Cuore infermo/Parte Sesta/VI
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VI.
Dal terrazzino, nel bel villaggio bianco e verde, sulla collina fiorita, Marcello guardava Napoli, la città che si svolgeva sotto i suoi occhi.
Ogni tanto le nuvole a massi di un cielo torbido, di un meriggio autunnale, si riunivano, si accumulavano; il sole scompariva, un’aria bigia cadeva sull’immenso panorama, cangiandolo in un momento. Il mare agitato pareva immobile, la lontananza non lasciando vedere il moto delle onde; era nero come un orlo bianchiccio di spuma. Le colline si facevano brune, come se un’ombra se la prendesse; quella di Posilipo, malinconica, s’incupiva di più; su quella di S. Martino, il forte di Sant’Elmo sembrava più aspro, più grigio, più duro coi suoi profili severi di pietra, neppure allineato dalla leggera trina di merli bianchi con cui spicca sul cielo il vicino convento; su quella di Capodimonte, il palazzo reale rimaneva solitario, coi suoi tetti rossi, i parafulmini sottili, le finestre tutte chiuse. Dal mare, quasi nascessero dal bianco orlo di spuma, le onde delle case salivano, alte, crescenti, addossandosi, urtandosi, accavallandosi, rovinando le une sulle altre, con una inondazione vastissima, allargando la pianura della costa, occupando l’erta, ascendendo, ascendendo, con un movimento continuo d’invasione verso le colline, sommergendo tutto, divorando il verde, rosicchiando le colline, mettendo del bianco dappertutto; le strade segnavano appena una striscia sottile, i campanili sembravano le antenne di qualche nave sommersa. Come il sole si celava, tutto questo bianco si faceva grigio, prendeva un aspetto di torrente impetuoso, pietrificato d’un tratto. Pareva che la vita vi si assopisse per istanti. Un silenzio triste succedeva al chiasso della città. Sotto la collina fiorita, la stazione centrale allungava le sue quattro braccia; si succedevano senza interruzione i locali bassi e grossi, le piramidi di carbon fossile, le file dei vagoni fermi sulle rotaie, le macchine fermate, i piccoli trafori: tutto era nero, nero di carbone, nero di fumo, nero di vapore, come se tutto questo vi fosse piovuto da secoli. Nella campagna, un alto fumaiolo sorgeva da un edificio tutto giallo: una fabbrica di cappelli: il pennacchio del fumo pendeva, senza che un fiato d’aria lo sollevasse. E poi pianura, pianura, sempre pianura; campi di robbia, paludi dove crescono e si gonfiano i cocomeri, ruscelli di acqua verdastra, seminagioni grasse di cavoli, quadrati di broccoli: una pianura che si perde monotonamente, e pare non abbia mai fine nelle nebbie della lontananza. Tutto questo si adombrava nella tetraggine plumbea che pioveva dalle nuvole; tutto il movimento di questa natura umanizzata si arrestava come un petto colossale che si fermasse dal respirare in un minuto d’ansietà.
Ma come il raggio di sole si faceva strada fra le nuvole, a poco a poco la sua luce bigia trasformava quell’aspetto. Prima erano le colline che s’innalzavano in una apparizione nella luce; le casine spiccavano, come un dado, una pietra miliare fra l’alta erba; fra le colline di Posilipo e Santacroce un ponticello di pietra, sopra un burrone, un ponticello dalla curva ardita, si rilevava; sul Vomero la rossa villa Floridiana, un dono reale ad una reale amante, rideva con sorriso d’amore; sulle mura cupe di Sant’Elmo si distinguevano le larghe tracce di una vegetazione verde che metteva una primavera in quella decrepitezza; due finestre del palazzo reale di Capodimonte si accendevano di raggi, animando quella facciata uniforme, dall’architettura rigida e pesante. E tutta Napoli, dalla costa per l’erta alle colline, pareva riprendesse il suo movimento ondulatorio, coi flutti bianchi, allegri, che si gonfiavano, sovrastavano l’uno all’altro, straripando, con un crepitìo di torrente, diffondendo le case, i palazzi, le chiese da tutte le parti; presso il mare il campanile del Carmine si slanciava, svelto, coi suoi quattro piani a finestruole che lo fanno rassomigliare stranamente al giuocattolo grandioso di un bimbo-gigante; nel centro della città, la cupola dello Spirito Santo in maiolica gialla e azzurra, brillava tutta; mentre le frecce, le croci, le banderuole si illuminavano come singolari gioielli aerei. In quella luce che la sollevava, la città si scuoteva e si destava, ricominciava a vivere: uno scricchiolìo saliva dalle sue mura, un rumorìo prima indistinto e vago, poi sempre crescente, dalle case, dalle finestre, dai vicoli, dalle