno arrivare lassù e rimanervi.

Quella collina da sola ha consumato più energie umane di una battaglia antica. Pareva facile, accessibile, poco fortificata. Era una gibbosità sassosa, con un trinceramento austriaco fatto di sacchi, verso la cima, e dei «cavalli di Frisia». L’ammassamento per l’assalto si faceva ai fianchi, dietro la protezione di muricciuoli a secco. Dopo bombardamenti intensi che sparpagliavano i «cavalli di Frisia», che sconvolgevano la vetta, che demolivano la trincea, e che pareva non dovessero lasciare niente di vivo lassù, l’assalto si sferrava, avanzava urlando, arrivava alla posizione austriaca.

Improvvisamente la trincea sconvolta si popolava di nemici, emersi non si sa come, le mitragliatrici ed i fucili falciavano gli assalitori. I nostri, fermati, dovevano rimanere ammassati sotto alla trincea. Nessuno poteva soccorrerli, la loro estrema vicinanza col nemico paralizzava il fuoco. E gli austriaci, con insolenza odiosa, profittavano della tragica tregua per mostrarsi sui parapetti, fumando e facendo segni di dileggio. Non avevano rispetto per il sacrificio, per l’eroismo e per la morte.

A nulla giovava aumentare il numero dei cannoni, prolungare la preparazione, modificare la manovra della fanteria. I risultati erano sempre quelli: l’assalto era fermato, i [p. 194 modifica] rincalzivenivano inchiodati da insuperabili tiri di interdizione e le poche truppe che arrivavano alla mèta sparivano, massacrate o prigioniere. Ora, non è così difficile andare all’assalto come tornare dall'assalto. I nostri soldati, con coraggio sovrumano, hanno salito la fatale collina innumerevoli volte, con una ostinazione disperata, tre volte l’hanno attaccata in questi ultimi giorni. Respinti, ricominciavano. Colmati i loro vuoti, erano pronti a slanciarsi di nuovo, con un cuore di acciaio.

Preso avant’eri il Debeli, la Quota 121 era minacciata sul fianco. I soldati, inebriati dalle notizie di Gorizia e del San Michele, hanno sentito che suonava la nuova ora anche per loro. Un sicuro, intuito militare, un istinto di guerra, sono ormai in ogni più modesto fantaccino. Nessuno più del soldato sa valutare una situazione tattica, con un giudizio intuitivo, confuso, ma sicuro. E ieri mattina, mentre l’artiglieria preparava l’ultimo assalto, gli ufficiali riuscivano con stento a reggere la truppa che voleva precipitarsi. Era invasa da un presentimento di vittoria.

Se si sollevassero gli ultimi cadaveri della collina 121, quelli caduti nell’attacco definitivo, e si disponessero in piedi, nella rigidità del loro gesto supremo essi sembrerebbero le statue dell’assalto. La bella morte li ha fulminati nella pienezza di un entusiastico [p. 195 modifica] slancio. Tanti non sembrano neppure morti, e le squadre silenziose dei raccoglitori debbono dischiudere a forza le dita fredde dei caduti, attanagliate sulle canne e sui calci dei fucili.

Presa l’altura si è visto che era un nido di agguati. Gli appostamenti di mitragliatrici contro i quali l’assalto si dirigeva veemente, avevano delle mitragliatrici false. Mentre i nostri vi balzavano addosso, le mitragliatrici vere, mascherate, aprivano il fuoco d’infilata da punti imprecisabili, e da dietro il Cosich l’artiglieria batteva di fianco. Le caverne di rifugio sulla vetta avevano sbocchi laterali, orientati in modo che i nostri cannoni non potessero danneggiarli, e, correndo lungo la trincea, intorno al cucuzzolo, gli austriaci, lasciati i ricoveri, entravano in azione in un minuto.

Ai piedi della collina, sul rovescio, un dedalo di camminamenti conduceva alle grandi caverne delle riserve, capaci di battaglioni. Profonde, vaste, formano una città sotterranea nella quale ci si sperde. Tutte le pareti ne sono rivestite di legno; dai soffitti pendono innumerevoli lampade elettriche, che si allineano nei corridoi come i lampioni delle strade. Vi sono tubi di ventilazione e tubi di acqua potabile. Depositi, magazzini, polveriere, dormitori per la truppa, alloggi per gli ufficiali, si aprono successivamente a destra e a sinistra del [p. 196 modifica] cunicolo centrale, e tutto questo ricorda l’interno di una nave. Pare di essere a bordo di uno strano ed enorme bastimento sotterrato.

Vi si sono rinvenute delle armi curiose e delle armi infami. Siamo venuti in possesso, fra innumerevoli placchine di guerra, di interessanti apparecchi cleptoscopici da applicarsi al fucile per sparare senza sporgere la testa. Il fucile solo si affaccia, e il tiratore mira dal basso, al coperto. Sparse un po’ per tutto erano le mazze ferrate e chiodate destinate al massacro dei feriti. Allo stesso scopo sono stati distribuiti ai soldati austriaci certi orrendi pugnali neri, fatti rozzamente di lamiera rafforzata e affilata, dei quali ne abbiamo rinvenuto delle migliaia. Ci siamo impossessati pure di coltellacci pesantissimi, specie di daghe, più larghe della mano, che ricordano il machete dei selvaggi dell’America Centrale.

I nostri soldati ridono dello strumento cleptoscopico, perchè dicono che bisogna avere una gran paura per adoperarlo. Lo trovano umiliante. Ma gli strumenti barbari se li passano, li guardano, li studiano in silenzio, senza indignazione, gravi e freddi. Li guardano con la severità del giudice che condanna. E questa loro calma avanti all’ignominia del nemico ha qualche cosa di più terribile della collera.