Cuore infermo/Parte Sesta/V
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V.
Sulla via maestra, le carrozze del corteggio discendevano senza molto rumore; le ruote affogavano nella polvere. Soltanto, quando entravano nella via selciata di un villaggio, un rumorìo si levava. Sulle porte, sui balconi comparivano persone, attratte dalla curiosità. Qualche contadina in gonna succinta, i cappelli disfatti sul collo, si ristava dal cullare il bimbo nudo che teneva fra le braccia; qualche lavandaia curva sopra un tinello di creta, battendo i panni sopra un banchetto scannellato di legno, sostenuto dalle ginocchia, si levava con un moto di meraviglia; i bimbi, che rotolavano nel ruscello fangoso, si facevano da parte, addossati al muro, con un dito in bocca; dietro le imposte verdi di qualche casinetta borghese, una testa di fanciulla si chinava, con gli occhi avidi nel viso bianco. Come il corteggio procedeva, la gente rimaneva a guardare, immobile, senza parlare; ma appena l’ultima carrozza era scomparsa, un parlottìo vivace sorgeva, i commenti s’incrociavano. Qualche esclamazione di rimpianto faceva da nota grave in quel concerto acuto. Poi ricominciava il cullamento della sedia su cui la mamma si dondolava, per addormentare il bimbo; la lavandaia sfregava fortemente una camicia sui cannelli del banchetto; le galline ed i bambini bruni, belli e sudici, riprendevano possesso della via; dietro le gelosie la fanciulla aveva ricominciato il suo lungo lavoro all’uncinetto. Ma le dita erano più fiacche, quasi la vista di quel corteggio funebre, nel sole di una giornata splendida, le avesse ammollite e tolto loro la forza.
Di nuovo sulla via maestra, il rumore cadeva. Ma il sole scottava ed i cocchieri sudavano, il viso rosso e grave, sotto i cappelli a staio dalla coccarda nera. Nella prima carrozza era il conte Sangiorgio, con due cugini, dello stesso cognome, parenti lontani, correttamente vestiti di nero. Le portiere erano chiuse, ma i vetri erano abbassati, perchè il ponente temperasse il caldo della giornata e dell’ora. Nella seconda carrozza quattro preti, tutti di nero, coi tricorni lucidi, il cappellano di casa Sangiorgio, quello di casa Revertera, il confessore della morta, tutti tre venuti da Napoli, quarto il canonico Ruggi di Vico Equense, cappellano di villeggiatura. I quattro preti scambiavano poche parole, guardando dagli sportelli nella via. Ogni tanto uno di essi si piegava all’infuori per guardare la carrozza dove era trasportata la duchessa, per vedere se subito dopo veniva quella dei chierichetti, sagrestani, gente dalle figure bianche, come corrose dall’acqua benedetta. Dopo, sei carrozze; era la servitù alta e bassa delle due case, venuta da Napoli. Tutta questa gente, uomini e donne, affettava un lutto esagerato, con le facce serie e compunte. Solo Giovannina, che stava col maggiordomo, si asciugava qualche lagrima. E spiegava lungamente che aveva dovuto vestirla, come ella glie ne aveva manifestato il desiderio un giorno. Tratto tratto anch’essa si piegava dallo sportello per guardare avanti, fra la carrozza dei preti e quella dei chierici, la carrozza dove viaggiava la duchessa morta.
Era la carrozza solita delle passeggiate, la daumont chiusa, dove Beatrice era andata su e giù per le strade di Napoli, spandendovi le sue ricche acconciature, mettendo nel lato destro un poco della sua persona. Erano gli stessi cavalli roani guidati da Francesco, il solito cocchiere. Dietro la carrozza un accatastamento di fiori tutti bianchi; i sedili, i tappeti ne erano cosparsi. Dalle pareti pendevan corone di rose bianche, grandi triangoli, cascate di fiori candidi, legati da nastri di raso bianco, su cui era ricamato a lettere d’argento: Beatrice. La bara, tutta d’argento, andava esattamente da un sedile all’altro, appoggiata solidamente a capo ed ai piedi, senza che si potesse scuotere, quasi che si fosse presa la misura giusta. Era coperta di fiori, vi scompariva sotto. Ma era tutta pura, senza ornamenti, come di un pezzo solo. Sulla placca superiore una grande croce si rilevava; sotto, il nome in lettere rilevate: Beatrice. In un angolo del sedile di fondo era rincantucciato Marcello. Si stringeva alla parete per dar posto alla bara. Poggiava la testa sopra un cuscinetto di rose bianche della parete. Una mano era abbandonata, aperta sull’argento della bara, donde gli veniva una grande frescura. Ad ogni sbalzo della via egli tremava, s’inchinava sovr’essa quasi volesse proteggerla con le braccia. Ogni tanto si curvava e la baciava tacitamente, lungamente, al luogo dove dovevano essere le labbra. Senza che avesse pianto, gli occhi erano gonfi e rossi di lagrime non sparse, con uno sguardo errante; la barba di due giorni dava un’ombra bruno-azzurrognola alle guancie. Provava dei dolori acuti nel cranio, dei dolori infuocati, come se glielo avesse scoperchiato e vi avessero versato del piombo in fusione; tolse il cappello per provare un alleviamento: non aveva dove posarlo, lo teneva fra le gambe. Si muoveva con molta lentezza, con grande precauzione, per timore di urtare la bara.
