Che cosa è l'arte?/IX
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Capitolo IX.
Gli effetti dell’arte pervertita;
la ricerca dell’oscurità.
Il primo effetto della mancanza di fede nelle classi più elevate fu per l’arte loro l’impoverimento della materia. Un secondo malanno fu questo, che codesta arte, facendosi sempre più esclusiva, veniva diventando di pari passo più artificiosa, più inceppata e più oscura.
Nelle età di arte universale un artista, per esempio uno scultore greco o un profeta ebreo, nelle sue creazioni si sforzava naturalmente di dire ciò che voleva in modo tale che tutti potessero capire l’opera sua. Allorchè invece gli artisti non lavorarono più che per un numero ristretto di persone favorite da condizioni eccezionali, vale a dire per papi, cardinali, re, duchi, o, non foss’altro, per le ganze dei principi, naturalmente s’ingegnavano solo di far colpo su quelle persone delle quali conoscevano bene i costumi e il gusto. E quel genere di lavoro essendo più facile, l’artista si trovava adescato senza saperlo a esprimersi con allusioni, chiare per gl’iniziati, ma oscure per tutti gli altri. A quel modo era facile amplificare; e poi anche agl’iniziati il vago e l’indefinito presentava una cotale attrattiva. Siffatta tendenza, che si rivelava nelle allusioni mitologiche e storiche e negli eufemismi, proseguì ad accentuarsi fino all’età presente, nella quale pare abbia toccato il suo limite estremo coll’arte dei moderni decadenti. In ultima analisi essa è giunta a segno, che nelle opere artistiche non solo furono elevate a pregi, — anzi a condizioni di poesia, — l’affettazione, la confusione, l’oscurità, il sottrarsi all’intelligenza della moltitudine, ma sono avviate a diventare meriti artistici anche le scorrezioni, le incertezze, le mende tecniche d’ogni guisa.
Teofilo Gautier nella sua prefazione al celebre libro del Baudelaire Fleurs du mal, dice che il Baudelaire sbandiva più che potesse dalla poesia “l’eleganza, la passione, e la verità riprodotta con troppa esattezza„.
Il poeta Verlaine venuto dopo il Baudelaire, e riputato anch’esso uno dei grandi, lasciò un’Arte poetica in cui raccomanda di scrivere così:
De la musique avant toute chose,
Et, pour cela, préfère l’Impair,
Plus vague et plus soluble dans l’air,
Sans rien en lui qui pèse ou qui pose.
Il faut aussi que tu n’ailles point
Choisir tes mots sans quelque méprise,
Rien de plus cher que la chanson grise;
Où l’Indécis au Précis se joint.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E più sotto:
De la musique encor et toujours!
Que ton vers soit la chose envolée
Qu’on sent qui fuit d'une âme en allée
Vers d’autres cieux à d’autres amours!
Que ton vers soit la bonne aventure
Éparse au vent crispé du matin,
Qui va fleurant la menthe et le thym...
Et tout le reste est littérature.
Il poeta Mallarmé che, dopo i due predetti, è ritenuto dai giovani come il più ragguardevole, dichiara apertamente che l’attrattiva della poesia sta nel doverne indovinare il significato, e che ogni composizione poetica deve sempre contenere un enigma:
“Io penso che occorre non ci sia altro che allusione. La contemplazione degli oggetti, l’imagine liberantesi dalle fantasticherie suscitate per essi, sono il canto. I Parmassiani, loro, prendono la cosa intieramente, e la mostrano; con ciò, essi mancano di mistero; tolgono alle menti quella gioia deliziosa che proviene dal credere di creare. Nominare un oggetto è sopprimere i tre quarti del godimento della poesia, che è fatta della felicità d’indovinare a poco a poco; suggerirlo, ecco l’ideale. È il perfetto uso di questo mistero che costituisce il simbolo; evocare a poco a poco un oggetto per palesare uno stato d’anima, o, a rovescio, scegliere un oggetto e svilupparne uno stato d’anima con una serie d’interpretazioni.... Se un essere d’intelligenza media e d’una preparazione letteraria insufficiente apre a caso un libro così fatto, e pretende di poterne godere, c’è malinteso, bisogna dissiparlo. Nella poesia ci deve sempre essere dell’enigma; ed il fine della letteratura, l’unico, è quello di evocare gli oggetti.„ (Risposta di Mallarmé a j. huret nell’Enquête sur l’évolution littéraire).
Come vede ognuno, si tratta dell’oscurità eretta a dogma artistico. E il critico francese Doumic, al quale codesto dogma non va ancora a sangue, dice con ragione: “Sarebbe ora di farla finita con questa famosa dottrina dell’oscurità, che la nuova scuola ha realmente elevata all’altezza d’un dogma„.
A pensare così non sono soltanto i giovani artisti francesi. Dappertutto i poeti pensano e fanno il medesimo, in Germania, nella Scandinavia, in Italia, in Russia, in Inghilterra. Gli stessi principii ritornano pure fra i cultori di altre ramificazioni dell’arte, fra i pittori, gli scultori, i musicisti. Appoggiandosi alle dottrine del Nietzsche e all’esempio del Wagner gli artisti delle nuove generazioni credono inutile per loro di farsi intendere dalla moltitudine; si contentano di evocare il sentimento poetico in una schiera eletta di raffinati.
