Così mi pare/Cose/Pellegrinaggio francescano
Questo testo è completo. |
◄ | Cose - Wienerwalz | Cose - Campane sotto le stelle | ► |
Pellegrinaggio francescano
La città dell’anima.
Assisi, settembre 1909.
Leggo i giornali all’alba — già tarda, già fresca — dinanzi all’ampia distesa verde della valle lontana che il primissimo mattino fascia ancora di nebbia lieve. Sopra, è il chiarore opalino del cielo già soffuso d un sorriso mite:
la promessa del sole che verrà. Nell’aria, il canto monotono d’una piccola campana conventuale. La pace dovunque.
Narrano i giornali: — Il Polo è scoperto. — La settimana di Reims ha risolto definitivamente il problema dell’aviazione. — Ieri, l’uomo ha volato, in Francia, domani volerà a Brescia.
E queste notizie singolari che ridicono l’orgoglio di Prometeo indomato nel tentativo rinnovato eternamente, acquistano un bizzarro sapore di fantastico, lette in questo luogo, a quest’ora: — un sapore quasi di leggenda, nel quale non manca nemmeno una vena sottilissima di pietà ironica per il tanto affaccendarsi — così febbrile e così inutile — del piccioletto uomo irrequieto.
Questa impressione, meglio che ogni altra, mi rivela e riassume a un tratto la suggestione di Assisi. Una suggestione assolutamente negativa, rispetto a tutto quello che è vita attiva, progredente, tesa verso l’infinito divenire, sollecitante l’orgoglio e l’audacia dello spirito: mirabilmente efficace, invece, per il raccoglimento interiore, per il distacco cristiano e filosofico da tutte le cose e da tutte le cure, per il richiamo del desiderio alla semplicità primitiva sufficiente, certo, all’uomo in questo ambiente impregnato ancora del ricordo e dello spirito del più filosofico fra i Santi e del più semplice fra gli uomini.
Evidentemente lo spirito di Francesco Bernardone aleggia ancora per le strade lunghe, strette, tortuose della piccola città che porta il ricordo d’un suo atto, d’un suo gesto, d’un suo sorriso, d’un suo insegnamento in ogni pietra delle sue case, in ogni dirupo del suo monte, lungo ogni sentiero delle sue campagne: ma forse quello spirito subì a sua volta l’influenza possente e sottile di questo ambiente, tranquillo come un eremo e sereno come un chiostro, sentì il fascino di questa natura espresso in una bellezza tutta suggestiva di pace, di dolce e maestosa serenità, di raccoglimento riposante, e a sua volta lo tradusse nelle caratteristiche della sua virtù: la semplicità e il distacco. Se un Santo doveva dare questa città, non poteva essere che quello che chiamava dolce sposa la Povertà e sorella la Morte, che la carità estendeva a tutte le creature, e creature considerava anche le cose, che ignorava la combattività e detestava la violenza. Si comprende come il Santo della dolcezza parlasse al sole, alle piante, agli animali, con accenti fraterni, quando s’è percorsa lentissimamente, lasciando penetrare nell’anima l’anima delle cose, tutta la vallata che da Perugia porta ad Assisi e più giù si prolunga, distendendosi, sotto il poggio che porta la città mistica, in una sconfinata pianura verde, d’un verde tenue e tenero, argentato qua e là dalla pennellata d’una macchia d’ulivi, tagliato dalla linea serpeggiante del torrente Fescio che porta al lontano Tevere invisibile il sospiro del suo corso assetato, suddiviso nei campi fertili dove si fonde col ferrigno della terra, colla nota policroma dei frutti, coll’oro delle spiche, in praterie dove s’intensifica in un tono di smeraldo, in orti vegliati dall’ombra di certe piccole case silenti e misteriose bagnate da una gran pace quasi conventuale.
Ogni visione e ogni cosa portano qui impresso il segno d’una gravità maestosa che si risolve poi in una suggestione d’infinita dolcezza. Nessuna linea rude nel paesaggio, nessun contrasto violento che rompa l’incanto e svegli l’anima dal sogno. Lontano, la linea delle colline chiude la pianura, staccandosi in un semicerchio azzurro sull’orizzonte limpidissimo che ogni sera, al tramontar del sole, s’accende, sorride, fiammeggia, si spegne, per tacere, poi, vegliato dalle stelle. Ma quelle colline hanno l’aria di proteggere il paesaggio, non di limitarlo o di costringerlo: di chiuderlo come in una cerchia sacra, aperta a pochi privilegiati, ai pochi eletti innamorati del sogno, staccandolo così dal mondo, separandolo da quella vita che si traduce in febbre, in cure, in tanto affaccendarsi vano: sono la cintura mistica della città dell’anima.