piazze, dalle strade, si ripercuoteva con un rombo continuo. Non si vedevano gli uomini, non si vedevano le carrozze ed i carri, non si udivano le voci; ma tutta questa umanità, tutta questa attività, s’indovinava da un soffio possente che pareva montasse nell’aria a fecondarla. Si sentiva in quelle vie nascoste, in quelle piazze sprofondate, dietro quelle finestre, dietro quelle enormi facciate, sotto quelle cupole che si arrotondavano, sotto quei tetti rossi, sotto quelle terrazze, un formicolìo di esseri viventi che vanno, vengono, agiscono, amano, si battono, nascono e muoiono; si sentivano le facce pallide di collera o rosse dalla gioia, le braccia rese convulse dall’amore o tranquillamente metodiche nel lavoro, i corpi girovaghi nella ricerca di agitazione o quieti nel novello raccoglimento delle forze: s’indovinava il lento e sicuro egresso della vecchiaia che è sempre un moto, accanto allo sviluppo, all’invasione sbuffante e selvaggia della gioventù. Un fermento saliva dal mare con un profumo acre ed inebbriante, si univa all’odore delle vie affollate, si univa a quello che usciva dalle stanze ove era l’amore, il lavoro, il pensiero, l’agitazione, e si sdoppiava, si moltiplicava, faceva pullulare, sgorgare, sorgere la vita da ogni parte, con un alito caldo e fecondatore. Un rigoglio pareva spaccasse le pietre. Nella stazione un fischio lungo, stridulo: un treno partiva. E le fabbriche dei sobborghi pareva che s’animassero, nascondendo dietro le loro mura un milione di ruote che giravano, tutto un sistema enorme di congegni che s’incontravano; dal fumaiolo della fabbrica di cappelli il fumo usciva a grossi sbuffi come la caldaia a vapore si fosse riaccesa; e la pianura grassa, senza alberi, si apriva, sbocciava, pullulava anch’essa in una vegetazione bassa e ricca, con mille toni di colori cangianti, con un movimento impercettibile, ma estesissimo in pianticelle che germogliavano, fiorivano, fruttificavano. Nel sole Napoli grandiosa si estendeva, si allungava, colma di benessere, con le grosse arterie rifluenti di sangue, le vene ricche, i gonfi fianchi dove batteva la vita.
Ma dietro le spalle di Marcello il bel villaggio s’immergeva nella quiete. Nelle sue viottole che salgono, scendono, s’incrociano, formano spianate rotonde, triangoli, piccoli quadrivii, non compariva alcuno. Le siepi di mortella, alte, folte, non erano sfiorate da contatto umano; nei boschetti, nelle capannucce di edera non si celava alcuno; solo qualche trillo d’uccello ne partiva, si elevava nell’aria, a perdersi nelle altitudini del cielo. Nelle erbe, tra i fiori che dondolavano il capo sugli svelti steli, biancheggiavano le pietre delle casette del villaggio; ogni tanto fra gli alberi, superandoli, una gran casa sorgeva, un palazzo quasi. Ma le porte erano serrate, i cancelli, dorati o dipinti di color bronzo, erano chiusi, le finestruole parevano sbarrate. Alla porta superiore del villaggio non un guardiano per ispalancare e chiudere il grande cancello; alla porta inferiore non un guardiano. Tutto taceva. Il villaggio ridiventava un bel giardino fiorito, digradando dalla cima della collina, alla pianura, con le sue rose delle quattro stagioni che si sfogliavano al suolo, coi crisantemi rosei, gialli, bianchi, con le sue aiuole di viole rosse, coi suoi boschetti folti, con i suoi filari di alberi dalla tinta bruna. La vegetazione solitaria si tranquillizzava in una grande calma. Quest’ultima collina pareva fosse un’apparizione di pace sulla vita esuberante ed affannosa della città; la sua linea plastica e posata, la sua apparenza serena, il suo silenzio, la sua solitudine si ergevano in mezzo al tumulto, al fermento, alle convulsioni di Napoli, senza esserne tocchi. Ai suoi piedi si fermavano le onde straripanti delle case e dei sobborghi, quasi che non osassero andare più oltre. Magicamente intorno ad essa l’agitazione cadeva. Gli uomini la rispettavano. La collina col suo bel villaggio addormentato, rimaneva inviolata, con la sua grande aria giovane e verginale. Pareva posta al confine della città per frenarla nella ricchezza rovinosa della sua esistenza, per moderarne i lunghi fremiti di vita, per chetare quel palpito enorme. A compiere questo le bastava di essere tutta verde, tutta fiorita, con un manto perenne di primavera, la più bella, la più amena, la più soave, il giardino per eccellenza, il villaggio delle pietre di marmo, con le chiesuole piccole e grandi perdute nella vegetazione, Poggioreale, la casa dei morti.
