Come andò a finire il Pulcino/Il nemico
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_ 174 — valiere un altro che, senza una fatica al mondo, abbia ricopiato su una tela quello stesso terreno e quelle stesse mèssi! Domando io se c’è coerenza!... Ma tornando al nostro argomento, io esorto i bambini a levarsi presto se vogliono procurarsi un’ora di vero e sano godimento. Quando mi destai, quella mattina tutte le campane di Firenze suonavano a festa. Era l’Ascensione. V. Il nemico. Quando Gigino finì di parlare, erano circa le tre pomeridiane d’una calda domenica di maggio. Tutto era quiete intorno a noi, si capiva che la maggior parte delle persone, compresi i miei padroni, erano a pranzo. Infatti un lieve venticello ci portava a intervalli gli odori complicati di carni arrostite, di fritture e di dolci. Io non so se altri condividerà la mia opinione, ma a me quell’ora tepida (specialmente delle domeniche) ora in cui tutti sono rinchiusi nelle case, e le vie cittadine si allungano silenziose e bianche, tutte ardenti di sole, sembra la più melanconica della giornata. Forse questa impressione dipenderà dal mio carattere, dalla mia qualità di pollo, e, meglio ancora, dalla solitudine in cui vivo, lontano dal mio paese, dalla mia famiglia: ma è un fatto che è così.
Erano dunque le tre pomeridiane, e tutto era pace intorno a noi, allorché un orribile gatto nero scavalcò rapidamente il muro del giardino vicino e si slanciò sulla gabbia dello sventurato passerotto.
L’urto fu così forte, che la gabbia, attaccata al ramo d’un pèsco, precipitò a terra con lo sportellino aperto. — 176 — Il gatto le fu sopra: già con gli artigli d’uno zampino aveva ghermito la vittima: già la bocca era spalancata per ricevere il palpitante boccone, quando due aiuti del cielo impedirono se non tutto, almeno gran parte del delitto. Questi aiuti erano rappresentati da me, che détti una terribile beccata alla coda del gatto, tanto da lacerargliela; e da un altro passerotto che parve scaturire dal terreno e potè, con due formidabili colpi di becco, accecare l’occhio sinistro dell’infame gatto, che cadde a terra tramortito. Il povero Gigino giaceva in un lago di sangue, ma ancor vivo. — Buon galletto, — mi disse affettuosamente il passerotto salvatore — lei vede in me la madre dello sventurato ferito. Messa in fuga giorni sono da intere comitive di fanciulli crudeli, intenti a dar l’assalto ai nidi, dovei allontanarmi dalla mia famiglia ed errare a caso lungo i viali di circonvallazione. Poco fa nel volare sopra un ciliegio in cerca di cibo, m’è parso di riconoscer la voce del mio Gigino e mi son messa in ascolto, non so dirle con che — 177 — batticuore. Non m’ero ingannata. Era proprio lui, il mio primogenito, che le raccontava la susP storia ! A un tratto sento un tafferuglio sul muro vicino: tendo l’orecchio, aguzzo lo sguardo e vedo quel mostro prender di mira il mio bambino e slanciarglisi sopra. Il resto le è noto! — Io abbassai il capo, compreso d’ammirazione e di rispetto. Ah, come quella passerotta mi ricondticeva al pensiero la. mia saggia e amorosa mamma! Ma Gigino soffriva, Gigino aveva bisogno d’aiuto ! — Ohe cosa facciamo? — chiesi a quella madre desolata. — Senta, — mi disse — provi a entrare in casa e a far capire ai suoi padroni che è successa una disgrazia, qui nell’orto. Vedrà che accorreranno, e forse potranno salvare il mio figliuolo ! — E rivolgendosi al povero ferito, gli sussurrò pianamente : — Pi! Pi! — Mirabile effetto della parola materna! Gi1 — 178 — gino aprì prima un occhio, poi l’altro e, rispose con voce flebile, piena di tenerezza: — Pi ! Pi ! — Ment’altro. Ma in quei quattro pi ! pi! c’era racchiuso un poema d’amore e di dolore. Io traversai coraggiosamente l’orto, le aiuole del giardino ed ebbi la fortuna di trovare aperto l’uscio che metteva nel salotto da pranzo. I miei padroni, col signorino, erano intenti a mangiare del cappone freddo: e la signora Carolina, tirando fuori la punta della sua piccola lingua color di rosa, stava appunto dicendo : — Com’ è tenero ! — La vista del mio disgraziato confratello nuotante in un contorno di gelatina, e l’esclamazione della padrona non eran certo fatti per riconfortarmi; pure mi feci coraggio, e con un volo che avrebbe fatto onore a un professore di ginnastica, mi slanciai in mezzo alla tavola, rovesciando una salsiera e facendo rotolare a terra due bei limoni. — O questa! — esclamò spaventato il si¬ — 179 — gnor Teodoro — Ohe cosa significa? — E con una tovagliolata ben diretta, mi precipitò a terra. La signora Carolina e Masino si alzarono, impauriti anche loro. Ma io non mi détti per vinto, e con un secondo lancio fui dì nuovo sulla tavola. — Questa condotta non è naturale in Cocò ! — proruppe il padrone dando di piglio al sifone dell’acqua di seltz. Ma la signora Carolina e Masino mi ripararono dalla doccia, e il signorino esclamò: — Ohe sia per battere il terremoto ? Ho sentito dire che le bestie se ne avvedono dieci minuti prima. — Il sor Teodoro diventò pallido come un cencio e lasciò andare il sifone. — Sapete piuttosto che idea mi viene? — disse la signora Carolina prendendomi in collo. — Temo che sia entrato qualche ladro nell’ orto. — Andate a vedere ! — strillò il padrone, mentre Masino si era già slanciato fuori. La signora tenendomi sempre fra le braccia seguì il figliuolo, e giungemmo tutt’e tre / — 180 — sul teatro del delitto. Ma l’assassino era sparito. — Oli Dio, inanima! — esclamò Masino chinandosi a terra — qualche gattaccio ha ammazzato Gigino ! Ma guarda guarda ! 0’ è un altro uccello che gli gira intorno fischiando. Come va questa faccenda? — La signora Carolina mi lasciò libero e prese delicatamente il ferito fra le sue mani. Gli aprì le ali, gli alzò la coda, gli schiuse il becco e dopo avergli rasciugato il sangue che gli gocciolava da una zampina disse: — Ha una ferita al petto e una gamba troncata. Ma con una buona unzione d’olio di uliva, fra tre giorni sarà guarito. — Si levò di tasca un morbido fazzoletto,