La città guarda dall’alto la vallata meravigliosa, saturandosi ad ogni alba nuova della sua indicibile bellezza. Così, da secoli. Da quando ancora essa non aveva dato al mondo un Santo e gli aveva già dato un poeta, Properzio, figlio anch’esso della sua terra, mistico anch’esso alla maniera del paganesimo, cioè triste di quella tristezza che non escludeva la voluttà, che nella stanchezza della voluttà aveva anzi la sua radice, e che solo più tardi col cristianesimo divenne malinconia dello spirito rivolto in alto sopra la fralezza e sopra la morte: da quando ancora non esistevano i suoi conventi e già esisteva il portico di Minerva che ancora oggi drizza sulla Piazza il suo frontone triangolare sostenuto dalle sei colonne corinzie.
I secoli sono passati sopra Assisi senza mutarla; delle diverse civiltà che questa terra ha veduto, delle contese ch’essa ha suscitato perchè fu bella e ricca, rimangono le traccie, rispettate con un buon senso e un buon gusto che formano la delizia dei suoi devoti: non rimane lo spirito. Lo spirito d’Assisi è uno ed è più recente: ha messo il suo suggello d’una infinita pace sugli uomini e sulle cose, sui chiostri dove il suo fondatore pregò e dove la sua immagine veglia, sulle strade dov’Egli passò predicando e benedicendo seguito dalla turba attonita che gli forniva i proseliti, sulle case annerite dal tempo che si apersero un giorno dinanzi a Lui. Ed è da questo spirito che la suggestione viene: a poco a poco, passeggiando per queste stradine tortuose dove l'erba cresce fra i sassi e qualche fontana canta nel silenzio, pregando nell'ombra mistica della Basilica che custodisce la spoglia del Santo sotto le volte istoriate dal Cimabue e da Giotto, andando lungo il porticato esteriore del Convento dove un tempo riparavano i devoti accorrenti in folla per la festa del Perdono, movendo, insomma, in quest’atmosfera impregnata di ricordi, di memorie, di visioni, l'anima oblia lentamente il mondo e l'antico concetto della vita, percorre a ritroso i secoli per giungere là, dove Assisi s’è fermata, ode ancora la voce del Santo e si raccoglie per lasciarsene compenetrare, mentre dietro le palpebre socchiuse si riforma la visione mistica.
Come è lontano il mondo e come facile qui, la vita! Esistono ancora la febbre e l'odio e l'agitarsi irrequieto e il tormentarsi vano? C’è della gente che l'ambizione assilla e la fiamma divora e la preoccupazione delle cose terrene tiene unicameiite, faticosamente, straziantemente? E noi pure fummo fra quelle?
Un pietoso sorriso di rimpianto e di indulgente ironia. Dire che la vita è così facile! Due parole la riassumono: carità, semplicità. Una fiamma d amore che abbracci tutto l’universo, che renda indulgenti a tutti gli uomini e a tutte le cose; la semplificazione dei bisogni nostri che ci affranchi da qualsiasi necessità di superfluo, che ci faccia liberi nel distacco e generosi nella povertà.
Che grandissimo filosofo fa il Poverello di Assisi! Egli sapeva che il male maggiore dell’ uomo consiste nella schiavitù in cui lo tengono le cose, catene grevi che inceppano lo spirito e gli impediscono di librarsi in alto. E ha chiamato sua Sposa la Povertà. Sapeva che la cupidigia delle cose terrene soffoca e distrugge qualunque aspirazione dello spirito e ha fatto della rinunzia la maggior delle virtù. Per dimostrare la vanità dell'affaccendarsi di quaggiù, ha ridotto la vita a fiamma d’amore e a un sorriso di infinita bontà.
E così soltanto si riesce a concepire la vita qui dove ancora il Suo spirito è rimasto. Proprio, ogni preoccupazione di cura s’infrange forse contro le colline azzurre lontane che gono e chiudono la città dell'anima, la città del sogno, nel suo meraviglioso specchio verde, forse, contro il Subasio erto cupo e roccioso a salutarla alle spalle. Ma il cerchio mistico sa d incanto e di malia, o meglio, sa di miracolo continuato.
Ecco, il sole è sorto e la distesa pianura si ravviva in un sorriso composto di mite gioia serena, e le facciate delle case grigie, millenarie, sorgenti dalla macchia d’ulivi, raccolte presso il convento maggiore, acquistano dal suo bacio una parvenza di rinnovata giovinezza. Ancora il miracolo. Adesso le campane si chiamano con voci di letizia serena, si rispondono, si accordano, cantano insieme un sommesso canto dolcissimo, che dice la nostalgia della Patria lontana e ne acuisce il desiderio mistico. Uno stormo di augelli risponde trillando, rasenta rapido, in volo unito, le campane, si sparpaglia, dirada, scompare nell'azzurro. La visione è ancora francescana.
Ma laggiù, in mezzo alla pianura verde, si alza una leggera nuvola di fumo. L’incanto è rotto. Passa il treno trascinandosi dietro tutta la vita, quell'altra, lontana dal sogno quanto il regno dello spirito è lontano dalla terra.
E io riprendo il giornale: rientriamo nella vita.