Affinchè non si creda che le mie affermazioni sieno esagerate, citerò alcuni passi dei poeti francesi che si posero alla testa del movimento decadente. Questi poeti si chiamano legione. Se poi cito soltanto dei Francesi, egli è perchè ora sono essi i corifei del nuovo movimento artistico, mentre il resto d’Europa si contenta d’imitarli. Oltre a quelli già ritenuti celebri, come il Baudelaire e il Verlaine, eccovi i nomi di alcuni altri: Jean Moréas, Charles Morice, Henri de Régnier, Charles Vignier, Adrien Remacle, René Ghil, Maurice Maeterlinck, Rémy de Goumont, Saint-Polroux-le-Magnifique, Georges Rodenbach, il conte Robert de Montesquiou-Fezenzac. Questi sono i simbolisti e i decadenti; ma ci sono altresì i magi: il Sàr Peladan, Paul Adam, Jules Bois, Papus, e altri. E potreste leggere altri cento quarantun nomi, mentovati dal Doumic nel suo libro Les jeunes.
Ecco pertanto alcuni saggi di coloro che sono ritenuti fra i migliori, cominciando da quel celebre Baudelaire, che fu giudicato degno dell’onore d’una statua. Udite questa poesia appartenente ai suoi Fleurs du mal:
Je t’adore à l’egal de la voûte nocturne,
O vase de tristesse, ô grande taciturne,
Et t’aime d’autaut plus, belle, que tu me fuis,
Et que tu me parais, ornement de mes nuits,
Plus ironiquement accumuler les lieues
Qui séparent mes bras des immensités bleues.
Je m’avance à l’attaque, et je grimpe aux assauts,
Comme après un cadavre un chœur de vermisseaux.
Et je chéris, ô bête implacable et cruelle,
Jusqu’à cette froideur par où tu m’es plus belle!
Trascriviamo un sonetto dello stesso autore:
Deux guerriers ont couru l’un sur l’autre; leurs armes
Out éclaboussé l’air de lueurs et de sang.
Ces jeux, ces cliquetis du fer, sont les vacarmes
D’une jeunesse en proie à l’amour vagissant.
Les glaives sont brisès! comme notre jeunesse,
Ma chère! Mais les dents, les ongles acérés
Vengent bieintôt l’épée et la dague traîtresse;
O fureur des cœurs mûrs par l’amours ulcérés!
Dans le ravin hanté des chats-pards et des onces
Nos héros, s’étreignant méchamment, ont roulé,
Et leur peau fleurira l’aridité des ronces.
Ce gouffre, c’est l’enfer, de nos amis peuplé!
Roulons-y sans remords, amazone inhumaine,
Afin d’éterniser l’ardeur de notre haine!
Per la sincerità debbo aggiungere che nella raccolta citata (Fleurs du mal) ci sono altresì delle poesie meno difficili a capirsi, ma nessuna è così semplice che si possa intendere senza sforzo; e di solito lo sforzo non è compensato, poichè i sentimenti espressi dal poeta non sono belli, e in genere appartengono a un ordine assai basso. Inoltre sono esposti a bello studio con eccentricità, e senza alcun riguardo per il buon senso. La ricerca dell’oscurità riesce ancora più evidente nella sua prosa, in cui, se volesse, gli sarebbe più facile parlar chiaramente. Eccovi, tradotto letteralmente, il primo numero dei suoi Petits poèmes en prose:
LO STRANIERO.
Chi ami di più, uomo enigmatico, dimmi, tuo padre, tua madre, tua sorella, o tuo fratello? Non ho nè padre, nè madre, nè sorella, nè fratello.
I tuoi amici?
Voi vi servite d’una parola il senso della quale m’è rimasto ignoto sino a oggi.
La tua patria?
Ignoro sotto che latitudine si trovi.
La bellezza?
L’amerei volentieri, dea e immortale.
L’oro?
Lo detesto, come voi detestate Dio.
Che cos’ami allora, singolarissimo straniero?
Amo le nubi.... le nubi che passano.... laggiù... le nubi meravigliose!
La composizione intitolata La Soupe et les Nuages, secondo ogni apparenza fu fatta per dimostrare che il poeta sa restare incomprensibile persino alla donna amata. Eccola:
La mia cara pazzerella mi dava da desinare, e, attraverso la finestra spalancata della sala da pranzo, io contemplavo le mobili architetture che Dio fabbrica coi vapori, le costruzioni meravigliose dell’impalpabile. E dicevo a me stesso durante la mia contemplazione: „Tutte queste fantasmagorie sono belle quasi come gli occhi della mia bella dama, la pazzerella mostruosa dagli occhi verdi.„
A un tratto ricevetti un forte pugno nella schiena e udii una voce roca e graziosa, una voce isterica e come velata per l’acquavite, la voce della mia cara piccola adorata, che mi diceva: “Volete o non volete mangiare la minestra, sudic... d’un mercante di nuvoli?„
Per quanto sia ricercato lo stile di questo frammento con un po’ di buona volontà si può ancora indovinare ciò che volle esprimere l’autore; ma ve n’ha di quelli che sono assolutamente incomprensibili, almeno per me. Adduco per esempio il Galant tireur, del quale mi sfugge affatto il senso:
Mentre la carrozza traversava il bosco, egli la fece fermare presso a un tiro a segno, dicendo che aveva gusto di tirare qualche palla per ammazzare il tempo.