Marcello pensava, guardando Napoli. Era da un’ora colà, al posto dove soleva venire a sedersi, sul poggiuolo del terrazzino, donde si scopre il panorama della città, dove i custodi conducono ordinariamente i forastieri visitatori del camposanto. Ma nessuno veniva a disturbarlo ed egli, il sognatore pensoso, si poteva abbandonare alla sua fantasia. Egli prediligeva quel posto, donde il suo sogno si allargava in un orizzonte molto vasto, assumendo proporzioni sconfinate; e rimaneva lungamente colà, temendo d’andarsene, temendo di ricadere nella deserta, stretta ed arida solitudine del suo cuore. Aveva finito per interessarsi a quello spettacolo immenso. Quelle variazioni di ombre e di luci, quei cangiamenti rapidi, tutte le trasformazioni naturali di quel paesaggio si riflettevano in lui. Quando i raggi del sole scomparivano dietro le nubi, quando la città si disanimava, quasi presa da un grande scoramento, egli provava un’angoscia sorda nel petto, alzava lo sguardo inquieto al cielo, misurava mentalmente i minuti che il sole sarebbe rimasto vinto dalle nuvole, ed affrettava il momento della vittoria, lo pregustava; abbassava di nuovo gli occhi sulla città per non perdere un sol particolare del suo rinascimento. Un sospiro di sollievo cancellava la sua angoscia. Napoli si rimetteva a sorridere, ad amare, a danzare nella bionda luce — ed egli udiva venire sino a lui quel rumorìo confuso, eco lontana, ripetuta le mille volte. Ma come il sole folgorava nel cielo, il sorriso della città diventava più acuto, il suo amore si cangiava in passione, la sua gioconda danza pareva si mutasse in una ridda sfrenata. La città pareva s’inebbriasse della sua salute, della sua gioventù, della sua bellezza, si esaltasse nel succhio energico che circolava nelle sue fibre, vibrasse tutta nell’estasi della sua vita, affogasse nel supremo benessere, innamorata di sè, folle dei suoi colori, dei suoi profumi, delle sue musiche, dei suoi odii, dei suoi amori. Di nuovo Marcello si lasciava prendere nell’angoscia, quasi che in quell’eccesso, in quella follia egli temesse veder morire d’un tratto una persona a lui carissima, quasi che nella bianca e ardente bellezza di Napoli, nel suo palpito che saliva sino al massimo punto, egli riconoscesse Beatrice, morta nella passione del suo cuore.
