Clelia/LXVII
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CAPITOLO LXVII.
SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO.
Terminato il racconto del povero Tito — io avea voglia di udire qualche cosa della storia di Maria — ma rifocillati di buoni cibi — e scaldati dall’Orvieto — la fatica (che non era stata poca) della notte e d’una parte del giorno — fece sì — che i miei occhi e quelli de’ miei compagni — accennassero a volontà diversa da quella di udire delle storie. — Anzi di lì a non molto, tutti come per mutuo consenso — cominciammo a russare — al posto stesso ove eravamo seduti.
«Io non so quanto tempo rimanemmo in quella posizione — so però che un fischio acuto — risuonò nell’abituro e ci fece balzare tutti in piedi.
«Ci stropicciavamo gli occhi — quando entrò il poeta pastore e disse: Non vi allarmate; non c’è pericolo, ho risposto ad un fischio di mio figlio Vezio — che aveva mandato in sentinella sulla sommità della rovina Petilia — da dove si può distinguere chiunque — si avvicini alla tenuta. — Ora; chi viene — è gente nostra — proprio delle tue bande.» — E Marzio. — come non fosse in presenza del suo Capitano — ma nella Campagna Romana — si lisciava con la destra i nerissimi mustacchi.
«Eran proprio dei nostri intrepidi compagni — terrore della sbirraglia pretesca. — Vi lascio pensare, Comandante — qual gioja reciproca c’inondasse nel ritrovarci. — Molte furon le carezze che mi prodigarono — quegli uomini che il volgo crede induriti ad ogni misfatto — e che sono in sostanza — la parte eletta del popolo — insofferente di prepotenze ed ingiustizie. — Quella parte del popolo — che se invece della degradante educazione del prete — ricevesse una vera educazione morale — patriotica ed umanitaria — darebbe all’Italia degli eroi — ed al mondo gli stessi esempi di virtù e di coraggio che davano gli antichi padri nostri.»
E qui tocca a me di ripetere per la centesima volta, che solo i preti furon capaci di ridurre il più grande dei popoli della terra — alla condizione del più umile — del più degradato di tutti i popoli!
«Salvata sì portentosamente la mia Nanna — e reduce tra i miei coraggiosi compagni — io avea ragione d’esser contento della mia sorte. — Ma ripeterò il vostro adagio favorito — Capitano: — «La felicità sulla terra esiste nell’immaginazione della gente — ma non è cosa reale» — avete ragione! — troppo presto provai la veracità delle vostre parole.
«Vi ricordate quel prete scellerato della Basilica di S. Paolo — che fingeva d’essere sviscerato amico vostro — ed a cui noi fummo così larghi di simpatie e di favori? — Ebbene! il mostro s’era innamorato della mia Nanna — e mai mi perdonò l’affetto con cui mi ricambiava quell’angelica creatura.
«Don Pantano — con quell’astuzia infernale che distingue la sua setta malefica — era riuscito a guadagnarsi gli animi nella famiglia di Nanna — e ad inviperirli. — I quattro fratelli di lei — come ella mi disse poi — ajutati da altra gente mascherata — e consigliati dal prete volpone — avevano essi eseguito il primo ratto della mia fanciulla in casa Marcello. — Questa volta — dovendo necessanamente allontanarmi co’ miei — ed essendo la mia diletta in delicata condizione ed affranta dalle fatiche sofferte — io mi decisi di lasciarla in casa del nostro poeta — insieme alla Maria con cui era divenuta si può dire sorella — d’affetto cementato dalle sventure e dai pericoli passati in comune. —
«Inquieto per altro sulla sorte della mia donna — e conoscendo la malizia del suo persecutore — io mi aggirava colla banda d’Emilio intorno alla tenuta di Lelio — — come la lionessa, quando deposti i suoi piccini si allontana per cercare alimento — ma circuendo sempre il nascondiglio del suo tesoro. — Vi assicuro — che ben diffìcile sarebbe stato ai primi rapitori — il portar via la mia Nanna. — Nella mia custodia erami Tito di non poco giovamento — il quale — pratico di quelle contrade, non aveva voluto più abbandonarmi.
«Ma ove non arriva la malvagità di un prete? — Il Pantano sapendo quanto ardua era l’impresa di portar via la sua preda — ideò di distruggerla — lo scellerato!....
«Vicina al parto — l’infelice giovane — sola, colla Maria inesperta in tali faccende — seguì l’innocente consiglio di Lelio, di chiamare da Castel Guido la levatrice di quel paese — sino allora tenuta per onesta. — Onesta! ... ma chi può fidare sull’onestà delle donne — ove signoreggia il negromante? — Corruzione! Prostituzione! ecco il codice dei sacerdoti della menzogna! — Chi non lo crede — vada a passare alcuni mesi in quel covile di serpenti mitrati — ove un dì — nacquero i Cincinnati e gli Scipioni. —
«Quanti delitti — non si possono far commettere da una creatura — assicurandola che essa compie la volontà di Dio! ch’essa ode la parola di Dio!
«Parola di Dio! — sacrilegio che solo un prete può pronunciare! — Eppure ogni festa — metà almeno del mondo cattolico — va ad udire la parola di Dio! — in seno alla sposa di Gesù Cristo — la Chiesa! —
«Veleno! Veleno! si amministrò alla mia Nanna — Capitano mio! — ed il veleno mi portò via donna! — prole! ed ogni felicità sulla terra!
«Fui arrestato sul freddo cadavere di lei — inconscio della vita. — Seppi poi, che s’impiegò al mio arresto tutto l’esercito di mercenari papalini — che i nostri bravi si batterono disperatamente per liberarmi — ma sopraffatti dal numero — e quasi tutti feriti — si ritirarono in buon ordine. —
«Istupidito — chiesi a più riprese la morte — Invano! — il gran trionfo di quel prode esercito era più splendido se mi avevan vivo ed incatenato. —
«Dalla galera di Civitavecchia — fui inviato a Roma dopo pochi mesi — e liberato; col giuramento di assassinare il principe T...
«Giuramento!.... avete capito — Comandante — Giuramento! — quella viltà degradante della dignità umana — con cui il despotismo ed il prete credono di vincolare la gente! Giurare di servir fedelmente un impostore od un tiranno!... di obbedirgli.... ancorchè si dovesse assassinare il padre e la madre!...
«Ed io giurai — vi dico il vero — ma giurai — di far loro una guerra a morte — per quanto dura questa vita d’inferno — ove non abbiamo altra alternativa: che morire o ammazzare!»