A Meta si arrestarono un poco. Egli si scosse e si guardò dintorno. Lo zio Domenico era allo sportello, e lo pregava di nuovo a non voler rimanere in quella carrozza.
— No, zio, non voglio — rispose lui dolcemente.
E gli vennero le lagrime agli occhi: ma si disseccarono subito come al riflesso ardente di una vampa. Come lo zio Domenico parlava ancora, cercava persuaderlo, egli gli fece cenno di tacere, con la mano. Sarebbe rimasto. Dopo poco le carrozze ripresero il loro andare. Marcello prese una rosa e la fiutò; la ripose. Qualche cosa gli punse la guancia. Era il ricamo di argento di una sciarpa, dove era scritto: Beatrice. Ripetette il nome a bassa voce, con grande tenerezza. Poi, come afferrato da subito furore, gli venne voglia di gridarlo con voce tuonante, perchè ella gli rispondesse. Ma si poggiò il fazzoletto alla bocca per frenarsi; fatti pochi altri passi mise fuori la testa dallo sportello. Nell’azzurro del cielo, sopra l’azzurro del mare, sotto un raggio obliquo di sole, una vela s’ingialliva. Il mare brillava tutto, a lamette, come tanti pezzetti di specchio, in cui si rinfrange il sole. Lo guardò lungamente sentendosi arroventare gli occhi; poi, come giravano le ruote, cominciò a girargli il capo ed egli provò la sensazione netta del capo che voltolava voltolava in giri sempre più rapidi. Un mendicante gli chiese l’elemosina; egli lo fissò con uno sguardo ebete e si trasse indietro.
A Castellammare giunsero alle cinque. Lo zio Domenico venne di nuovo a parlamentare: i cavalli avevano bisogno di riposare, di rinfrescarsi, per continuare fino a Napoli. Giusto vi era lì l’Hótel de la Paix, dove si poteva posare per una mezz’ora.
Le vetture sarebbero rimaste nel cortile spazioso. Marcello doveva discendere; quattro servi rimarrebbero a guardare gli equipaggi. Tutto sarebbe andato in perfetta regola. Egli oppose prima una certa diffidenza, non voleva staccarsi dal suo caro tesoro. Non si convinse che a stento, ed ancora per lo scalone si volgeva a guardare la vettura. Nel salone si sedette in un angolo, con un aspetto di pazienza rassegnata. Un cugino gli si accostò per dirgli qualche parola di condoglianza.
— Grazie, grazie... — mormorò per sola risposta, senza alzare gli occhi.
Chiamò lo zio Domenico, ma quando questi gli fu vicino, parve avesse dimenticato quello che voleva chiedergli. Infine:
— Avete scritto... avete fatto sapere a...
— Gli ho telegrafato ieri sera; ma non potrà essere a Napoli che questa sera. Forse lo troveremo al palazzo.
— Gli avete detto che...
— Sì.
— Egli l’amava... voi anche l’amavate, zio...
— Non pensarvi, non pensarvi, Marcello.
— Io non penso — disse lui, dolcemente.
E tacque di nuovo. Dopo poco si ripartì nel medesimo ordine. Dalle finestre del cortile tutti i servi dell’albergo ed i pochi villeggianti guardavano partire il corteggio. Per la via, una bambina si accostò alla carrozza di Marcello e strillava:
— Signorino, datemi un fiore! Signorino, datemi un fiore!
