Colombi e sparvieri/Parte III/VI
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VI.
Anche nella stamberga rischiarata dalla luce rossa del crepuscolo, Jorgj e il dottore discutevano d’amore.
L’omone voleva fare una confidenza a Jorgj, e quando aveva un segreto era come Pretu: non poteva tenerlo e non si interessava ad altro.
Andati via il prete e il vetturale, accostò dunque lo sgabello al letto, senza smettere di dare colpettini al giornale; e senza accorgersi che Jorgj desiderava di restar solo, disse sbuffando:
— Ti faccio sapere che Margherita è incinta!
La sua voce era turbata, il suo viso s’era coperto di rossore come quello di una fanciulla.
Jorgj volse gli occhi, destandosi dai suoi sogni.
— Ebbene, e non è una cosa naturale?
— Non è questo che mi preoccupa.... Adesso.... adesso, caro mio, capirai, è impossibile trovarle marito....
— Ma perchè vuol darle marito?
— Perchè? Mi pare d’avertelo già detto e ripetuto; per non sposarla io!
Jorgj si mise a ridere.
— Questo non me lo ha mai detto! Solo, diceva che non l’avrebbe mai sposata: poi una sera mi confidò che aveva paura di venir meno ai suoi propositi; diceva che avrebbe finito con lo sposarla per bastonarla, tanto Margherita lo fa spesso stizzire; diceva, sì, queste sciocchezze....
— Sciocchezze? — esclamò il dottore abbassando e scuotendo la testa e ripetendo a sè stesso la parola di Jorgj. — È giusto!
Ma dopo un momento d’esitazione sollevò il capo con un gesto energico.
— Eppure, vedi, io sono stupidamente felice, Jorgj, capisci, io non sono più solo!
Nessuno più di Jorgj poteva capire questa gioia, ma quasi per un puerile desiderio di fargli dispetto disse:
— Lei non era solo, dottore: non c’era la donna, che lo amava?
— La donna? Al diavolo! Essa mi ama oggi, chissà perchè; forse per ignoranza, forse per interesse, ma mi vorrà bene domani? E sopratutto le vorrò bene io, domani? Non mi stancherò, non la caccerò via? Ecco perchè volevo darle marito, per non sposarla e non legarla a me come il randello alla vite; utile oggi, dannoso domani. Ma il figlio è altra cosa, ottimo amico; è parte di noi stessi; è il nostro seme. Egli potrà anche abbandonarmi e dimenticarmi, un giorno; io sarò sempre suo padre; io non sarò più solo anche se lui sarà all’altro capo del mondo: non sarò solo perchè avrò con me il mio amore per lui. Che c’entra la compagnia materiale, la convivenza, i vincoli sociali? Non c’entrano per nulla. La legge è qui; i vincoli son qui, la compagnia è qui!
Egli si dava forti pugni sul petto: Jorgj approvava e la lettera azzurra si scaldava sul suo cuore palpitante di quell’amore che appunto non ha bisogno di contatto e che varca il tempo e gli spazi.
— Quest’amore può nutrirsi anche per creature non unite a noi da vincoli di sangue, — osservò timidamente, — perchè, del resto, non siamo già noi tutti fratelli?
— Vecchie parole, mio caro, fruste e rifruste e false prima ancora che fossero inventate. Non esiste che l’amore per noi stessi, ed è questo che si riflette sui parenti, e specialmente sui figli. Noi li amiamo perchè essi son noi: null’altro. Il dolore, in noi, qualunque forma esso prenda, non è che il terrore della fine, della sparizione di noi stessi o di una parte di noi stessi; ora, un figlio ci salva da questo terrore: egli ci sopravviverà, porterà nella sua corsa attraverso la vita la fiaccola che noi gli abbiamo trasmessa. Ecco perchè noi lo amiamo, ecco perchè non sentiamo più intorno a noi la solitudine, cioè la morte, la fine.
— Eppure ci son di quelli che amano senza speranza di veder proseguita la loro esistenza. Le dico di sì! Se il dolore in ogni sua forma, com’ella dice, è il terrore della fine, cioè della morte, l’amore, in ogni sua manifestazione, è il segno stesso della vita. Noi amiamo e vogliamo essere amati per provare a noi stessi che siamo vivi. Sì, avviene così in tutti, anche in quelli che come me son già sepolti....
— Tu risorgerai. — disse il dottore alzandosi e troncando il colloquio che per Jorgj, al solito, volgeva al sentimentale. — Chi parla come te ha ancora la fiaccola in mano; l’importante è di non lasciarla spegnere. Buona sera.
