Ogni tanto le nuvole a massi di un cielo torbido, di un meriggio autunnale, si riunivano, si accumulavano; il sole scompariva, un’aria bigia cadeva sull’immenso panorama, cangiandolo in un momento. Il mare agitato pareva immobile, la lontananza non lasciando vedere il moto delle onde; era nero come un orlo bianchiccio di spuma. Le colline si facevano brune, come se un’ombra se la prendesse; quella di Posilipo, malinconica, s’incupiva di più; su quella di S. Martino, il forte di Sant’Elmo sembrava più aspro, più grigio, più duro coi suoi profili severi di pietra, neppure allineato dalla leggera trina di merli bianchi con cui spicca sul cielo il vicino convento; su quella di Capodimonte, il palazzo reale rimaneva solitario, coi suoi tetti rossi, i parafulmini sottili, le finestre tutte chiuse. Dal mare, quasi nascessero dal bianco orlo di spuma, le onde delle case salivano, alte, crescenti, addossandosi, urtandosi, accavallandosi, rovinando le une sulle altre, con una inondazione vastissima, allargando la pianura della costa, occupando l’erta, ascendendo, ascendendo, con un movimento continuo d’invasione verso le colline, sommergendo tutto, divorando il verde, rosicchiando le colline, mettendo del bianco dappertutto; le strade segnavano appena una striscia sottile, i campanili sembravano le antenne di qualche nave sommersa. Come il sole si celava, tutto questo bianco si faceva grigio, prendeva un aspetto di torrente impetuoso, pietrificato d’un tratto. Pareva che la vita vi si assopisse per istanti. Un silenzio triste succedeva al chiasso della città. Sotto la collina fiorita, la stazione centrale allungava le sue quattro braccia; si succedevano senza interruzione i locali bassi e grossi, le piramidi di carbon fossile, le file dei vagoni fermi sulle rotaie, le macchine fermate, i piccoli trafori: tutto era nero, nero di carbone, nero di fumo, nero di vapore, come se tutto questo vi fosse piovuto da secoli.