Marcello prese un grande giglio e glielo dette. Ma quando furono passati, la mamma della bambina le strappò il fiore di mano gridando:
— Fiori di morto, malaugurio! Butta via.
Egli non udì, nel rumore delle ruote. Ora le carrozze trottavano ad un buon passo, in una via di pianura che costeggiava la strada ferrata. Un polverìo si levava. Ogni tanto s’incontrava un villano a cavallo del suo asino; il villano, involontariamente, si levava il cappello. Marcello numerava gli alberi della via, come per fissare in qualche cosa il pensiero che gli sfuggiva. Poi la stanchezza lo vinse. L’ora da Castellamare a Torre Annunziata gli parve un’eternità.
— Più presto, più presto — gridò a Francesco, il cocchiere.
Tutte le carrozze presero il mezzo galoppo. Gli alberi e le casupole scomparivano in un baleno, i filari di vite pareva che s’abbassassero e si rialzassero nella corsa. Egli chiudeva gli occhi, abbandonandosi:
— Ti piaceva andar presto, non è vero Beatrice? — disse ad alta voce.
Ma il suono delle sue parole lo spaventò. Si guardò attorno. Tanti fiori bianchi ed innocenti lo calmarono. Lentamente veniva il tramonto; dal sole che scendeva, un raggio penetrava per la portiera di cristallo abbassato. Un triangolo dorato si allungava sui fiori, toccando quasi col vertice l’argento. Ma a Torre del Greco si misero per una via interna, con un muro che la chiudeva; il sole scomparve. Una serenità grigia pioveva, ed un cielo bianchissimo al centro. Egli cercò il suo orologio per vedere l’ora; ma non lo ritrovò. Volle ricordarsi dove lo aveva lasciato, ma per quanti sforzi facesse a ravviare il filo conduttore della memoria, non vi riuscì. In uno slancio dei cavalli, irritati dal continuo schioccare della frusta di Francesco, la cassa tremò. Egli sentì in petto il contraccolpo di quel rumore, come lo squarcio di una larga ferita. E si mise a carezzare l’alto della cassa, strisciandovi le mani, come per addolcire il dolore, mormorando parole di compianto e di tenerezza. Fuori, di nuovo vi era il mare e la costa che s’imbrunivano nel crepuscolo crescente. Egli si sentiva appesantire il capo, preso da un torpore greve che lo immobilizzava; l’odore dei fiori gli arrivava più acuto come se l’aria della sera lo assottigliasse. Si riscosse solo quando, arrivati a Portici, passarono dinanzi alla villa Revertera. Osservò che tutte le imposte erano chiuse e che la palazzina si confondeva nel bigio, come se fosse deserta da tempo immemorabile.
— Non vi è più alcuno dunque? — chiese a sè stesso.
Nella via s’incominciava ad incontrar gente. Un organetto passò, suonando un’aria di operetta, con un trillo così stridulo, che egli lo udì ripercuotersi e straziargli il cervello. S’incontravano delle tranvie piene di gente; la trombetta del conduttore squillava, acutissima. Le carrozze si fermavano per accendere i lumi: era notte. Egli si riebbe, gettò uno sguardo fuori: si era ai Granili, a Napoli. Quando le carrozze ripresero il cammino, egli protendendosi, con infinite precauzioni, rialzò i due cristalli, si chiuse nella vettura insieme con lei: e fu con una soddisfazione che si rannicchiò nel suo cantuccio, lasciandosi vincere da capo da una sonnolenza pesante. Stava con gli occhi aperti, anzi vedeva passare, attraverso i cristalli, tanti lumi, tante fiammelle, tanti punti luminosi, tanti piccoli centri di luce, che gli facevano male agli occhi; irraggiavano, si dividevano, si suddividevano, gli accendevano nella testa miriadi di scintille dolorose; abbassando le palpebre, continuava a vederle, come se avessero consumato il sottil velo della carne. Gli giungevano gridi altissimi, scoppii di voce, gravi note vibranti, strilli di una finezza femminea, e tutto questo ondeggiava, si allargava nella sua testa, producendogli un grande spasimo. Poi l’aria gli parve carica di aromi, di un peso che egli non era capace di sollevare; e tutte queste sensazioni si avvicinavano, si allontanavano, si perdevano, riapparivano, fluttuavano, danzavano...