Era allora che si rivolgeva alla calma solenne del Camposanto per sentirsene compreso, per appagarsene. Lì veniva a battere il rumore della città, lì tutto si arrestava, si quietava, taceva, s’annullava, come in un grande spegnitoio. Scompariva il sorriso, scompariva l’amore, scompariva la ridda, l’esaltazione, l’entusiasmo, la febbre, il delirio. Un grande schianto, poi il silenzio profondo, inconturbato, eterno. E lo strano paragone continuava, lo dominava: la vita della sua donna s’era infranta, in uno scoppio — e gioventù, bellezza, passione erano venute a posare per sempre, a finire là, alle sue spalle, nella pace della terra fiorita. Ed allora tendeva le braccia verso la città, per arrestarla nel suo impeto, gridandole: fermati, fermati! Le tendeva le braccia come se fosse Beatrice, come se avesse voluto salvarla dal suo immenso sacrificio. Daccapo la sua mente si amareggiava nel rimpianto, nel ricordo di un passato oscuro che nulla era venuto a rischiarare; e lo angosciava un rimorso, un rimorso di non averle chiesto perdono, quando cento volte aveva voluto farlo. Sentiva che Beatrice aveva saputo amar bene, aveva saputo amar meglio di lui. No, egli non l’aveva amata come doveva, senza debolezze e senza egoismi; il suo amore era stato violento, impuro, esigente, era arrivato sino all’odio, sino al disprezzo. Aveva cercato consolazioni altrove. L’aveva offesa, amandola. E lei era partita senza lagnanze, ma senza perdono. Oh! era partita così presto, così presto! Egli non aveva neppure avuto il tempo di dirle quanto l’amava, non aveva neppure avuto il tempo di baciarla abbastanza, non aveva avuto il tempo che di stringerla in un abbraccio solo — ed ella era partita. La sua ferita profonda bruciava come se vi avesse versato del vetriolo. Non si poteva sottrarre a quello stato d’animo tormentoso, per cui sembra di aver commesso i più gravi torti verso la persona morta troppo giovane. Egli non trovava nulla che lo giustificasse. Avesse voluto vivere un anno, un mese ancora, come l’avrebbe amata! Questa orribile fatalità dell’amore lo sgomentava. Sempre troppo presto, sempre troppo tardi! E fissava di nuovo Napoli, cercava i quartieri ricchi, dove abitava l’aristocrazia, dove continuava alacremente senza posa l’urto degli odii e degli amori, dove si ammantavano ipocritamente le colpe o ingrassavano lautamente al sole, dove si nascondevano le virtù solitarie o rifulgevano come gemme, dove cozzavano sempre lo spirito e la materia, la forma e l’idea, il temperamento e la legge, dove continuava la vita affannosa nei piaceri prolungati, nei dolori imbellettati di gioia, nella malinconia di una esistenza esaltata e vuota. Fatalità, fatalità dell’amore! Sempre troppo presto, sempre troppo tardi; mai in tempo, mai in tempo!
— Buongiorno, Marcello — disse una voce accanto a lui.
Egli levò gli occhi. Lalla D’Aragona era là, in piedi, avvolta nei suoi ricchi abiti di lutto, col capo coperto di un velo, sempre pallida, un po’ invecchiata, ma dallo sguardo sempre magnetico. Marcello la guardò senza alcuna meraviglia, ma non rispose una parola.
— Non mi riconoscete?
— Sì, vi riconosco — rispose finalmente lui, senza che nulla si fosse alterato nel suo viso o nella sua voce.
— Vi duole di vedermi presso a voi?
— No, o signora, non mi duole.
— Allora vi fa piacere?
Egli tacque ed il suo sguardo vagò, incerto, sul panorama di Napoli. Quella donna era stata una parte del suo passato; ma veramente egli non la riconosceva più. Gli era lontana, estranea, sconosciuta; anzi gli era stata sempre tale.
— Voi venite spesso qui — riprese Lalla, con una certa dolcezza; — vi ho incontrato più volte.
— lo non vi vidi... — mormorò lui.
— Ella ha sempre dei fiori, dei bei fiori... — disse Lalla abbassando la voce, guardandosi attorno come se temesse d’essere ascoltata.
— Le piacevano assai... negli ultimi tempi... — fu la risposta malinconica di lui.
Era strano; non gli spiaceva parlare di lei con quella donna; non gli pareva di offenderne la memoria.
Lalla sfogliava una rosa, cospargendo la terra delle foglie staccate. Un venticello sorgeva che faceva gonfiare il suo velo. Pareva che fosse caduto il suo sorriso perfido, la piega crudele di quelle labbra tormentate e tormentatrici.
— ... Voi avete molto sofferto.
— Oh sì! — ed un grande pallore gli si cosparse sul viso.
— ... L’amavate.
— Non abbastanza... non credo di averla amata abbastanza... — balbettò lui, discovrendo la sua piaga.
— L’amavate. Sempre l’avete amata. È stato il vostro unico amore. Io ve lo dissi.
— Oh! non ricordate... — pregò egli, coprendosi il viso con le mani.
— Avete orrore di quel tempo? — domandò ella con la sua voce vibrante di dolore — eppure anche allora l’amavate. Ma non ve ne rammentate forse? Avete dunque tutto obliato? Chi cercavate in me se non lei? Non vi spingeva il desiderio di ritrovarla? Se ciò vi cruccia, quietatevi. Non potevate amarla di più, nè meglio.
