Colombi e sparvieri/Parte III/VII

Parte III - Capitolo VII

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Parte III - VI
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VII.


Veduto Pretu allontanarsi e credendo che per quella sera non tornasse più, il nonno aveva atteso che le donnicciuole andassero alla sorgente e a cogliere l’alloro; s’era poscia alzato per avviarsi alla stamberga di Jorgj.

Era calmo e sapeva quel che faceva. Si meravigliava anzi di non averlo fatto prima: tuttavia, entrato nel cortiletto si fermò e parve specchiarsi nella sua ombra, accomodandosi bene sul capo la berretta e cambiando il bastone da una mano all’altra: infine s’avanzò risoluto, picchiò lievemente alla porta socchiusa ed entrò.

Jorgj rileggeva la lettera di Mariana, e fu attraverso un’atmosfera di sogno che vide la figura scura del vecchio avanzarsi fino al lettuccio. Anche lui non si meravigliò (aspettava da [p. 291 modifica]tanto quella visita!) ma provò un senso di sorpresa nel veder l’uomo molto invecchiato, curvo, rammollito.

«Dev’esser malato ed ha paura di morire», pensò nascondendo la lettera sotto il guanciale.

Il vecchio sedette sullo sgabello senza salutare, quasi fosse abituato ad entrar tutti i momenti da Jorgj, e solo dopo alcuni istanti domandò:

— Ebbene, come andiamo?

— Bene, — disse Jorgj con un filo di voce.

E tacquero. Che dovevano dirsi? Troppe cose, per poterle esprimere con semplici parole.

Il nonno tornò ad accomodarsi la berretta, si guardò attorno per accertarsi che era proprio lì, nella stamberga di Jorgj Nieddu, e finalmente disse:

— Non ti rechi meraviglia se son qui: dovevo venir prima, ma molte cose me ne hanno distolto. Io devo domandarti un parere.... Che vogliamo fare, dimmi? Dobbiamo denunziare Dionisi Oro?

Jorgj rispose senza esitare:

— Non tocca a me.

— Sei stato tu il più danneggiato; toccava a te denunziare il colpevole, appena hai saputo chi era. Perchè non l’hai fatto?

— E voi perchè non lo avete fatto?

— Ebbene, Jorgè, ascoltami, parliamoci chiaro. Perchè io fino ad oggi non ero sicuro.

Jorgj sorrise suo malgrado e il vecchio capì il significato di quel sorriso triste e sarcastico. Accostò lo sgabello al letto, accavalcò le gambe e appoggiò le mani al bastone: adesso i suoi occhi splendevano e il suo sguardo andava dritto come un raggio fino agli occhi di Jorgj.

— Tu dirai: vengono adesso questi scrupoli al vecchio rimbambito? Sì, ti vedo queste parole [p. 292 modifica]sulle labbra. Ebbene, sì; perchè non deve arrivare l’ora degli scrupoli? Arrivano tutte le ore, Jorgj Niè; anche quella della morte, archibugiata la trapassi! E perchè si è vissuti al buio si deve morire al buio? Ascoltami: non c’è uomo al mondo che non abbia errato: ebbene, dimmene uno, ma con coscienza di dire la verità, ed io ti crederò. Cristo? Cristo non era uomo: era Dio; gli altri, tutti, compresi gli Apostoli, tutti abbiamo errato. Tu forse no? Pensaci bene e vedrai che tu pure hai commesso errore. Dimmi di no, in tua coscienza, ed io allora mi vergognerò di confessare che anch’io sono stato un uomo di questo mondo!

Jorgj non sorrideva più: ascoltava, e nelle parole del vecchio sentiva fremere, non il rimorso, il pentimento, la debolezza, ma lo stesso orgoglio che aveva sostenuto lui come il puntello sostiene l’edifizio in rovina.

