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Parte sesta | 335 |
A Meta si arrestarono un poco. Egli si scosse e si guardò dintorno. Lo zio Domenico era allo sportello, e lo pregava di nuovo a non voler rimanere in quella carrozza.
— No, zio, non voglio — rispose lui dolcemente.
E gli vennero le lagrime agli occhi: ma si disseccarono subito come al riflesso ardente di una vampa. Come lo zio Domenico parlava ancora, cercava persuaderlo, egli gli fece cenno di tacere, con la mano. Sarebbe rimasto. Dopo poco le carrozze ripresero il loro andare. Marcello prese una rosa e la fiutò; la ripose. Qualche cosa gli punse la guancia. Era il ricamo di argento di una sciarpa, dove era scritto: Beatrice. Ripetette il nome a bassa voce, con grande tenerezza. Poi, come afferrato da subito furore, gli venne voglia di gridarlo con voce tuonante, perchè ella gli rispondesse. Ma si poggiò il fazzoletto alla bocca per frenarsi; fatti pochi altri passi mise fuori la testa dallo sportello. Nell’azzurro del cielo, sopra l’azzurro del mare, sotto un raggio obliquo di sole, una vela s’ingialliva. Il mare brillava tutto, a lamette, come tanti pezzetti di specchio, in cui si rinfrange il sole. Lo guardò lungamente sentendosi arroventare gli occhi; poi, come giravano le ruote, cominciò a girargli il capo ed egli provò la sensazione netta del capo che voltolava voltolava in giri sempre più rapidi. Un mendicante gli chiese l’elemosina; egli lo fissò con uno sguardo ebete e si trasse indietro.
A Castellammare giunsero alle cinque. Lo zio Domenico venne di nuovo a parlamentare: i cavalli avevano bisogno di riposare, di rinfrescarsi, per continuare fino a Napoli. Giusto vi era lì l’Hótel de la Paix, dove si poteva posare per una mezz’ora.
Le vetture sarebbero rimaste nel cortile spazioso. Marcello doveva discendere; quattro servi rimarrebbero a