Ammazzare quel mostro, non è forse l’occupazione più comune e più legittima di ciascuno? E da buon cavaliere offerse la mano alla sua cara, deliziosa, esecrabile moglie, alla quale è debitore di tanti piaceri, di tanti dolori e fors’anco d’una gran parte del suo talento.
Parecchie palle fallirono il segno; anzi una andò a ficcarsi nel soffitto; e poichè quella graziosa creatura rideva pazzamente dell’incapacità di suo marito, questi si voltò bruscamente verso di lei, e le disse: “Guardate laggiù a destra quella bambola che ha il naso per aria, e una cera così orgogliosa. Ebbene, angelo caro, mi figuro che siate voi„. E chiuse gli occhi, e fece scattare il grilletto. La bambola fu decapitata di netto.
Allora egli facendo un inchino alla sua cara, deliziosa, esecrabile moglie, alla sua Musa inevitabile e inesorabile, e baciandole rispettosamente la mano, soggiunse: “Angelo caro, quanto vi ringrazio della mia abilità!„
I parti poetici dell’altro (grande poeta), il Verlaine, non sono meno affettati e incomprensibili. Udite la prima poesia della raccolta intitolata Arieties oubliées:
C’est l’extase langoureuse,
C’est la fatigue amoureuse,
C’est tous les frissons des bois
Parmi l’étreinte des brises,
C’est, vers les ramures grises,
Le chœur des petites voix.
O le fréle ot frais murmure!
Cela gazouille et susurre,
Cela ressemble au cri doux
Que l’herbe agitée expire....
Tu dirais, sous l’eau qui vire,
Le roulis sourd des cailloux.
Cette âme qui se lamente
En cette plainte dormante
C’est la nôtre, n’est-ce pas?
La mienne, dis, et la tienne,
Dont s’exhale l’humble antienne
Par ce tiède soir, tout bas?
Che cosa sia codesto choeur des petites voix, e quel cri doux que l’herbe agitée expire, e che voglia dire tutta la poesia, confesso che non sono riuscito a capirlo. Eccovi un’altra ariette:
Dans l’interminable
Ennui de la plaine,
La neige incertaine
Luit comme du sable.
Le ciel est de cuivre,
Sans lueur aucune
On croirait voir vivre
Et mourir la lune.
Gomme des nuées,
Flottent gris les chénes
Des forêts prochaines
Parmi les buées.
Le ciel est de cuivre,
Sans lueur aucune.
On croirait voir vivre
Et mourir la lune.
Corneille poussive,
Et vous, les loups maigres,
Par ces bises aigres
Quoi donc vous arrive?
Dans l’interminable
Ennui de la plaine,
La neige incertaine
Luit comme du sable.
Come mai può sembrare che la luna viva e muoia in un ciel de cuivre, sans lueur aucune? E come mai la neve può luire comme du sable? Tutto ciò non è soltanto incomprensibile, ma colla scusa della suggestione d’impressioni, è un tessuto di metafore scorrette e di parole senza senso. Del resto nel Verlaine come nel Baudelaire insieme a codeste poesie ricercate e incomprensibili, ce ne sono delle altre facili a capirsi; ma in cambio mi paiono misere di sostanza e di forma. Per esempio, le poesie che formano la raccolta intitolata Sagesse, sono dedicate principalmente all’espressione mediocrissima dei più volgari sentimenti cattolici e patriottici. Vi s’incontrano delle strofe come la seguente:
Je ne veux plus penser qu’à ma mère Marie,
Siège de la sagesse et source de pardons,
Mère de France aussi, de qui nous attendons
Inébranlablement l’honneur de la patrie.
