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Parte sesta 349

tutte le trasformazioni naturali di quel paesaggio si riflettevano in lui. Quando i raggi del sole scomparivano dietro le nubi, quando la città si disanimava, quasi presa da un grande scoramento, egli provava un’angoscia sorda nel petto, alzava lo sguardo inquieto al cielo, misurava mentalmente i minuti che il sole sarebbe rimasto vinto dalle nuvole, ed affrettava il momento della vittoria, lo pregustava; abbassava di nuovo gli occhi sulla città per non perdere un sol particolare del suo rinascimento. Un sospiro di sollievo cancellava la sua angoscia. Napoli si rimetteva a sorridere, ad amare, a danzare nella bionda luce — ed egli udiva venire sino a lui quel rumorìo confuso, eco lontana, ripetuta le mille volte. Ma come il sole folgorava nel cielo, il sorriso della città diventava più acuto, il suo amore si cangiava in passione, la sua gioconda danza pareva si mutasse in una ridda sfrenata. La città pareva s’inebbriasse della sua salute, della sua gioventù, della sua bellezza, si esaltasse nel succhio energico che circolava nelle sue fibre, vibrasse tutta nell’estasi della sua vita, affogasse nel supremo benessere, innamorata di sè, folle dei suoi colori, dei suoi profumi, delle sue musiche, dei suoi odii, dei suoi amori. Di nuovo Marcello si lasciava prendere nell’angoscia, quasi che in quell’eccesso, in quella follia egli temesse veder morire d’un tratto una persona a lui carissima, quasi che nella bianca e ardente bellezza di Napoli, nel suo palpito che saliva sino al massimo punto, egli riconoscesse Beatrice, morta nella passione del suo cuore.

Era allora che si rivolgeva alla calma solenne del Camposanto per sentirsene compreso, per appagarsene. Lì veniva a battere il rumore della città, lì tutto si arrestava, si quietava, taceva, s’annullava, come in un grande spegnitoio. Scompariva il sorriso, scompariva l’amore, scompariva la ridda, l’esaltazione, l’entusiasmo, la febbre, il