Rimasto solo Jorgj aprì la lettera attento a non far volar via neanche un pezzetto della busta: la luce moriva nella stamberga, ma a lui sembrava che le parole scritte sul foglietto azzurro scintillassero come stelle sul cielo della sera.
Un tremito lo agitava tutto e si comunicava al foglietto. Ah, ciò che ella gli scriveva era così dolce, così ardente che gli dava un’ebbrezza vertiginosa. Gli pareva d’esser ad un tratto salito fino alle altezze del sole e di dominare l’infinito, pronto però a precipitare di nuovo nell’abisso.
«Io tornerò, sì, Giorgio, non dubiti, perchè anch’io l’amo, come lei, Giorgio, mi ama; e il nostro amore non può venir distrutto nè dal tempo nè dalla lontananza: sorgente inesausta che alimenta la nostra vita, esso è lo stesso amore dell’amore....»
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Quando Jorgj riprese coscienza della realtà era quasi notte. S’udivano i gridi dei bimbi, le voci delle donne che si giuravano amicizia stringendo i nodi del comparatico di San Giovanni: ed egli si rivide ragazzetto, poscia adolescente: rivide le valli inondate dal chiarore azzurro della luna, i sentieri gialli attraverso il bosco nero dell’altipiano e le greggie vaganti e il mare lontano.... Il desiderio di alzarsi e di correre attraverso il mondo lo faceva rabbrividire. Gli pareva d’essere ancora ragazzetto, sotto la tirannia della matrigna, e meditava il modo di scappare, come allora....
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Pretu rientrò e gli disse:
— Mangiate, ziu Jò, io poi andrò a cogliere l’alloro e i fiori di San Giovanni ed a bagnarmi i piedi nella sorgente. Vi porterò un po’ d’acqua: su, mangiate, ripasserò prima di andare al bosco; su, sorge la luna lucente e bella come un viso di sposa. Ecco la vostra zuppa.
E andò via di corsa, diretto alla casa di Martina Appeddu.
Nella straducola le donnicciuole, Banna, la serva, i ragazzi, parlavano di andar alla sorgente per bagnarsi, e stringevano fra loro il comparatico di San Giovanni annodando e snodando sette volte le cocche d’un fazzoletto. Il nonno seduto sullo scalino col bastone fra le gambe guardava e taceva. Quando vide uscire Pretu lo seguì con lo sguardo, poi abbassò la testa, cosa che non gli accadeva mai, fino ad appoggiarla alle mani ferme sul pomo del bastone. Così parve addormentarsi.
Pretu balzava su per la scalinata del Municipio come un piccolo muflone; nella piazza raggiunse il prete che se ne tornava a casa nero e lieve come un’ombra, gli baciò la mano, vide zia Giuseppa e Lia sedute sul «patiu» intente anch’esse a chiacchierare con altre donne.
Parlavano di Margherita e Lia diceva con malizia:
— L’ho veduta poco fa a passare qui dietro; forse andava da Martina Appeddu per qualche medicamento.... Ah, ecco Preteddu che forse anche lui va da Martina. Pretu, animalino, senti qui, vieni....
Ma il ragazzo aveva fretta, e non si sarebbe fermato se anche zia Giuseppa non l’avesse chiamato con la sua voce imperiosa.
— Pretu! Non torni più, stasera, dal tuo padrone? Ripassa di qui, che devo darti una cosa per lui.
Egli promise e riprese a correre. La luna ancora bassa sopra i monti al di là della vallata illuminava la piazza con un chiarore dorato di lume lontano; metà della valle rimaneva oscura mentre l’altra metà era tutta argentea, e d’argento azzurrognolo parevano le montagne spiegate come grandi ale al di qua e al di là dell’Orthobene coperto d’ombra.
Pretu ridiscese un viottolo, dall’altro lato della piazza, s’inoltrò in una specie di sobborgo ove viveva la parte più misera della popolazione di Oronou. Erano catapecchie addossate alle roccie, muricciuoli, siepi, tettoie, tutto un agglomeramento di piccole costruzioni primitive che sembravano fatte da antichissimi uomini nomadi, lì di passaggio per qualche giorno, e che invece vi si erano poi fermati per secoli.
