Cena de le ceneri/Proemiale epistola
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PROEMIALE EPISTOLA
SCRITTA
A L’ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO
SIGNOR DI MAUVISSIERO
cavaller de l’ordine del re, e consiglier del suo privato consiglio, capitano di cinquant’uomini d’arma, governator generale di S. Desiderio, ed ambasciator di Francia in Inghilterra. |
Or eccovi, signor, presente, non un convito nettareo de l’Altitonante, per una maestà; non un protoplastico, per una umana desolazione; non quel d’Assuero1, per un misterio; non di Lucullo, per una ricchezza; non di Licaone, per un sacrilegio; non di Tieste, per una tragedia; non di Tantalo, per un supplicio; non di Platone, per una filosofia; non di Diogene, per una miseria; non de le sanguisughe, per una bagattella; non d’un Arciprete di Pogliano, per una Bernesca; non d’un Bonifacio candelaio, per una comedia: ma un convito sì grande, sì picciolo, sì maestrale, sì disciplinale, sì sacrilego, sì religioso, sì allegro, sì colerico, sì aspro, sì giocondo, sì magro fiorentino, sì grasso bolognese, sì cinico, sì sardanapalesco, sì bagattelliero, sì serioso, sì grave, sì mattaccinesco, sì tragico, sì comico, che certo credo, che non vi sarà poca occasione da devenir eroico dismesso, maestro discepolo, credente miscredente, gaio triste, saturnino gioviale, leggiero ponderoso, canino liberale, Simico consulare, sofista con Aristotele, filosofo con Pitagora, ridente con Democrito, piangente con Eraclito. Voglio dire, dopo ch’arete odorato con i Peripatetici, mangiato con i Pitagorici, bevuto con li Stoici, potrete aver ancora da succhiare con quello, che, mostrando i denti, aveva un riso sì gentile, che con la bocca toccava l’una e l’altra orecchia. Perchè, rompendo l’ossa, e cavandone le midolla, trovarete cosa da far dissoluto san Colombino, patriarca de li Gesuati, far impetrar qualsivoglia mercato, smascellar le scimie, e romper silenzio a qualsivoglia cemiterio. Mi dimandarete: che simposio, che convito è questo? È una cena. Che cena? De le ceneri. Che vuol dir cena de le ceneri? Fu vi posto forse questo pasto innante? potrassi forse dir qua: Cinerem tanquam panem manducabam? No; ma è un convito, fatto dopo il tramontar del sole, nel primo giorno de la quarantana, detto da nostri preti dies cinerum, e talvolta giorno del memento. In che versa questo convito, questa cena? Non già in considerar l’animo e gli effetti del molto nobile e ben creato sig. Folco Grivello, a la cui onorata stanza si convenne; non circa gli onorati costumi di que’ signori civilissimi, che, per esser spettatori ed auditori, vi furono presenti; ma circa un voler veder quantunque può natura in far due fantastiche befane, doi sogni, due ombre, e due febbri quartane: del che mentre si va crivellando il senso istoriale, e poi si gusta e mastica, si tirano a proposito topografiche, altre geografiche, altre raziocinali, altre morali speculazioni, ancora altre metafisiche, altre matematiche, altre naturali.
Onde vedrete nel primo dialogo proposti in campo doi suggetti con la ragion de’ nomi loro, se la vorrete capire; secondo in grazia loro celebrata la scala del numero binario: terzo apportate le condizioni lodabili de la ritrovata e riparata filosofia; quarto mostrato, di quante lodi sia capace il Copernico; quinto postivi avanti li frutti de la nolana filosofia, con la differenza tra questo, e gli altri modi di filosofare.
Vedrete nel secondo dialogo prima la causa originale de la cena; secondo una descrizion di passi, e di passaggi, che più poetica e tropologica forse, che istoriale, sarà da tutti giudicata; secondo, come confusamente si precipita in una topografia morale, dove par che con gli occhi di Linceo quinci e quindi guardando, non troppo fermandosi, cosa per cosa, mentre fa il suo cammino; oltre che contempla le gran macchine, mi par che non sia minuzzarla, nè petruccia, nè sassetto, che non vi vada ad intoppare. Ed in ciò fa giusto com’un pittore, al qual non basta far il semplice ritratto de l’istoria, ma anco, per empir il quadro e conformarsi con l’arte a la natura, vi dipinge de le pietre, di monti, de gli arbori, di fonti, di fiumi, di colline; e vi fa veder qua un regio palagio, ivi una selva, là un straccio di cielo, in quel canto un mezzo sol che nasce, e da passo in passo un uccello, un porco, un cervio, un asino, un cavallo: mentre basta di questo far veder una testa, di quello un corno, de l’altro un quarto di dietro, di costui l’orecchie, di colui l’intiera descrizione, questo con un gesto, ed una mina, che non tiene quello e quell'altro, di sorte che con maggior satisfazione di chi rimira, e giudica, viene ad istoriar, come dicono, la figura. Così al proposito leggete, e vedrete quel, che voglio dire. Ultimo si conclude quel benedetto dialogo con l’esser giunto a la stanza, esser graziosamente accolto, e cerimoniosamente assiso a tavola.
