Clelia/LXVI
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CAPITOLO LXVI.
SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO.
Giunti all’uscita del sotterraneo, Tito cominciò a spostare alcuni rami di lentischio che ne ostruivano l’entrata — ed uscì il primo — girando lo sguardo per ogni verso — Salvi! — egli finalmente esclamò: — Salvi! sin qui non giunsero i nostri persecutori. — Uscito colle compagne — non potei ristarmi dall’ammirare come un orificio sì angusto ed impercettibile, quando sia ricoperto da’ rami — potesse dare adito a quella spaziosa ed immensa catacomba.
«Castel Guido — io dissi a Tito: — ma non lontano dobbiamo avere la tenuta del nostro poeta pastore? — Sì! rispose egli: a poche miglia — e vi guiderò diritto a quella volta — ove potremo trovare un po’ di riposo — ed un’eccellente ricotta per soddisfare la fame.
«Il sole di Marzo era altissimo sull’orizzonte — quando lasciammo il sotterraneo
— e nella splendida foresta — ove ci trovammo internati., le piante secolari — che ricordavano forse le immortali legioni — poco accesso davano ai cocenti raggi del figlio primogenito di Dio. — I sentieri solcati dalla bufala — eran quindi magnifìcamente ombreggiati — e ben piacevole sarebbe stato il passeggiarli — meno stanchi ed affamati.
«Alla fine sull’orlo del bosco apparve ai desiosi nostri occhi la casipola mentovata — e per fortuna — sulla soglia scoprimmo il nostro amico — che sembrava aspettare qualcheduno. —
«Accidenti! gridò il poeta — quando fummo giunti vicino a lui — non aspettavo quest’oggi voi, Marzio! — e ci stringemmo le destre come vecchie conoscenze. —
«Aspettavo — birri — come al solito — continuò l’amico — giacchè si vociferò che alcuni delle vostre bande si aggiravano in questi dintorni — e con voce bassa — trascinandomi alquanto da parte: — Anzi qui a poca distanza v’è Emilio, soggiunse, con due compagni.»
«In luogo di cacciatori ti giunse adunque la selvaggina, o Lelio, — ma poche parole — dacci da mangiare e da bere — che noi si muore dalla fame. — «Entrate, qui nulla manca — eccovi presciutto — ricotta, pane ed una foglietta1 proprio d’Orvieto.
«Mangiate — bevete ch’io vi guarderò le spalle da quei malandrini di Roma. - — Accidenti2 a quanti sono!
«Divorammo il frugale ma abbondante e sano pasto — e quel primo bisogno soddisfatto — io richiesi da Tito — il racconto delle sue avventure — il che egli fece in poche parole. — Io — disse — sono di Castel di Guido e di onesta famiglia. — Mio padre massajo dell’immensa tenuta del Cardinale M. — per consiglio dell’Eminentissimo — mi mandò a Roma nel seminario — all’età di quindici anni — per abbracciare la carriera ecclesiastica.
«Eran due anni che contra all’indole mia — mi trovavo a dover fare quel maledetto mestiere — ed era qualche tempo che il reverendo Petraccio direttore del seminario — mi mostrava simpatia — ed a dispetto de’ miei compagni — gelosi della mia buona fortuna — il reverendo alcune volte mi conduceva seco al passeggio. — Le passeggiate con Petraccio, sempre noj ose — lo sembravan meno — quando con lui si entrava nel convento di S. Francesco a visitare le monache. — Badessa e monache — forse invaghite delle mie forme (ed era veramente bello il nostro Tito) mi accarezzavano sempre e mi colmavano di gentilezze. — Vi lascio pensare: che traccie di fuoco lasciassero nell’anima mia quelle visite a tante belle creature. — La badessa — onnipotente sull’animo del direttore — ottenne e senza molta difficoltà (almeno io credo) ch’io potessi essere impiegato al servizio divino del convento — facendo da secondo ad un vecchio rettore che officiava per le monache. —
«Non tardai ad accorgermi dello scopo cui mirava la santa matrona — ed eccitato come ero per la mia frequenza tra tante donne — non fu difficile il farmi peccare.
«Vari mesi durò quella tresca — e sotto un pretesto o sotto l’altro — stavo pochissimo in seminario — e coll’appoggio del Direttore potevo fare quanto mi piacea. — Il Direttore alla sua volta era retto dispoticamente dalla badessa — che lo lasciava liberissimo gallo nel pollajo.
«D’indole — tutt’altro che da seminario — sin da giovinetto ero stato appassionatissimo per la caccia — e per qualunque avventura — che richiedesse ardimento. — Così nelle mie escursioni pei dintorni di Castel di Guido — avevo scoperta l’entrata del sotterraneo che noi abbiamo lasciato — e moltissime volte — colle mie torcie a vento — ne avevo esplorate le parti più recondite. —
«Io stesso aveva trovato le comunicazioni col convento e me ne servivo per introdurmivi — a tutte le ore — e devo confessarlo a detrimento del pudore delle giovani suore — dalle quali ero adorato. —
«Lunga sarebbe la storia delle gelosie della badessa, che furba com’era — s’era accorta della mia predilezione — per le più giovani — e molte volte l’avevo trovata in una irritazione tale da mettermi paura.
«Infinite furon le scelleraggini da me vedute commettersi in quella casa di prostituzione — durante la gravidanza ed il parto delle infelici sedotte — ed il carcame delle creature distrutte — appena nate — è cosa da far inorridire ogni anima gentile! - — Dico il vero: io mi ero proposto di allontanarmi da quel luogo maledetto per non tornarvi mai più:
«Ma ero destinato a pagare il fio della mia complicità a tanta abbominazione. — La megera — la matrona di tante dissolutezze — sembrò aver indovinata la mia risoluzione di fuga — e non mi diede tempo di eseguirla.
«Un giorno: — scendete Tito nel sotterraneo — mi disse — e portatemi alcune delle torce a vento, che mi furon richieste per una processione notturna. — Ebbi un presentimento di sciagura — ma ardimentoso come sempre — non volli dare ascolto a quella voce del mio cuore. — Poi mi era balenata alla mente l’idea di profittare dell’occasione, per allontanarmi per sempre da quella cloaca. —
«Non avevo ancora terminato di scendere la scala della catacomba — che mi sentii agguantato da quattro robusti uomini — e trascinato verso il carcame che voi avete veduto — e donde miracolosamente fui tratto da voi. —
«Eran birri, e furono inutili le mie suppliche, le mie promesse e la mia disperazione. — Io doveva essere tra le vittime dell’impudicizia e dell’infamia. — Ma voi mi salvaste, uomo coraggioso! — e Tito così terminando baciava la mano del suo liberatore.