Pretu abitava in una di queste casupole senza finestre, piccola e buia quanto era grande e luminoso l’orizzonte su cui invano guardava. Ma passò dritto davanti al muricciuolo del viottolo, al di là del quale si sentiva il pianto del suo fratellino Bore cullato dalla voce sonnolenta della madre. Più in là zia Martina Appeddu viveva in una strana casetta, vera abitazione di fattucchiera; una specie di torretta circolare fabbricata con piccole pietre nerastre e con fango, e al cui piano superiore si saliva per mezzo di una scaletta esterna riparata da un alto muro a secco di macigni. Tutta la casa dava l’idea d’un «muraghe», e non mancava il «patiu», come davanti alla casa di zia Giuseppa Fiore, cioè una specie di cortiletto sollevato, dove Pretu vide Simona, la figlia cieca di zia Martina, che filava e pregava.
— Vado su da vostra madre, zia Simò.
— C’è gente. Aspetta.
Egli sedette accanto a lei sul muricciuolo.
— Come sta il tuo padrone?
— Bene, ma non tanto.... E voi?
Ella filava, e la sua conocchia gonfia di lino sembrava una testa bionda da cui le agili dita di lei traevano un filo interminabile dorato come quello di un sogno.
— Anch’io bene.... ma non tanto! — La sua voce era dolce e ironica. — E il dottore cosa dice?
— Che dice? Che guarirà. Ma io....
— Ma tu?
— Son venuto per quella medicina che mi avete promesso.... Madre vostra deve averla fatta poco fa, al sorgere della luna. E a voi perchè non ve la fa?
La cieca filava sorridendo al filo d’oro che scorreva fra le sue dita: i suoi grandi occhi neri, sotto le folte sopracciglia arcuate, parevano sani.
— Contro il volere di Dio non esiste medicina, — disse sottovoce. — Sia fatta la sua volontà; basta che in questo mondo ci sia la pace; la salute vera sarà nell’altro.
Ma Pretu non la intendeva così: egli era pieno di vita e cominciò a saltellare intorno al «patiu» impaziente di veder zia Martina.
— Lo so chi c’è; Margherita la serva del dottore! Fatemi dunque salire.
— Ah, diavoletto, come lo sai?
— Eh, lo so, — egli disse con aria di mistero; e poichè il convegno fra zia Martina e Margherita si prolungava troppo, egli finse di andarsene, ma deludendo l’attenzione della cieca s’arrampicò sulla scaletta fino al ballatoio sul quale dava la porticina della camera superiore.
La cieca però aveva l’udito fino: lo chiamò due volte e non ottenendo risposta, salì anch’essa a tastoni sul ballatoio.
— «Mama, mama», — disse, — c’è qualcuno.
Pretu, col viso ansioso sull’apertura della porticina socchiusa, aveva già veduto Margherita e la fattucchiera ferme davanti a un tavolinetto coperto da un fazzoletto nero sul quale zia Martina disponeva in semicerchio un mazzo di carte da gioco. La stanzetta non aveva nulla di particolare; ma la lampadina di ferro a tre becchi, appesa alla parete sopra il tavolinetto, pareva un uccello nero con una fiammella per lingua; e l’ombra che si spandeva sul muro, e le figure delle due donne, pallida e triste quella di Margherita, tragica e nervosa quella di zia Martina le cui sopracciglia si movevano di continuo e le cui dita adunche correvan sulle carte come zampe di aquila, davano alla, scena alcunchè di satanico. Pretu provò un senso di paura e di piacere.
— Il gioco è buono, — diceva zia Martina.
— Non aver timore, tortorella! Egli ti sposerà!
In quel momento s’udì la voce di Simona: zia Martina corse alla porta e vide Pretu sul ballatoio.
— E chi ti ha permesso di venir su? Ah, Simonè, perchè l’hai lasciato salire?
— M’è scappato, «mama»!
— Ebbene, tanto lo sapevo chi c’era! — disse Pretu con coraggio. — Non è vero, zia Simona, che lo sapevo già? Datemi quella cosa, zia Martina, poi me ne andrò: vi giuro sulla mia coscienza che non dirò nulla a nessuno.
Per levarselo di tra i piedi la donna prese col dito da un vaso rosso un po’ di manteca e l’avvolse in un pezzo di carta.
— Va, ecco; e se tu dici di aver veduto qui Margherita guai a te. Mi capisci?
— Zia Martina, mi possiate veder cieco se io aprirò bocca. Addio.
D’un balzo fu nel viottolo e di lì in piazza, col prezioso involtino in seno. Zia Giuseppa Fiore lo aspettava; voleva consegnargli per Jorgj un vaso di sughero colmo di latte cagliato, ma egli si rifiutò di prenderlo.
— Domani, domani, adesso ho fretta.
— Martina ti ha dato il farmaco? — domandò Lia rincorrendolo fino alla scalinata. — E Margherita?
