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ne di Oronou. Erano catapecchie addossate alle roccie, muricciuoli, siepi, tettoie, tutto un agglomeramento di piccole costruzioni primitive che sembravano fatte da antichissimi uomini nomadi, lì di passaggio per qualche giorno, e che invece vi si erano poi fermati per secoli.
Pretu abitava in una di queste casupole senza finestre, piccola e buia quanto era grande e luminoso l’orizzonte su cui invano guardava. Ma passò dritto davanti al muricciuolo del viottolo, al di là del quale si sentiva il pianto del suo fratellino Bore cullato dalla voce sonnolenta della madre. Più in là zia Martina Appeddu viveva in una strana casetta, vera abitazione di fattucchiera; una specie di torretta circolare fabbricata con piccole pietre nerastre e con fango, e al cui piano superiore si saliva per mezzo di una scaletta esterna riparata da un alto muro a secco di macigni. Tutta la casa dava l’idea d’un «muraghe», e non mancava il «patiu», come davanti alla casa di zia Giuseppa Fiore, cioè una specie di cortiletto sollevato, dove Pretu vide Simona, la figlia cieca di zia Martina, che filava e pregava.
— Vado su da vostra madre, zia Simò.
— C’è gente. Aspetta.
Egli sedette accanto a lei sul muricciuolo.
— Come sta il tuo padrone?
— Bene, ma non tanto.... E voi?
Ella filava, e la sua conocchia gonfia di lino sembrava una testa bionda da cui le agili dita di lei traevano un filo interminabile dorato come quello di un sogno.
— Anch’io bene.... ma non tanto! — La sua voce era dolce e ironica. — E il dottore cosa dice?
— Che dice? Che guarirà. Ma io....
— Ma tu?