— Ascoltami, Jorgeddu, è più facile dire: non mi sono sbagliato, che riconoscere il contrario. Anche tu, che studiavi legge e sapevi molte lingue, ti sei sbagliato quando mi hai ritenuto non uomo ignorante e di cattivo cuore. Ignorante, sì, ma non idiota; superbo, sì, ma non di cattivo animo. Quando tu mi giudicavi così eri tu il cattivo; perchè noi siamo tanti specchi e vediamo la figura nostra nella persona che giudichiamo. Se io ho l’odio in cuore vedo il mio nemico col viso nero come l’ho io che ho la fisionomia del demonio; e se ho l’amore vedo bello anche il nemico che ha il coltello nel pugno.... E così lui in me....

— E vero! — disse Jorgj. — Ma perchè queste idee non vi son venute prima?

— Cosa ne sai tu? Eppoi tu non eri disposto ad ascoltarmi, come adesso, ed io non era disposto a vederti ridere come avevi ricominciato [p. 293 modifica]a ridere poco fa! Tu non volevi bene a me nè io a te. Questo era l’accidente! Ma!... Basta, quello che è accaduto è accaduto; è inutile parlarne. Tu pensa a guarire e tutto si dimenticherà.

— Io non guarirò, — disse Jorgj, — l’odio mi ha fulminato, e neanche l’amore può disfare le opere del male!

Il vecchio scuoteva la testa, — Chi lo sa? Sei giovane, Jorgè; non dire mai: questo non accadrà. Adesso dunque ti dirò perchè son qui.... Il tuo servetto non torna?

— No per stasera.

Allora il vecchio raccontò sottovoce come il suo antico nemico Innassiu Arras gli aveva rivelato che il vero colpevole era il mendicante e dove questi aveva nascosto il tesoro. Un resto di malizia, e poichè gli sembrava che gli occhi scintillanti di Jorgj lo guardassero ancora con diffidenza e con disprezzo, gli impedì di parlare di Columba e della paura e della pietà che lo svenimento di lei gli avevan destato in cuore.

Solo osservò:

— Innassiu Arras mi ha rivelato il fatto in un momento poco opportuno: ma egli è stato sempre così, un uomo senza prudenza. Vada alla forca! Basta; gli ho tutto perdonato; come lui ha perdonato a me. Siamo vecchi entrambi; e le passioni cadono coi denti. Come ti dicevo dunque io filai dritto a San Francesco, trovai i denari, maledetti come quelli di Giuda; e ne feci.... bene, questo non importa. E subito pensai di venir da te; ma cosa dovevo dirti? Ero sicuro del fatto mio? No; perchè tutto poteva essere una finzione di Innassiu Arras. Avevo sempre il dubbio ch’egli volesse prendersi beffa di me. E così passavano i giorni, agnello mio, brutti come giorni d’inverno. Ma ieri venne da me il prete e mi disse: «Passando davanti all’ovile di [p. 294 modifica]Innassiu Arras entrate, zio Remù; c’è qualcuno che vuol parlarvi». Io lo guardai ed egli mi guardò, e ci siamo capiti, Jorgè, perchè gli occhi son più sinceri delle labbra. «Prete Defraja, — gli dissi, — lei sa tutto; che cosa mi consiglia di fare?» Egli mi rispose: «Ciò che vi consiglia la vostra coscienza». Queste parole, agnello mio, queste parole mi hanno stretto il cuore più che tutti gli insulti, i rimproveri, le bestemmie di Innassiu Arras. Perchè io la coscienza ce l’ho, Jorgè, sì, e sempre sveglia come il tarlo entro il legno. Basta, poichè prete Defraja insisteva, misi la sella al cavallo e partii; trovai l’uomo lassù, nell’ovile di Innassiu, buttato in un angolo come un cinghiale ferito; aveva la febbre e delirava raccontando come entrò in casa mia, come rubò, come nascose i denari; e parlava di te, e ti rivolgeva la parola, chiamandoti come un bambino, domandando perdono. Parve non riconoscermi, ma mi raccontò tutto perchè lo racconta a chiunque gli va davanti. «Adesso crederai alle tue orecchie, — disse Innassiu Arras, — che dobbiamo fare?» Ed io sono venuto da te, Jorgj Nieddu: che dobbiamo fare?

— Quello che il vostro cuore vi consiglia.

Il viso del vecchio si rischiarò.

