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336 | Cuore infermo |
guardare gli equipaggi. Tutto sarebbe andato in perfetta regola. Egli oppose prima una certa diffidenza, non voleva staccarsi dal suo caro tesoro. Non si convinse che a stento, ed ancora per lo scalone si volgeva a guardare la vettura. Nel salone si sedette in un angolo, con un aspetto di pazienza rassegnata. Un cugino gli si accostò per dirgli qualche parola di condoglianza.
— Grazie, grazie... — mormorò per sola risposta, senza alzare gli occhi.
Chiamò lo zio Domenico, ma quando questi gli fu vicino, parve avesse dimenticato quello che voleva chiedergli. Infine:
— Avete scritto... avete fatto sapere a...
— Gli ho telegrafato ieri sera; ma non potrà essere a Napoli che questa sera. Forse lo troveremo al palazzo.
— Gli avete detto che...
— Sì.
— Egli l’amava... voi anche l’amavate, zio...
— Non pensarvi, non pensarvi, Marcello.
— Io non penso — disse lui, dolcemente.
E tacque di nuovo. Dopo poco si ripartì nel medesimo ordine. Dalle finestre del cortile tutti i servi dell’albergo ed i pochi villeggianti guardavano partire il corteggio. Per la via, una bambina si accostò alla carrozza di Marcello e strillava:
— Signorino, datemi un fiore! Signorino, datemi un fiore!
Marcello prese un grande giglio e glielo dette. Ma quando furono passati, la mamma della bambina le strappò il fiore di mano gridando:
— Fiori di morto, malaugurio! Butta via.
Egli non udì, nel rumore delle ruote. Ora le carrozze trottavano ad un buon passo, in una via di pianura che costeggiava la strada ferrata. Un polverìo si levava. Ogni