Prima di addurre dei saggi di altri poeti, non posso trattenermi dall’insistere sulla gloria straordinaria di questi due autori, Baudelaire e Verlaine, oggi riconosciuti in tutta l’Europa come i più grandi ingegni della poesia moderna. Perchè mai i Francesi, che ebbero Chénier, Lamartine, Musset, e soprattutto Vittor Hugo, che recentemente ancora hanno avuti i Parnassiani, Lecomte de Lisle, Sully Prudhomme, perchè mai hanno potuto dare un’importanza così smisurata e decretare una gloria così alta a questi due poeti, così imperfetti di forma, e così volgari e bassi nella sostanza degli argomenti? Il concetto che il Baudelaire aveva della vita consisteva nell’erigere in teoria l’egoismo più grossolano, e nel sostituire alla moralità un ideale discretamente nebuloso della bellezza, e d’una bellezza affatto artificiale. Il Baudelaire sosteneva di preferire un viso di donna imbellettato al medesimo viso col colorito naturale; gli alberi metallici e l’imitazione dell’acqua sulla scena gli piacevano di più che non i veri alberi e la vera acqua. La filosofia dell’altro poeta, del Verlaine, consisteva nella più abbietta dissolutezza, nel confessare la propria impotenza morale, e nella più grossolana idolatria cattolica presa come antidoto di quella impotenza. Avevano poi entrambi in comune la mancanza assoluta di sincerità, di freschezza e di semplicità, ed erano pieni d’affettazione, di pretensioni e di smania per l’eccentricità. Nei loro scritti migliori troviamo sempre il signor Baudelaire o il signor Verlaine piuttostochè l’argomento di cui sembrano occuparsi. E dire che quei due cattivi poeti hanno fatto scuola, e si trascinano dietro delle centinaia d’imitatori! È un fatto veramente strano: e non ne vedo altra spiegazione che questa: cioè che l’arte di quella società nella quale nascono produzioni simili, non è cosa seria, importante per la vita, ma un semplice spasso. Ora ogni spasso troppo ripetuto finisce coll’annoiare. Quindi per rendere di nuovo sopportabile un passatempo che ci annoia, occorre rinfrescarlo.
Quando si è sazi del boston, si gioca a whist; se il whist ci ha ristucchi, ci volgiamo al picchetto, e dopo questo all’écarté, e via dicendo. La sostanza del trastullo rimane la stessa; cambia soltanto la forma. Così avviene per codest’arte; la materia che le appartiene s’è ristretta a segno, che oramai agli artisti delle classi superiori sembra che tutto sia rifritto, e non ci sia più nulla da dire. Quindi il bisogno di cercar sempre delle forme nuove per rinfrescare l’arte loro.
Il Baudelaire e il Verlaine inventarono per l’appunto delle forme nuove, le condirono di particolari pornografici ai quali prima di loro nessuno s’era degnato di abbassarsi; tanto bastò perchè fossero salutati grandi scrittori dai critici e dal pubblico delle classi colte.
Il successo non solo del Baudelaire e del Verlaine, ma di tutta la scuola decadente, non si spiega altrimenti. Ci sono in particolar modo delle poesie del Mallarmè e del Maeterlinck che, a leggerle, sono prive di senso, e nonostante questa graziosa loro proprietà, anzi forse per questa, si stampano a decine d’edizioni, e vengono inserite nelle antologie delle migliori produzioni appartenenti ai giovani poeti. Si legga per esempio questo sonetto del Mallarmé:
A la nue accablante tu,
Basse de basalte et de laves,
A mème les échos esclaves,
Par une trompe sans vertu,
Quel sépulcral naufrage (tu
Le sais, écume, mais y baves),
Supréme une entre les épaves,
Abolit le màt dévètu;
Ou cela que furibond faute
De quelque perdition haute
Tout l’abîme vain éployé
Dans le si blanc cheveu qui traîne
Avarement aura noyé
Le flanc enfant d’une sirène.
Questa poesia non è più incomprensibile di altri scritti, anche di prosa, dello stesso autore. Citiamo per esempio:
IL FENOMENO FUTURO.
Un cielo pallido, sul mondo che basisce di decrepitezza, pare voglia farla finita in un colle nuvole; i brandelli della porpora logora dei tramonti si stingono in un fiume, che dorme all’orizzonte sommerso nei raggi e nell’acqua. Gli alberi s’annoiano, e sotto il loro fogliame imbiancato (più dalla polvere del tempo, che non da quella della strada) s’innalza la casa di tela del Mostratore dello Cose Passate. Molti fanali attendono il crepuscolo e ravvivano i visi d’una folla disgraziata, vinta dalla malattia immortale e dal peccato dei secoli; d’uomini accanto alle loro gracili complici, incinte dei frutti miserabili coi quali perirà la terra. Nel silenzio inquieto di tutti gli occhi supplicanti laggiù il sole, che, sott’acqua, si sprofonda colla disperazione d’un grido, ecco il semplice avviso: “Nessuna insegna vi fa dono dello spettacolo interiore, poichè ora non c’è alcun pittore capace di darne un’ombra triste. Io vi reco viva (e conservata attraverso gli anni dalla scienza sovrana) una Donna d’altri tempi. Una certa follia, originale e ingenua, un’estasi d’oro — non so che! — detta da essa la sua capigliatura, si piega col garbo delle stoffe intorno a un viso illuminato dalla nudità sanguigna delle sue labbra. Invece del vestito vano ella ha un corpo; e gli occhi — simili alle pietre preziose! non offuscano lo sguardo che esce dalla sua carne felice; le mammelle alzate, come se fossero piene d’un latte perpetuo, la punta verso il cielo, le gambe liscie che conservano il sale del mare primitivo.„ Rammentando le loro povere spose, calve, frolle, e piene d’orrore, i mariti s’accalcano; anch’esse per curiosità, malinconiche, vogliono vedere.