Nel cortile del palazzo lo trassero fuori dalla carrozza svenuto, quasi asfissiato dal profumo dei fiori. Rinvenne in camera sua. Appena riconobbe il luogo dove si trovava, si alzò, passò rapidamente nella camera contigua, prima che avessero potuto trattenerlo. Per terra, sul tappeto, era un nastrino rosso. Lo raccolse, balbettando con la voce strozzata e svenne di nuovo.
Mattina e sera il duca Mario Revertera veniva a chiedere notizie di suo genero. Entrava nella camera di Beatrice, dove Marcello aveva voluto rimanere e si tratteneva colà un’ora. Marcello non era ammalato, non aveva febbre, non aveva nulla; aveva solo la stupefazione, lo stordimento di un dolore improvviso e grandissimo, che non può sfogare ed evadersi in nessun modo. Era calmo, sempre distratto, con una lentezza di movimenti, con una dolcezza di sorrisi istintivi, con certe intonazioni basse di voce che facevano pena. Si vestiva, andava, veniva, si arrestava dietro i vetri dei balconi, ascoltava le persone che gli parlavano, senza che un fremito di vita apparisse nel suo volto. Era spenta la luce dell’occhio nero. La monotonia del dolore sempre interno, sempre taciturno, sempre profondato nell’anima, si spandeva come un velo sul suo viso. Viveva nella camera sua ed in quella di Beatrice; la notte lasciava la porta aperta, le due camere illuminate, ed andava su e giù per ore intere. I viandanti di Monte di Dio vedevano passare, disegnandosi dietro i vetri, quella grande ombra desolata, che nella notte assumeva proporzioni colossali. Nessuno attorno osava parlargli di lei; il palazzo era caduto in un silenzio di chiesa; vi si parlava a voce sommessa, vi si camminava in punta di piedi; un vago odore d’incenso era nell’aria; un’umidità calda, come di acqua benedetta, penetrava le persone che vi abitavano. Neppure il conte Domenico aveva il coraggio di nominare Beatrice a suo nipote. Si evitava con cura ogni discorso che potesse riferirsi a lei, ma i soggetti venivano a mancare, si restava muti, non trovando più niente da dire. Oppure, involontariamente, arrivava il punto in cui gli doveva essere nominata, e un grande imbarazzo regnava, mentre Marcello si astraeva.
Nè il duca Revertera trascurava queste precauzioni. Il duca era molto mutato; la sua svelta statura si curvava un poco, come se gli anni l’avessero fatto inchinare d’un colpo solo; l’angolo dell’occhio, altre volte liscio come la pelle d’una donna, si piegava in un ventaglio di rughe sottili: il mustacchio fino, arricciato, pendeva; una mollezza di vecchiaia guastava quel volto dalle linee così eleganti, così pure; un abbandono abbatteva quel corpo energico. Qualche volta le mani gli tremavano, come se la senilità togliesse già loro la vigorìa. Nella via, con gli amici, rimaneva molto degno, molto serio, con la sua tenuta corretta di gentiluomo che non vuole neppure accumunare il suo dolore; ma quando veniva da suo genero, entrando nella camera che era stata quella di sua figlia, non poteva sottrarsi ad un pensiero che lo faceva impallidire. In quell’ora che stavano insieme, in quell’ambiente dove tutto parlava dell’estinta, fra loro scambiavano poche frasi. Ad un certo punto si guardavano in viso, e, per pietà l’uno dell’altro tacevano. Così la mattina, così la sera. Il tempo che passava, non portava alcuna variabilità. Eppure ognuno di essi sentiva che il giorno in cui avrebbero dovuto parlare di Beatrice, si approssimava; ognuno di essi doveva interrogare l’altro ed esserne interrogato. Più volte il duca Revertera aveva preso il suo coraggio a due mani, aveva chiamato in aiuto tutta la sua forza per incominciare il discorso; ma non aveva potuto. Un giorno che era sul punto di farlo, Marcello, che aveva indovinato la sua intenzione, gli disse, quasi supplicando:
— Non oggi, non oggi, ve ne prego.
Ed altro tempo era passato. Poi una sera, quasi senza pensarvi, il suo nome fu pronunciato. S’erano decisi.
— Non mi dirai tu mai come è stato? — chiese Revertera con una grande timidità.
— Non so, non so — rispose Marcello, e fece un gesto largo.
— Non eri là?
— Fu nel parco. L’abbandonai per poco, per prendere qualche cosa che ella desiderava. Tornai...
— Ah!... ma era ammalata. Tu me lo scrivevi.
