Chi l'ha detto?/Parte prima/25

§ 25. Esperienza

../24 ../26 IncludiIntestazione 3 aprile 2020 100% Da definire

Parte prima - 24 Parte prima - 26
[p. 126 modifica]







§ 25.



Esperienza





Credete a chi ha anni ed esperienza:

430.                       Experto credite.1

come dice un emistichio di Virgilio (Eneide, lib. XI, v. 283); ma era proverbio che si ritrova anche in altri classici (Silio Italico, VII, 395; Ovidio, Ars Amandi, III, 511; Fas., V, 674) e che il medio evo stemperò nella barbara formula scolastica:

Quam subito, quam certo, experto crede Roberto.
[p. 127 modifica]da alcuni attribuita al poeta maccheronico Ant. de Arena. Cfr. Interm. des cherch. et des cur., 10 août 1904, col. 202.

La più grande delle esperienze è quella del dolore, quella che ha suggerito a Didone il bellissimo esametro:

431.   Non ignara mali, miseris succurrere disco.2

che Voltaire nella Zaira (a. II, sc. 2) tradusse:

Qui ne sait compatir aux maux qu’il a soufferts?

e meglio ancora Gilbert (Heroide de Didon à Enée, v. 144):

Malheureuse, j’appris à plaindre le malheur!

Leggasi nel Fournier (L’Ésprit des autres, pag. 360) il curioso caso successo a Delille, che reo di plagio, involontario o no, di questa ultima traduzione, in una disputa ne sostenne ingenuamente la eccellenza, dimenticando di averne fatto cosa propria.

Noi per simbolo dell’esperienza potremo prendere il dantesco:

432.   Provando e riprovando.

che fu poi il motto dell’Accademia Fiorentina del Cimento, istituita nel 1657 dal Principe (poi Cardinale) Leopoldo de’ Medici allo scopo di fare esperienze ed osservazioni fisiche, fisicomatematiche ed astronomiche, applicando allo studio della natura i canoni della indagine galileiana. Visse fino al 1667 ed ebbe per impresa una fornace accesa e tre crogiuoli sopra una tavola di pietra che sta presso alla bocca della fornace medesima, col motto Provando e riprovando. A proposito del quale motto nell’opera Saggi di naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento ecc. (Firenze, 1666 e 1667) si legge a pag. 3 del Proemio: «Or quivi dove non ci è più lecito metter piede innanzi, non vi à cui meglio rivolgersi, che alla sede dell’esperienza, la quale non altrimenti di chi varie gioie sciolte, e scommesse cercasse di rimettere ciascuna per ciascuna al suo incastro, così ella adattando effetti a [p. 128 modifica]cagioni, e cagioni ad effetti se non di primo lancio come la geometria, tanto fa che provando e riprovando le riesce talora di dar nel segno». Non è inutile di avvertire che Dante non usò quei due gerundi nel significato che piacque più tardi agli Accademici del Cimento di dar loro: è Beatrice che prima prova, cioè approva, la vera sua opinione, poi riprova, cioè confuta, l’opinione falsa di Dante.
Vivendo s’impara: e non si può esprimere meglio questa assiomatica verità che con la sentenza latina:

433.   Magister est prioris posterior dies.3

il quale detto trae forse origine da un passo di Pindaro (Olimp., I, v. 53-54): Ἁμέραι δ᾿ ἐπίλοιποι μάρτυρες σοφώτατοι, o da un altro di Demostene, nella I Olintiaca (11): Πρὸς γὰρ τὸ τελευταῖον ἐκβὰν ἕκαστον τῶν πρὶν ὑπαρξάντων κρίνεται. P. Siro (Sent. 124, ed. Ribbeck) invece dice: Discipulus est prioris posterior dies, che può parere più giusto; ma e l’una e l’altra sentenza son vere, poichè la esperienza dell’oggi ammaestra pel domani ed apre gli occhi sugli errori di ieri.

Ma l’esperienza anche insegna che per quanto sia lunga la vita, non è mai sufficiente a dare una compiuta conoscenza di qualunque arte, di qualunque disciplina. Saviamente dicevano gli antichi:

434.   Ars longa, vita brevis.4

L’origine di questa sentenza ha da cercarsi negli Aforismi di Ippocrate, dove, in principio, è detto: ὁ βίος βραχὺς, ἡ δὲ τέχνη μακρὴ, che Seneca (De brevitate vitæ, I) tradusse: Vitam brevem esse, longam artem; mentre Longfellow in A Psalm of Life così ridusse:

Art is long, and time is fleeting.
La sentenza ippocratica che si riferisce principalmente alla medicina, è questa nella sua integrità: [p. 129 modifica]

435.   Vita brevis, ars longa, occasio praæceps, experimentum periculosum, judicium difficile.5

(Ippocrate, loc. cit.).

L’esperienza ci ammaestra anche a non meravigliarci di nulla,

436.   Nil admirari.6

(Orazio, Epistolæ, lib. I, epist. 6, v. 1).

poichè:

437.   Nihil sub sole novum.7

L’eterno ricorso dei fatti e delle cose è pure accennato in due versi celebri di Heine:

438.   Es ist eine alte Geschichte,
Doch bleibt sie immer neu.8

che fanno parte della poesia Ein Jüngling liebt ein Mädchen, stampata anche nel Lyrisches Intermezzo.

Così si fugge il pericolo di diventare troppo ciechi ammiratori del presente, eccesso biasimevole al pari del suo contrario: in verità non c’è persona più fastidiosa dell’eterno.