Quando tutti avranno contemplata la nobile creatura, vestigio di qualche epoca già maledetta, gli uni indifferenti perchè non avranno avuto la forza di capire; ma altri, angosciati e le palpebre umide di lacrime rassegnate, si guarderanno; mentre i poeti di questi tempi, sentendosi ravvivare gli occhi spenti, s’avvieranno verso la loro lampada, col cervello ebbro per un istante d’una gloria confusa, assediati dal Ritmo, e dimentichi d’esistere in un’età che sopravvive alla bellezza.
Ed ecco una canzone di Maeterlinck, altro scrittore celebre della giornata:
“Quand il est sorti |
“A la première porte
(Mon enfant, j’ai peur)
A la première porte
La flamme a tremblé....
“A la seconde porte
(Mon enfant, j’ai peur)
A la seconde porte
La flamme a parlé....
“A la troisième porte
(Mon enfant, j’ai peur)
A la troisième porte
La lumière est morte....
“Et s’il venait un jour
Que faut-il lui dire?
— Dites-lui qu’on l’attendit
Jusqu’à s’en mourir....
“Et s’il demande où vous êtes
Que faut-il répondre?
— Donnez-lui mon anneau d’or
Sans rien lui répondre....
“Et s’il m’interroge alors
Sur la dernière heure?
Dites-lui que j’ai souri
De peur qu’il ne pleure....
”Et s’il m’interroge encore
Sans me reconnaitre?
— Parlez-lui comme une soeur,
Il souffre peut-être....
“Et s’il veut savoir pourquoi
La salle est déserte?
— Montrez-lui la lampe éteinte
Et la porte ouverte.... ”
Chi “è uscito?„ Chi “entrò?„ Chi “parla?„ Chi ”ha sorriso?„.
Per evitare il rimprovero di aver scelto i versi più cattivi, ho copiato, in ciascun volume, la poesia che si trova alla pagina 28. Gli altri versi di questi poeti non sono più comprensibili; qualche volta si riesce, dopo un grande sforzo, a capirne qualche cosa.
In Francia si contano a centinaia i poeti che producono delle opere congeneri. E delle altre consimili si stampano in Germania, nella Svezia, in Italia, e da noi in Russia. E per comporre, stampare, impaginare, e rilegare opere siffatte si spendono milioni e milioni di giornate laboriose; tante almeno quante ce ne vollero per innalzare la Piramide maggiore.
Lo stesso poi accade in tutte le altri arti, nella pittura, nella musica, nella drammatica; si sciupa un lavoro infinito per rendere possibile la produzione di opere del pari enigmatiche.
La pittura, per esempio, in codesta via va ancora più oltre della poesia. Presento qui alcune linee estratte dal taccuino d’un amatore di pittura, che si trovava a Parigi nel 1894:
Oggi sono stato a tre esposizioni; dei simbolisti, degli impressionisti, e dei neo impressionisti. Ho contemplato con accuratezza e coscienza tutti i quadri, e tutti mi hanno cagionato lo stesso stupore. La più intelligibile delle tre esposizioni mi è parsa quella degl’impressionisti. Pure ci ho veduti i lavori d’un certo Camillo Pissaro, così confusi nel disegno che non riuscivo a capire da che parte fosse voltata una testa, oppure una mano. Gli argomenti erano di solito “effetti”: Effetto di nebbia, Effetto di sera, Tramonto del sole. Nei colori predominavano l’azzurro e il verde stridente. Ogni quadro aveva il suo colore speciale, di cui era in certo modo tutto inondato. Per esempio nella Guardiana delle oche il colore particolare era il verdegrigio, e si avvertivano, sparse un po’ dappertutto, delle chiazze di codesto colore sul volto della figura, sui capelli, sulle mani, sulle vesti. Nella stessa galleria c’erano altri dipinti di Puvis de Chavannes, Manet, Monet, Renoir, Sisley, tutti impressionisti. Uno di essi, che aveva un nome sul fare di Redon, aveva dipinto di profilo una faccia interamente turchina. Ho pur veduto un acquerello del Pissaro tutto fatto di puntolini di diversi colori. Impossibile distinguere il colore generale, tanto avvicinandosi al quadro quanto scostandosene.
Di poi sono passato ai simbolisti. Dapprima mi sono sforzato di esaminare i loro lavori senza chiedere spiegazioni a nessuno, desiderando di comprenderne il senso da me; ma quei lavori sfidano ogni acume d’intelligenza. Il mio sguardo fu subito attratto da un altorilievo intagliato nel legno, eseguito con una grossolanità inconcepibile, e rappresentante una donna nuda, che, premendolo colle mani, si faceva uscire dal seno un fiotto di sangue. Il sangue scorreva e diventava a poco a poco del colore delle glicinie. I capelli prima scendevano, poi risalivano e si trasformavano in un albero. La figura era tutta colorita di giallo, eccetto i capelli, che erano neri.