E spezzò nelle sue mani il gambo della rosa. Egli aveva chinato il capo. Accettava quel conforto. Si trovava smarrito, perduto, debole come un bambino, e non pensava alla singolarità di quella consolazione, alle labbra donde usciva.
— Di chi portate il lutto? — chiese egli, dopo un poco.
— Di una persona che amavo.
— E vi è morta?
— Morta, morta. Dovunque io vada, non la ritroverò più.
— Vi amava ella?
— Credo. Eravamo in tre ad amarci. Lo sapete bene.
Egli la fissò, sorpreso per la prima volta.
— Non vorrete parlarmi di lei?
— Di lei appunto.
Tacquero. Lalla s’impazientiva.
— E che farete? — gli chiese d’un tratto.
— Io? nulla, signora — disse lui con una grande semplicità.
— Voi siete giovane. La vita è lunga.
— È lunga — ripetette egli, come un’eco triste
— Il dolore si consuma ogni giorno, Marcello. Vorremmo trattenerlo ancora, l’ospite ormai divenuto caro; vorremmo serbarlo per noi, solo per noi, per tutta la vita. Ma è impossibile: è legge che sia impossibile; e noi sentiamo sempre più il suo abbandono, sentiamo che esso ci lascia. Invano gli gridiamo di restare, invano ci ribelliamo contro la nostra ingratitudine, contro la nostra indifferenza. Viene il giorno in cui il dolore parte. Lo avete preveduto questo giorno, Marcello?
— No, signora.
— Pensateci allora — ripigliò ella, animandosi al suono delle proprie parole. — Il giorno verrà. Le vostre forze risorgeranno, rinfrescate, vivide. La gioventù alzerà il suo grido di riscossa. Voi dovrete vivere ancora, amare ancora. Vedete, laggiù, Napoli è stupenda di bellezza, è bella nelle sue notti innamorate, nelle sue giornate violente, nei suoi canti che vi seducono, nei suoi colori sempre ardenti, nelle sue dolcezze voluttuose. Laggiù corrono per l'aria sospiri infuocati, aliti d’amore, mormorii di baci, parole convulse; laggiù si è costretti ad amare, perchè il cielo vuole che amiate, perchè la natura v’impone di amare, perchè la città congiura, con le stelle, col mare, per farvi amare.
— No! — disse lui.
— Non vi è Napoli sola. Vi hanno altre città, altre delizie, altre impressioni. Vi sono altrove nebbie e raggi di sole, quiete profonda o tumulto crescente; vi hanno città dove si prega, dove si pensa, dove si ammira, dove si sorride, dove si tace; ha giardini, ha fiori bellissimi, ha frutti meravigliosi, la terra...
— No! — disse lui.
— ..... sono tutti innanzi a voi. Siete bello, giovane, ricco. L’anima vostra intende. Tutte le felicità possono giungere fino a voi: voi saprete accoglierle. Vedete, vedete, come il raggio di sole mette in un'aureola la città? Udite le mille voci che vi chiamano? Guardate che sfolgorìo, che trionfo di luce! È l’immagine del vostro avvenire, Marcello, se consentite a vivere e ad amare.
E ritta presso il poggiuolo, col gesto largo che pareva volesse dilatare l’orizzonte, col volto acceso da una fiamma, gli occhi seduttori, la persona quasi ingigantita, ella rassomigliò un momento al Grande Tentatore che offre a Gesù tutt'i beni della terra. In alto il sole aveva dileguato tutte le nuvole, ed il mare, la città, le colline, le campagne entravano in un’apoteosi di luce.
— No! — ripetette lui per la quarta volta, con l’intonazione monotona e spenta di una esistenza infranta — non posso. Il cuore, come ogni cosa, ha le sue stanchezze. Il mio cuore ha esaurito la sua forza. Ho amato per tutta la vita.
— Addio, Marcello.
— Addio.
Ella si allontanò rapidamente senza volgersi indietro. Egli rimase ancora. Poi risalì la viottola, s’inchinò profondamente dinanzi alla tomba circondata di fiori e passò oltre. La pace invocata era nel suo spirito. E come, poco dopo, la sua alta figura si perdeva sotto gli alberi della via, egli entrava nella sua nuova vita, fatta dell’unico, indimenticabile ricordo dell’amore.
Fine.