— Ah, tu credi dunque al mio cuore? Ebbene, il mio cuore mi direbbe di lasciar correre.... Quando io avrò denunziato quel pezzente che cosa ne ricaverò? Egli non può più far male a nessuno: e far male a lui, oramai, è come far male a un ladro già impiccato. Ma tu, Jorgè, ma tu....

La sua voce tremò alquanto e le sue parole parvero spegnersi in un sospiro; ma Jorgj capì.

— Non vi preoccupate di me! — disse, e cercò di render aspro il suo accento per nascondere la sua commozione. [p. 295 modifica]

In quel momento rientrò Pretu: visto il nonno spalancò gli occhi, poi si mise a ridere: ma bastò che la terribile testa del vecchio si volgesse e la voce del padrone si facesse sentire, perchè la tragica serietà del momento s’imponesse anche sull’animo del ragazzo: e Jorgj non aveva finito di dire:

— Che c’è da ridere? Va fuori e non lasciar entrare nessuno, — che già Pretu era di sentinella nel cortile.

Il nonno volse di nuovo gli occhi verso quelli del malato; non parlò, ma il suo sguardo era così ansioso che Jorgj abbassò le palpebre.

— Ebbene, ziu Remundu, se il vostro cuore vi dice di perdonare perdonate. Per conto mio, io.... da lungo tempo ho già perdonato.... a lui.... a tutti!...

Il nonno diede un lungo sospiro: aprì le labbra per riprendere il discorso ma all’improvviso un fremito convulso gli alterò i lineamenti: le sue sopracciglia selvagge s’avvicinarono, distesero come una nuvola fra gli occhi corruscanti e la fronte oscura solcata da rughe simile ad un orizzonte tempestoso; la bocca si contrasse, e le labbra che avevano conosciuto la menzogna, la maledizione, l’urlo dell’odio, tremarono come quelle d’un bimbo che sta per piangere.

Ma egli si vantava di non aver pianto neanche da bambino; vinse quindi il suo turbamento, mentre stendeva la mano, tenendola alquanto sospesa su quella di Jorgi, quasi per assicurarsi prima se questa era disposta alla stretta: finalmente la posò, nera e ancora potente, su quella piccola mano cerea che non andava incontro ma neppure sfuggiva a quell’atto di pace.

— Sei un uomo, Jorgè!

Di nuovo entrambi tacquero, senza guardarsi, le mani unite. Jorgj però si sentiva ripreso dal [p. 296 modifica]suo antico spirito maligno: domande acerbe gli salivano alle labbra, sospetti e dubbi turbavano la sua gioia.

Il nonno parve capire quell’istinto di diffidenza. Ritirò la mano e riprese:

— Ascoltami, Jorgè: oggi son ritornato nell’ovile di Innassiu Arras. Il pezzente era più tranquillo e mi riconobbe: non parlava più e solo, quando mi vide, nascose il viso sotto un lembo della bisaccia. Io gli parlai scherzando: gli dissi: «Resta qui finchè starai bene, poi torna in paese e va da Jorgeddu e fa ciò che egli ti dirà di fare: poichè tu non hai offeso me, Remundu Corbu, togliendomi quei pochi denari, vile pecunia che va e che viene; ma mi hai offeso togliendomi la pace della famiglia e della coscienza, ed hai soprattutto offeso quel disgraziato ragazzo». Egli dunque verrà un giorno o l’altro da te, e tu, se credi, digli ciò che stasera è passato fra noi. E adesso me ne vado, Jorgè: qualche volta, di tanto in tanto, ritornerò e chiacchiereremo, fino al giorno in cui ti rialzerai e riprenderai con più lena la strada. Poi toccherà a me cadere: e quando io sarò sulla stuoia, buttato per non più rialzarmi, verrai tu qualche volta.... Addio, buona notte.

Si alzò appoggiandosi con una mano al bastone, e rimettendo l’altra su quella di Jorgj: ma adesso la diafana mano si volse e afferrò la mano nera ancora potente: i limpidi occhi che il dolore rendeva più vividi cercarono quelli del vecchio e parvero voler afferrare l’anima di lui come la mano afferrava la mano.