Lì vicino c’era un quadro; un mare giallo sul quale nuotava un certo arnese che s’assomigliava parte a un battello e parte a un cuore; all’orizzonte s’elevava un profilo con un’aureola e certi capelli gialli, che si andavano a confondere col mare. Alcuni degli espositori stemperano sulla tela uno strato così spesso di colore che l’effetto dei loro lavori tramezza tra la pittura e la scultura. Altro quadro, ancora più strano; un profilo d’uomo con una fiamma davanti, e dei raggi neri — rappresentanti, a quanto mi si disse di poi, delle sanguisughe. Alla fine ho dovuto chiedere a uno dei presenti il significato di quegl’indovinelli. Mi chiarì che l’altorilievo era simbolico, e rappresentava la Terra. Il cuore che navigava sul mar giallo era l’Illusione, e l’uomo delle sanguisughe raffigurava il Male.
Ciò si faceva nel 1894. Codesta tendenza s’accentuò dipoi sempre maggiormente. Adesso in pittura primeggiano Boecklin, Stuck, Klinger e altrettali. Lo stesso succede nel dramma. Gli scrittori teatrali ora ci presentano un architetto che per qualche motivo misterioso, non ha effettuato i suoi disegni primitivi e sublimi, e perciò s’arrampica sul tetto d’una casa costrutta da lui, e si precipita abbasso a capofitto1. Ora sarà una vecchia enigmatica, dedita al mestiere di sterminare i topi, che, senza alcun motivo concepibile, conduce un ragazzetto al mare, e ve lo annega. Oppure saranno dei ciechi i quali, sedendo sulla riva dell’acqua, ripetono all’infinito le stesse parole2. Oppure una campana che si slancia in un lago, e là sotto comincia a scampanare3.
Lo stesso fenomeno riscontrasi nella musica, in un’arte che pareva dovesse rimanere costantemente accessibile a tutti. Qualcuno dei musicisti riputati siede al pianoforte in vostra presenza ed eseguisce ciò che egli dirà essere una composizione nuova, o sua, o di qualche altro musicista moderno. Lo udite produrre dei suoni strani e rumorosi, ammirate la ginnastica delle sue dita, e per dippiù capite che egli vuol farvi credere che i suoni così ottenuti esprimono varj sentimenti poetici dell’anima. La sua intenzione è chiara; ma in noi non si trasfonde altro sentimento che non sia quello d’una noia mortale. L’esecuzione dura a lungo, o almeno a voi pare così, in quanto non riuscite a ricevere alcuna nettezza d’impressioni. E v’imaginate che forse tutto quell’armeggio non è che una mistificazione, che forse l’artista vuol mettervi alla prova e getta a caso le dita sui tasti, sperando di cogliervi, e di potervi poi dar la baia. Tutt’altro. Quando il pezzo di musica è finito, e il musicista, scalmanato e sudato, s’alza dal piano, aspettandosi manifestamente le vostre lodi, dovete riconoscere che egli faceva da senno. E ciò avviene in tutti i concerti nei quali si suonano dei pezzi di Liszt, Wagner, Berlioz, Brahms, Riccardo Strauss e dei compositori innumerevoli appartenenti alla scuola nuova.
La medesima tendenza ha invaso il dominio dei romanzi e dei racconti, dove parrebbe impossibile che altri non si voglia far capire. Leggete Laggiù! del Huysmans, o qualche novella di Kipling, o l’Annonciateur del Villiers de l’Isle-Adam; tali lavori vi parranno non soltanto abscons (reconditi), per servirci d’un termine della nuova scuola, ma pressochè incomprensibili, sia per la forma, sia per la sostanza.
Nello stesso caso è un romanzo di E. Morel, uscito testè nella Revue Blanche, come la maggior parte dei nuovi romanzi. Lo stile vi è sommamente enfatico, i sentimenti paiono arcielevati; ma è impossibile decifrare che cosa avvenga, dove avvenga, e a chi avvenga.
E tale è tutta l’arte della gioventù dei nostri tempi.
Gli uomini della prima metà del nostro secolo, ammiratori del Goethe, dello Schiller, del Musset, dell’Hugo, del Dickens, del Beethoven, dello Chopin, di Raffaello, di Leonardo, di Michelangelo, del Delaroche, non intendendo nulla dell’arte nuova, s’adattano di buon grado a considerarla come una mera follia, o come uno scherzo di cattivo gusto, e si volgono via da essa scrollando le spalle. Ma codesto è un atteggiamento ingiusto rispetto a quest’arte; perchè in primo luogo essa è avviata a estendersi sempre più, e s’è già conquistato nel mondo un posto uguale a quello che vi occupava il romanticismo nel 1830; e poi, perchè se condanniamo le opere dell’arte decadente solo perchè non le comprendiamo, dobbiamo pur pensare che c’è un gran numero di persone, tutti i lavoratori, e anche una gran parte delle classi più elevate, che non comprendono meglio le opere d’arte ritenute da noi le più belle, cioè le poesie del Goethe, dello Schiller, dell’Hugo, i romanzi del Dickens, la musica del Beethoven e dello Chopin, i quadri di Raffaello e di Leonardo da Vinci, le statue di Michelangelo, ecc.
