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serpeggiante del torrente Fescio che porta al lontano Tevere invisibile il sospiro del suo corso assetato, suddiviso nei campi fertili dove si fonde col ferrigno della terra, colla nota policroma dei frutti, coll’oro delle spiche, in praterie dove s’intensifica in un tono di smeraldo, in orti vegliati dall’ombra di certe piccole case silenti e misteriose bagnate da una gran pace quasi conventuale.

Ogni visione e ogni cosa portano qui impresso il segno d’una gravità maestosa che si risolve poi in una suggestione d’infinita dolcezza. Nessuna linea rude nel paesaggio, nessun contrasto violento che rompa l’incanto e svegli l’anima dal sogno. Lontano, la linea delle colline chiude la pianura, staccandosi in un semicerchio azzurro sull’orizzonte limpidissimo che ogni sera, al tramontar del sole, s’accende, sorride, fiammeggia, si spegne, per tacere, poi, vegliato dalle stelle. Ma quelle colline hanno l’aria di proteggere il paesaggio, non di limitarlo o di costringerlo: di chiuderlo come in una cerchia sacra, aperta a pochi privilegiati, ai pochi eletti innamorati del sogno, staccandolo così dal mondo, separandolo da quella vita che si traduce in febbre, in cure, in tanto affaccendarsi vano: sono la cintura mistica della città dell’anima.