439.   Laudator temporis acti.9

(Orazio, Arte poetica, v. 173).

Ma il lodare i tempi antichi e il far lamentele sulla corruzione, sulla decadenza dei moderni non è cosa d’oggi, e neppure dei tempi di Orazio. Il celebre papiro Prisse, di data incerta, forse del xx secolo avanti l’Era Volgare, o su quel torno, ma con sicurezza anteriore di molti secoli a Mosè, e anche all’epoca cui si assegna comunemente la vita di Abramo, e che può dirsi perciò con ogni [p. 130 modifica]certezza il più antico libro che esista, contiene un trattato morale ove si rimpiangono le virtù dell’età passate!

E nell’Aminta del Tasso (a. II, sc. 2, v. 71-72) così dice Dafne a Tirsi:

440.   .... Il mondo invecchia,
E invecchiando intristisce.

e il concetto medesimo fu ripetuto dal Metastasio nel Demetrio (a. II, sc. 8):

441.   Declina il mondo, e peggiorando invecchia.

Il Leopardi ha ne’ suoi Pensieri una bellissima pagina su questo vezzo di gridare che il mondo peggiora, e fa a questo proposito delle acutissime considerazioni, riportando fra le altre cose ciò che scriveva il Magalotti sul pregiudizio di credere che le stagioni vanno ogni anno più alla rovescia, che la terra raffredda e via discorrendo.

Su questo medesimo soggetto compose un curioso libro quel bizzarro scrittore del P. Secondo Lancellotti, abate olivetano, intitolandolo: L’Hoggidì ovvero il mondo non peggiore nè più calamitoso del passato, e gl’ingegni non inferiori a’ passati (Venetia, 1623-36). La prima parte di questo libro si chiude col versetto biblico:

«Ne dicas: Quid putas causæ est quod priora tempora meliora fuere, quam nunc sunt? Stulta est enim hujuscemodi interrogatio.»

Quindi nè spregiatori dell’oggi, nè spregiatori dell’ieri: talvolta anzi sarà savio di ricercare usi e opinioni passate, e dire:

442.   Torniamo all’antico.

che fu scritto (ma non in questa forma precisa) da Giuseppe Verdi in una lettera a Francesco Florimo, bibliotecario del R. Collegio di Musica a Napoli, quando sulla fine del 1870 gli venne offerto il posto di direttore del Collegio medesimo dopo la morte di Mercadante.

Il Verdi vi espone i criteri con i quali avrebbe voluto che i giovani alunni di musica formassero la propria educazione artistica e conchiude scrivendo: «Auguro troviate un uomo dotto soprattutto e [p. 131 modifica]severo negli studi. Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere e sono belli talvolta in teatro, in conservatorio no!... Tornate all’antico e sarà un progresso». Non è dunque vero che il Verdi con quella frase intendesse pronunziare una condanna assoluta della nuova scuola musicale, chè anzi nella lettera medesima, poche righe più sopra scrive: «a me non fa paura la musica dell’avvenire»; ma, come bene osserva il Florimo, egli intendeva che nei conservatori si facesse ritorno agli studi severi di scuola, alle pratiche di contrappunti diversi, di fughe e canoni di svariate maniere. La lettera, che ha la data di Genova, 5 gennaio 1871, fu pubblicata molte volte e anche dal Florimo stesso nel volume Riccardo Wagner e i Wagneristi (Ancona, 1883), a pag. 106-108.

Al consiglio di Verdi si atterranno tutti coloro per i quali il tempo è maestro, per i quali la storia e la vita sono fonte di utili ammaestramenti, e dei quali non potrà mai dirsi che:

443.   Ils n’ont rien appris, ni rien oublié.10

come vuolsi che Talleyrand dicesse degli emigrati tornati in Francia dopo la restaurazione: e più volte si è detto dei Borboni. Ma la frase si trova originariamente in una lettera del cav. de Panat a Mallet du Pan, scritta da Londra nel 1796, intorno ai realisti rifugiati in Inghilterra. «Personne n’est corrigé; personne n’a su ni rien oublier, ni rien apprendre.» (Mémoires de M. Du Pan, vol. II, pag. 197); ed è ripetuta testualmente nel proclama della Guardia Imperiale all’esercito francese, nel 1815, durante i Cento Giorni: «Depuis le peu de mois que les Bourbons règnent, ils vous ont convaincu qu’ils n’ont rien oublié ni rien appris».

E la stessa idea, in un campo più ristretto, ma espressa in senso più generale, si ritrova in quest’altra frase:

444.   Jamais l’exil n’a corrigé les rois.11

che è il ritornello della canzone Denys, maitre d’école scritta da Jean-Pierre de Béranger alla Force nel 1829.

Note

  1. 430.   Credete a chi ha provato.
  2. 431.   Non ignara della sventura, ho appreso a soccorrere gli sventurati.
  3. 433.   Il giorno che segue insegna al giorno precedente.
  4. 434.   L’arte è lunga, la vita è breve.
  5. 435.   La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione fuggevole, lo sperimentare pericoloso, il giudicare difficile.
  6. 436.   Non meravigliarsi di nulla.
  7. 437.   Nulla è nuovo sotto il sole.
  8. 438.   È un'antica storia che rimane sempre nuova.
  9. 439.   Lodatore del tempo passato.
  10. 443.   Essi nulla hanno imparato, nulla hanno dimenticato.
  11. 444.   L’esilio non ha mai corretto i re.