Se ho il diritto di credere che la gran maggioranza degli uomini non capisce nè gusta codeste opere, per me così perfette, a cagione di scarso sviluppo intellettuale, non ho poi il diritto di negare che io possa non intendere e non gustare i prodotti dell’arte nuova unicamente a cagione della mia cultura insufficiente. Se io ho il diritto di dire che la mia impossibilità a comprendere le opere delle nuove scuole proviene dal non esservi nulla dì comprensibile, altri potrà dire con lo stesso diritto, che tutto ciò che io considero capolavori dell’arte, non è che arte cattiva, e incomprensìbile, perchè l’enorme massa del popolo non è in grado di comprenderci nulla.
Mi sono un giorno capacitato di quanto v’è d’ingiusto in questo mondo di condannare l’arte delle nuove scuole. E fu un giorno che udii un poeta, autore di versi incomprensibili, tempestare di sarcasmi la musica incomprensibile; e subito dopo incontrai un musicista, autore di sinfonie incomprensibili, che non rifiniva di sbeffeggiare i poeti incomprensibili. Non è giusto che condanniamo l’arte nuova fondandoci sul fatto che noi, uomini della prima metà del secolo, non l’intendiamo. Abbiamo solo diritto di dire che quest’arte è incomprensibile per noi. L’unica superiorità dell’arte che noi ammiriamo sull'arte dei decadenti sta in questo, che l’arte caldeggiata da noi è accessibile a un maggior numero di persone che non sia l’arte d’oggidì.
Da questo fatto che io mi trovo nell'impossibilità di comprendere un genere d’arte, perché sono avvezzo a un altro genere, non ho alcun diritto di conchiudere che il genere ammirato da me sia il solo vero, e che quello che io non intendo, sia falso e pervertito.
Da un fatto simile, solo questo io posso argomentare: che l’arte, facendosi sempre più esclusiva, è diventata sempre meno accessibile, e nel suo cammino verso l’inintelligibile, ha oltrepassato quel punto in cui mi trovavo io stesso.
Dacché l’arte delle classi superiori s’è staccata dall'arte popolare, sorse il convincimento che l’arte potesse restare sempre arte senza essere più intesa dalla moltitudine. E una volta ammesso quel principio, era prevedibile che a poco a poco l’arte non sarebbe più stata accessibile che a una piccola cerchia d’iniziati, e da ultimo solo a due o tre persone, anzi a una sola, all’artista creatore. E così parlano per l’appunto gli artisti moderni: “Io creo, e intendo me stesso; se qualcuno è inetto a capirmi, peggio per lui.„
Ma questa affermazione che l’arte può essere vera, e rimanere inaccessibile a un gran numero di persone, è perfettamente assurda, e le sue conseguenze sono disastrose per l’arte stessa; tuttavia è così comune e predominante tra di noi, che non s’insisterà mai di troppo sulla sua assurdità.
Il dire che un’opera d’arte è buona e cionondimeno incomprensibile alla maggior parte degli uomini, equivale a dire che un qualche alimento sia buono, ma che i più non possono mangiarlo. La maggior parte degli uomini può rifuggire dal cacio putrido, o dalla selvaggina verminosa, che sono leccornìe per la gente di gusto pervertito, ma il pane e le frutta non sono buoni, se non quando piacciono alla maggioranza. In arte è la stessa cosa. L’arte pervertita può non piacere alla maggioranza, ma l’arte buona deve piacere di necessità a tutti.
Dicono che per intendere le più eccelse opere d’arte occorra una preparazione speciale. Ebbene, se non si possono intendere naturalmente, ci saranno delle cognizioni atte a render l’uomo capace d’intenderle, suscettibili d’essere insegnate e spiegate. Ma in realtà non c’è nessuna cognizione di tal sorta, e ognuno sa che il valore delle opere d’arte non si può spiegare. Ci si ricanta bensì che per intendere quei capolavori occorre rileggerli, rivederli, riudirli senza stancarsi. Ma ciò non è spiegare, è solamente avvezzare. E gli uomini s’avvezzano a tutto, anche alle cose peggiori. Se sanno abituarsi alla carne putrida, all’acquavite, al tabacco, all’oppio, possono parimente abituarsi all’arte guasta; ed è quello che per l’appunto succede.
D’altra parte non si può affermare che la maggioranza degli uomini non abbia il gusto necessario per comprendere le manifestazioni più elevate dell’arte. La moltitudine ha sempre inteso, e continua a intendere ciò che anche noi riconosciamo per ottimo, per es., l’epopea della Genesi, le parabole del Vangelo, i racconti delle fate, le leggende e le canzoni popolari. Perchè dunque la moltitudine avrebbe perduto a un tratto questa attitudine naturale, e non saprebbe più intendere l’arte del tempo nostro?