— Era là, — egli disse impavido. — Sì, il farmaco l’ho qui: adesso Jorgeddu il mio padrone dormirà, perchè di solito egli sonnecchia, appena calata la sera. Io gli ungerò la fronte e il lobo delle orecchie e la gola, e stanotte stessa, se egli si sveglia, troverà giovamento. Poi andrò anche a prendere l’acqua della sorgente che fa bene.
Tornata verso la padrona Lia riferì i progetti del ragazzo: zia Giuseppa allora raccontò fatti straordinari accaduti la notte di San Giovanni, e concluse:
— E può darsi che Jorgeddu trovi giovamento. Se egli riesce ad alzarsi ed a riprendere i suoi spiriti, ah, egli.... egli riacquisterà il tempo perduto....
Ella non diceva tutto il suo pensiero; ma la serva fedele e anche le vicine di casa conoscevano le sue speranze.
— Sì, — disse Lia, — l’uomo malato è come lo straccio sporco, tutti lo disprezzano; ma se Jorgj guarirà sarà di nuovo buono a qualche cosa e si vendicherà.
La luna saliva fra gli alberi della piazza illuminando il «patiu» e le donne sedute in giro. Su proposta di Lia un gruppo di esse partì per andare a bagnarsi i piedi alla sorgente ed a cogliere l’alloro e il timo sull’orlo della valle: altre si ritirarono; zia Giuseppa rimase sola sulla sua panchina, col recipiente del latte accanto e col pensiero di Jorgj in mente.
S’egli fosse guarito! Ella non era riuscita a vendicarlo, ed anzi aveva veduto la fortuna dei Corbu crescere e divenire quasi insolente. Ma egli, il disgraziato fanciullo, era sempre circondato di cattivi consiglieri; dal dottore pazzo, dal prete bonaccione, da donnicciuole, da ragazzi e da vecchi rimbambiti. Sì, anche quell’Innassiu Arras era diventato sciocco e ciarlone come una femminuccia! Zia Giuseppa non era più riuscita a trovar solo Jorgeddu ed a fargli capire la ragione: ma adesso, adesso che tutti sapevano il nome del vero colpevole, era tempo di invitare nuovamente il disgraziato a rivendicare il suo onore.
A un tratto s’alzò, chiuse la porta, prese il recipiente del latte e s’avviò. Come l’altra volta, scese la scalinata della piazza dirigendosi alla casa di Jorgj. Alcuni ragazzi per non andar troppo lontano si bagnavano i piedi nel rigagnolo che scendeva dalla fontana, e spruzzandosi l’acqua sul viso si rincorrevano ridendo.
Seguita dalla sua ombra che aveva pur essa un recipiente dondolante in mano, la vecchia passò davanti alla casa dei Corbu, ma vide solo la serva seduta sullo scalino, al posto del nonno. La straducola era deserta, essendo le donne andate alla sorgente; ma nel cortiletto di Jorgj c’era Pretu, immobile, con un omero appoggiato al muro, una mano sul petto, un piede sollevato. Appena vide zia Giuseppa le corse incontro e le si mise avanti per impedirle di avanzarsi.
— Siete venuta voi? Ebbene, non entrate, adesso; c’è gente.
— Chi, il dottore o il prete?
Siccome ella faceva atto di avanzarsi egualmente, Pretu le saltellò intorno dicendo sottovoce:
— Ebbene, sentite: c’è zio Remundu!
Ella si fermò attonita.
— Sì! c’è lui! Pare voglia far la pace col mio padrone. Stanno lì a discorrere da quando son tornato, voi m’avete veduto. Zio Jorgeddu mi ha mandato fuori, dicendo di non lasciar entrare nessuno....
Zia Giuseppa non pronunziò parola: bruscamente indietreggiò fino all’ingresso del cortiletto e se ne tornò a casa scalpitando come una vecchia giumenta frustata. Il cuore le batteva di rabbia e di vergogna; sì, vergogna di esser ancora viva in questi tristi tempi di transazioni e di viltà.
Ah, il vecchio sparviero voleva far pace con l’uccellino che aveva dapprima acciecato e mezzo divorato? E Jorgj Nieddu, fiero con gli amici e i benefattori, accettava la visita del suo carnefice? Tempi da agnelli e da lucertole! Ebbene, che i vili se ne stiano coi vili; l’aquila non cesserà per questo di esser aquila. E la vecchia tornò a sedersi sul suo «patiu», come un’antica abitatrice dei «nuraghes», insensibile ai canti della notte serena, pieno il cuore di ricordi d’odio e di grandiosi progetti di vendetta.