— Aspettate; voglio domandarvi una cosa sola. M’avete davvero creduto colpevole?

— Al primo momento sì.

— Ma perchè? Ma perchè?

— Perchè ti odiavo e tu mi odiavi. E l’odio [p. 297 modifica]è come la gelosia; sospetta di tutto senza ragione.

— Dio mio, Dio mio! — gemè Jorgj ripreso dall’angoscia del passato.

— Si vive di errori.... — riprese il nonno, dopo un momento di silenzio. E battè il bastone per terra. — Basta, adesso! L’importante è di riconoscere d’aver sbagliato. Buona notte, Jorgeddu.... non mi saluti?

— Buona notte, — rispose alfine Jorgj, calmandosi; e solo allora il vecchio se ne andò.

Nel cortile si fermò e parve volesse dire qualcosa a Pretu, ma il ragazzo lo sfuggì, premuroso di rientrare dal suo padrone.

Jorgj era pallidissimo, con gli occhi circondati come da un’impronta nera, ma vivi e brillanti. Mentre di solito, dopo una crisi nervosa o un avvenimento straordinario cadeva in un sopore febbrile, quella sera non trovava pace e non gli riusciva di addormentarsi.

«Giusto questa sera!» pensava Pretu palpando di tanto in tanto il suo involtino; e per non eccitare oltre il padrone non gli domandò il perchè della visita del nonno.

A sua volta Jorgj desiderava di restar solo per raccogliere le sue idee e frenarne il tumulto. A momenti gli pareva d’esser trasportato violentemente nello spazio dalla corsa stessa della terra, a momenti che tutto intorno a lui fosse vuoto e immobile. Gli sembrava che le sue tempie scricchiolassero, pronte a spezzarsi come argini alla piena di un fiume, e che il loro tremito si comunicasse a tutte le sue povere membra inerti.

— Hai veduto? — disse sottovoce a Pretu mentre questi gli accomodava le coperte prima di andarsene, — anche il vecchio s’è piegato! Adesso sono contento! Ma sono stanco e voglio dormire. Vattene. [p. 298 modifica]

— Sì, sì, dormite, dormite....

Pretu uscì sollecito e attese. La luna sempre più alta illuminava la straducola; il nonno aveva ripreso il suo posto sullo scalino, con le mani appoggiate al bastone aspettando il ritorno delle donne.

Il paese sembrava deserto, abbandonato a un tratto dai suoi antichi abitatori nomadi; solo il nonno era rimasto sul suo alto scalino di pietra, a custodire i ricordi e a ricordare a sua volta tutta un’età scomparsa.

Ma una figura armata, preceduta da due cani allegri, apparve in fondo alla straducola, su, su, come emergendo dalla valle; si disegnò nera e grande sullo sfondo lunare, e cantando, accompagnata da un tintinnìo di catenelle, di sproni, di campanellini, attraversò la strada solitaria. Tutto il paese parve risvegliarsi; i cani abbaiavano, l’eco rispondeva, e la voce del dottore che andava alla caccia della lepre riempì di vibrazione il silenzio della notte.

Amore, mistero....
Solenne, profondo....


Pretu origliava alla porta del suo padrone; il lume era spento, tutto taceva nella stamberga. Pian pianino rientrò lasciando la porta spalancata perchè entrasse un po’ di chiarore: trasse l’involtino, si fece il segno della croce, prese col dito un po’ dell’unto portentoso e in punta di piedi s’avvicinò al letto.

Jorgj non dormiva, ma messo in sospetto dalle manovre del ragazzo stava immobile con le palpebre abbassate; sentì un respiro ansioso a stento frenato, un dito freddo e unto che gli sfiorava la fronte, il mento, il lobo delle orecchie: poi il chiarore incerto della porta sparì, [p. 299 modifica]il passo lieve di Pretu strisciò nel silenzio del cortile e parve sperdersi sulle traccie della voce lontana del dottore.