— Lo scrivevo, è vero, ma senza saperlo.
— Non ti disse mai nulla?
Una pausa.
— Ed a voi, padre mio?
— A me...? — rispose quegli, turbato, confuso — a me nulla...
— È strano, è strano assai.
— Perchè dunque?
— Ve lo dirò — riprese Marcello che parlava come in un sogno. — Ella aveva un segreto, padre mio, un segreto che le suggellava le labbra, che le rodeva il cuore. Lo vedeva bene io, al suo volto, ai suoi modi, alle sue parole incoerenti. Io l’amava. Molto l’amava, come si può amare una creatura umana, bella e buona come lei. Ma davanti ad essa ero come un bimbo, senza coraggio. Ella nulla voleva dirmi, io nulla osavo chiederle. Mi parve indelicatezza grossolana; fui timido, pauroso davanti ad un’anima che si chiudeva. Poi, quando andammo a Sorrento, un presentimento, un desiderio sempre più forte di sapere la verità mi sospingeva sulle labbra una domanda — e sempre non osavo. Non so neppure io il perchè. Vi è una fatalità, forse. Vi è della gente che si consola con l’idea della fatalità. E vedete, ella è andata via, ella è partita senza dirmi il suo segreto; l’ignoto della sua esistenza si è perduto nell’ignoto della tomba. Io l’ho ritrovata, come era nei suoi momenti di concentrazione, col volto contratto da una immensa disperazione. La ho innanzi agli occhi, non la posso dimenticare. — Di nuovo, sapevate voi nulla, padre mio? — riprese Marcello, dopo aver aspettato del tempo per calmarsi.
— Io? — disse Revertera, trasalendo.
— Sì, voi, padre.
Revertera non rispondeva; forse interrogava i suoi ricordi.
— Sai che Beatrice era molto poco espansiva... — mormorò poi.
— Eppure a me avrebbe dovuto dirmelo. Mi amava.
— Come, ti amava?
— Mi amava, mi amava. Erano quattro mesi che ella era la mia innamorata, la mia sposa, la mia signora. Ella mi amava, avrebbe dovuto dirmelo. Io la ho misconosciuta, è vero; io sono stato con lei cattivo, ma per l’amore. Quando il suo cuore ancora non veniva a me, io mi sono rivoltato contro la sua freddezza; io non ho saputo aver pazienza. Altrove l’ho ricercata presso un’altra. Ma alla prima parola d’amore, io mi sono inginocchiato dinanzi a lei, nell’idolatria di tutto il mio essere. Mi amava, ed una parte del suo cuore apparteneva al suo segreto. Questo nero, questo incognito, mi fa paura; fino all’ultimo ella ha taciuto, e nel suo silenzio mi sta terribile nella mente.
Mario Revertera pensava. Tutta la vita di sua figlia si svolgeva davanti a lui, chiara, netta, distinta. Dal giorno che era nata, bambina, adolescente, giovanetta, sposa, egli vedeva i capitoli di quella storia, li leggeva parola per parola, in tutta la loro grandiosa semplicità. Comprendeva tutto. Quanto gli era rimasto segreto, ora si svelava; una grande luce si faceva. Ed egli, l’antico egoista, rimaneva meravigliato davanti a tanta grandezza di sacrifizio, davanti a sì mirabile esempio di abnegazione. Si sentiva misero, meschino, colpevole dinanzi a sua figlia. E mentre la verità gli saliva alle labbra, dalle pareti, dai quadri, dal crocefisso, dal lettuccio bianco, dall’inginocchiatoio, in sè stesso, una voce gli susurrava: non dirglielo, padre, il mio segreto; non dirgli perchè sono morta!
Mario Revertera si tacque. Per un’ora ancora Marcello si sfogò nelle divagazioni del suo pensiero, errando nella confusione delle idee che si accavallavano per uscire. Non ebbe risposta. Non un lampo di luce gli illuminò il passato, in cui tentava di far penetrare lo sguardo. Egli ricadde nelle supposizioni. Nulla seppe. Mario Revertera non lo lasciò, che quando lo vide stanco, affranto dallo stesso sfogo, sollevato un poco. Quando ritornava a casa sua, egli chiedeva a sè stesso, se quello che aveva fatto era buono, se egli aveva compita l’opera di sua figlia, se avesse cancellato così una vita fredda e disamorata di padre — e gli pareva che la medesima voce gli susurrasse: Grazie, padre mio.