Trattandosi d’una parlata, anche stupenda, possiamo ammettere che sia incomprensibile per quelli che ignorano la lingua in cui essa è pronunziata. Un discorso in cinese potrà essere splendido; ma se non conosco il cinese, non lo capirò di certo. Per contro un’opera d’arte si distingue da tutte le altre manifestazioni dello spirito in quanto il suo linguaggio è inteso da tutti, e tocca tutti indistintamente. Le lacrime e il riso d’un Cinese mi commuovono nè più nè meno che il pianto e il ridere d’un Russo; lo stesso vale per la pittura, per la musica, per la poesia, purchè quest’ultima sia tradotta in una lingua per me comprensibile. I canti d’un Kirghiso o d’un Giapponese faranno minore impressione su di me che non sopra un Kirghiso o un Giapponese, ma a ogni modo mi commuovono. Son tocco parimente dalla pittura giapponese, dall’architettura indiana, dalle novelle arabe. E se mi trovo meno sensibile d’un Giapponese o d’un Cinese alle loro canzoni e ai loro romanzi, ciò avviene non già perchè io non capisca l’arte loro, come troppo eccelsa, ma perchè conosco delle altre forme d’arte più elevate. I capolavori artistici non sono tali se non perchè sono intelligibili a ciascuno. La storia di Giuseppe voltata in cinese, commuove i Cinesi. Così noi siamo tocchi dal racconto della vita di Sakya-Muni. Perciò si conchiude che, se una forma d’arte non riesce a commuovere, ciò si deve imputare non a mancanza di gusto o d’intelletto nella gente, ma piuttosto al non essere quella arte vera, arte buona.
L’arte differisce dalle altre forme dell’attività mentale in questo: che può agire sugli uomini indipendentemente dal loro stato di sviluppo e di cultura, adescandoli con l’incanto dei colori, dei suoni, delle imagini. Anzi, ufficio essenziale dell’arte è di far sentire e capire ciò che sotto forma di ragionamento resterebbe inaccessibile ai più. Chi riceve una vera impressione artistica s’imagina d’aver già saputo quanto l’arte gli rivela, pur essendo incapace ad esprimerlo.
E tale fu sempre l’indole dell’arte buona e vera. L’Iliade, l’Odissea, le storie d’Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe, i canti del profeti ebrei, i Salmi, le parabole del Vangelo, la vita di Sakia-Muni (Budda), gl’inni vedici, esprimono sentimenti elevati, e ci sono pur tuttavia intelligibili, come lo furono molti secoli addietro a uomini meno civili ancora dei nostri contadini. Le chiese, e le imagini ch’esse contengono, non sono mai state incomprese da nessuno. L’ostacolo a capire i sentimenti più alti non risiede nella deficienza di svolgimento o di sapere, ma ben piuttosto in un falso progresso, e una scienza falsa. Un’opera d’arte buona ed elevata può riuscire anch’essa incomprensibile, ma non per il contadino, semplice e non ancora pervertito; quella sorta di persone intende tutto ciò che v’è di più alto; rischierà piuttosto di non essere intesa dalle menti che si pretendono affinate, e io dico pervertite, cioè prive d’ogni concetto serio della vita. Conosco delle persone che si credono coltissime, e dicono di non intendere la poesia della carità, o dell’abnegazione, o della castità.
Pertanto se l’arte del nostro tempo non è intesa dalla moltitudine non è già perchè sia troppo elevata, secondo l’affermazione prediletta degli artisti odierni. Diremo più a ragione che non è intesa perchè è arte cattiva, o non è arte affatto.
Attesochè il fine della opera d’arte sia quello d’esprimere dei sentimenti, chi può parlare in tal caso d’incomprensibilità? Un popolano, mettiamo, legge un libro, guarda un quadro, attende ad ascoltare un dramma o una sinfonia, e non prova nessun commovimento. Gli si dice che egli non può capire. Gli si promette uno spettacolo; egli entra e non vede nulla che valga. E allora gli si spiega che la sua vista non è ancora educata per gli spettacoli di quella fatta. Ma il nostro popolano sa di vederci molto bene; e se non vede quello che gli hanno promesso di mostrargli, argomenta con ragione che la promessa che gli fu fatta, non è stata mantenuta.
E il dire che un’arte determinata non produce alcun effetto sulle persone, perchè sono troppo ottuse, oltre a essere un grave eccesso di vanità, è un invertimento di parti, come se un malato invitasse un sano a mettersi a letto.
Voltaire diceva: “Sono buoni tutti i generi, eccetto il genere noioso.„ Più a ragione noi possiamo dire: “Sono buoni tutti i generi, eccetto quelli che non si capiscono, e non agiscono sul nostro animo„. Infatti che cosa mai può valere una cosa che fallisce nel generare quell’effetto per il quale fu prodotta?
Badate bene: se ammettete che l’arte possa esser arte e riuscire incomprensibile a uomini sani di mente, dovrete pure ammettere che nulla impedisce a un’accolta di persone pervertite di comporre delle opere esprimenti il loro sentire depravato, e intelligibili a loro soli, e di chiamarle arte, come fanno ora gli artisti decadenti.
L’evoluzione dell’arte nei tempi moderni si può paragonare a quello che avviene quando sopra un primo cerchio collocate dei cerchietti sempre più piccoli sinchè ne risulta un cono, la cui cima non è più un cerchio. Il paragone calza perfettamente all’arte moderna.