Jorgj indovinò ciò che il ragazzo aveva voluto tentare e asciugandosi col fazzoletto il viso cominciò a ridere. A poco a poco la sua risata, dapprima lieve, si fece alta, nervosa, insistente. Egli la sentiva risonare nel buio, e gli pareva la risata di un altro, di un uomo felice che si moveva, si disponeva ad uscire e ad andarsene per il mondo pieno di gioia. E pur abbandonandosi alla sua gaiezza puerile se ne domandava sorpreso il perchè. Perchè? perchè?

Era lui l’uomo felice. Gli sembrava di non esser più malato: le chiacchiere del dottore, la visita del nonno, le fattucchierie di Pretu, tutto gli appariva così bello, così divertente!

Ma un singhiozzo nervoso seguì la risata, e di nuovo un abbattimento profondo lo vinse. Perchè ridere così? Aveva ragione di ridere? Ah, perchè quest’insonnia, stanotte? Non manca che l’insonnia, adesso, per render più completa la sua miseria. Ebbene, che importa se anche il nonno riconosce i suoi torti? Può rendergli l’onore, non gli rende la salute; ed è questa che egli vuole, adesso che ha riavuto tutto il resto: la fama, la giustizia, l’amore.

E ricomincia a turbarsi, a palpitare, e ripensa alla lettera della sua amica, ma gli sembra di averne dimenticate le parole.

Riaccendo il lume e rilegge:

«Anch’io l’amo, come lei, Giorgio, mi ama; e il nostro amore non può venir distrutto nè dal tempo nè dalla lontananza: sorgente inesausta che alimenta la nostra vita, esso è lo stesso amore dell’amore....»

Attorno alla parola «amore» le altre della lettera si aggruppavano come pianeti intorno alle [p. 300 modifica]stelle fisse; e a lungo, nella notte serena, di cui l’aria profumata e la dolcezza lunare penetravano fino alla stamberga, Jorgj fissò il foglietto azzurro come una volta dall’orlo del ciglione contemplava il cielo stellato.

Per calmarsi volle scrivere alla sua amica: prese dal tavolinetto il libro e la carta, accostò il calamaio, il lume, la penna. Ma questa cadde a terra. Egli non ne aveva altra e per raccattarla doveva curvarsi sul letto. Questo movimento gli portava sempre la vertigine: tuttavia senza esitare egli si volse col petto sull’orlo del lettuccio, la testa in giù, il braccio teso a cercare.

Trovò la penna e si rimise nella solita posizione; e solo allora si accorse che aveva potuto muoversi senza provare la vertigine.

Un sudore gelato lo coprì tutto; le sue tempia, i suoi polsi e le sue dita pulsarono violentemente, ma i pensieri rimasero lucidi, le cose intorno non si mossero nel solito giro vorticoso....

Egli credette di morire per la gioia: una gioia simile all’angoscia, così violenta che gli spezzava il cuore.

Rimase immobile per alcuni momenti. Non ricordava più neanche la sua amica. Solo vedeva uno splendore lontano, come di un incendio.

Ma il timore d’illudersi tornò ad offuscare ogni cosa. Si sollevò e stette seduto in mezzo al giaciglio ardente e umido di sudore, coi pugni tremanti e i pollici fissi come due chiodi sul materasso. La sua testa tremava e dondolava, i suoi denti battevano; ma i pensieri continuavano a sfilar lucidi nella sua mente e le cose intorno rimanevano ferme, di nuovo illuminate da uno splendore abbagliante.

Allora fu certo d’esser guarito. Piano piano si tirò su, respinse il cuscino sulla testiera del letto e vi appoggiò la schiena; mosse la testa, [p. 301 modifica]si guardò attorno. E le cose rimanevano ferme, e tutto gli sembrava bello, luminoso. La povera cassa che conteneva i suoi vestiti, lo sgabello ove Mariana s'era tante volte seduta, l’antico focolare, la brocca donde aveva bevuto tanti sorsi amari, i miseri arnesi e persino le tele dei ragni agli angoli delle pareti, tutte, tutte le cose erano belle come gli oggetti e le tende della casa di un re: il velo scintillante che le copriva era fatto di lagrime che si tramutavano in perle.

Le ore passarono, il lume si spense; ma egli rimase seduto, immobile, al buio, aspettando l’alba.


FINE.