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350 Cuore infermo

delirio. Un grande schianto, poi il silenzio profondo, inconturbato, eterno. E lo strano paragone continuava, lo dominava: la vita della sua donna s’era infranta, in uno scoppio — e gioventù, bellezza, passione erano venute a posare per sempre, a finire là, alle sue spalle, nella pace della terra fiorita. Ed allora tendeva le braccia verso la città, per arrestarla nel suo impeto, gridandole: fermati, fermati! Le tendeva le braccia come se fosse Beatrice, come se avesse voluto salvarla dal suo immenso sacrificio. Daccapo la sua mente si amareggiava nel rimpianto, nel ricordo di un passato oscuro che nulla era venuto a rischiarare; e lo angosciava un rimorso, un rimorso di non averle chiesto perdono, quando cento volte aveva voluto farlo. Sentiva che Beatrice aveva saputo amar bene, aveva saputo amar meglio di lui. No, egli non l’aveva amata come doveva, senza debolezze e senza egoismi; il suo amore era stato violento, impuro, esigente, era arrivato sino all’odio, sino al disprezzo. Aveva cercato consolazioni altrove. L’aveva offesa, amandola. E lei era partita senza lagnanze, ma senza perdono. Oh! era partita così presto, così presto! Egli non aveva neppure avuto il tempo di dirle quanto l’amava, non aveva neppure avuto il tempo di baciarla abbastanza, non aveva avuto il tempo che di stringerla in un abbraccio solo — ed ella era partita. La sua ferita profonda bruciava come se vi avesse versato del vetriolo. Non si poteva sottrarre a quello stato d’animo tormentoso, per cui sembra di aver commesso i più gravi torti verso la persona morta troppo giovane. Egli non trovava nulla che lo giustificasse. Avesse voluto vivere un anno, un mese ancora, come l’avrebbe amata! Questa orribile fatalità dell’amore lo sgomentava. Sempre troppo presto, sempre troppo tardi! E fissava di nuovo Napoli, cercava i quartieri ricchi, dove abitava l’aristocrazia, dove continuava alacremente senza posa l’urto degli