Vedrete il terzo dialogo, secondo il numero de le proposte del dottor Nundinio, diviso in cinque parti, de le quali la prima versa circa la necessità de l’una e de l’altra lingua; la seconda esplica l’intenzione del Copernico, dona risoluzione d’un dubbio importantissimo circa li fenomeni celesti, mostra la vanità del studio di perspettivi ed ottici circa la determinazione de la quantità di corpi luminosi, e porge circa questo nuova, risoluta, e certissima dottrina; la terza mostra il modo de la consistenza di corpi mondani, e dichiara, essere infinita la mole de l’universo, e che in vano si cerca il centro, o la circonferenza del mondo universale, come fusse un de’ corpi particulari; la quarta afferma, esser conformi in materia questo mondo nostro, ch’è detto globo de la terra, con li mondi, che son li corpi de gli altri astri, e ch’è cosa da fanciulli aver creduto, e credere altrimenti; e che quei son tanti animali intellettuali, e che non meno in quelli vegetano, ed intendono molti ed innumerabili individui semplici, e composti, che veggiamo vivere e vegetar nel dorso di questo; la quinta per occasion d’un argomento, ch’apportò Nundinio al fine, mostra la vanità di due grandi persuasioni, con le quali e simili Aristotele ed altri sono stati acciecati sì, che non viddero, esser vero e necessario il moto de la terra, e son stati sì impediti, che non han possuto credere, quello esser possibile; il che facendosi, vengono discoperti molti secreti de la natura sin al presente occolti.
Avete nel principio del quarto dialogo mezzo per rispondere a tutte ragioni ed inconvenienti teologali, e per mostrar questa filosofia esser conforme a la vera teologia, e degna d’esser favorita dalle vere religioni. Nel resto vi si pone avanti uno, che non sapea nè disputar, nè dimandar a proposito; il quale per esser più impudente ed arrogante, pareva a li più ignoranti, più dotto, ch’il dottor Nundinio. Ma vedrete, che non basterebbono tutte le presse del mondo, per cavar una stilla di succhio dal suo dire, per prender materia di far dimandar Smitho, e rispondere il Teofilo, ma è affatto soggetto de le spampanate di Prudenzio, e de’ rovesci di Frulla. E certo mi rincresce, che quella parte vi si trovi.
S’aggiunge il quinto dialogo; vi giuro, non per altro rispetto, eccetto che per non conchiudere sì sterilemente la nostra cena. Qui primamente s’apporta la convenientissima disposizione di corpi ne l’eterea regione, mostrando, che quello, che si dice ottava spera, cielo de le fisse, non è si fattamente un cielo, che que’ corpi, ch’appaiono lucidi, siano equidistanti dal mezzo; ma che tali appaiono vicini, che son distanti di longhezza e latitudine l’uno da l’altro più che non possa essere l’uno e l’altro dal sole e da la terra: secondo, che non sono sette erranti corpi solamente, per tal cagione, che sette n’abbiamo compresi per tali, ma che per la medesima ragione sono altri innumerabili, quali da gli antichi, e veri filosofi non senza causa sono stati nomati Aethra, che vuol dire corridori2, per che essi son que’ corpi, che veramente si muovono, e non l’imaginate spere; terzo, che cotal moto procede da principio interno necessariamente, come da propria natura, ed anima; con la qual verità si distruggono molti sogni, tanto circa il moto attivo de la luna, sopra l’acque ed altre sorti d’umori, quanto circa l’altre cose naturali, che par che conoscano il principio di lor moto da efficiente esteriore. Quarto determina contra que’ dubbii, che procedono con la stoltissima ragione de la gravità e levità di corpi, e dimostra, ogni moto naturale accostarsi al circolare, o circa il proprio centro o circa qualch’altro mezzo. Quinto fa vedere, quanto sia necessario, che questa terra ed altri simili corpi si muovano non con una, ma con più differenze di moti, e che quelli non denno esser più, nè meno di quattro semplici, ben che concorrano in un composto; e dice, quali sieno questi moti ne la terra. Ultimo promette di aggiungere per altri dialoghi quel che par che manchi al compimento di questa filosofia, e conchiude con una adiurazione di Prudenzio.
Restarete maravigliato, come con tanta brevità e sufficienza s’espediscano sì gran cose. Or qua se vedrete talvolta certi men gravi propositi, che par che debbano temere di farsi innante a la superciliosa censura di Catone, non dubitate; perchè questi Catoni saranno molto ciechi e pazzi, se non sapran scuoprir quel ch’è ascosto sotto questi siseni. Se vi occorrono tanti e diversi propositi attaccati insieme, che non par che qua sia una scienza, ma dove sa di dialogo, dove di comedia, dove di tragedia, dove di poesia, dove d’oratoria, dove lauda, dove vitupera, dove dimostra ed insegna, dove ha or del fisico, or del matematico, or del morale, or del logico, in conclusione non è sorte di scienza, che non v’abbia di suoi stracci: considerate, signore, che il dialogo è istoriale, dove, mentre si riferiscono l’occasioni, i moti, i passaggi, i rincontri, i gesti, gli affetti, i discorsi, le proposte, le risposte, i propositi, ed i spropositi, rimettendo tutto sotto il rigore del giudizio di que’ quattro, non è cosa, che non vi possa venir a proposito con qualche ragione. Considerate ancora, che non v’è parola oziosa; perchè in tutte parti è da mietere, e da disotterrar cose di non mediocre importanza, e forse più là dove meno appare. Quanto a quello, che ne la superficie si presenta, quelli che n’han donato occasione di far il dialogo, e forse una satira, e comedia, han modo di divenir più circospetti, quando misurano gli uomini con quella verga, con la quale si misura il velluto, e con la lance di metalli bilanciano gli animi. Quelli, che saranno spettatori, o lettori, e che vedranno il modo, con cui altri son tocchi, hanno per farsi accorti ed imparar a l’altrui spese. Que’, che son feriti, o punti, apriranno forse gli occhi, e vedendo la sua povertà, nudità, indignità, se non per amore, per vergogna almeno si potran correggere, o coprire, se non vogliono confessare. Se vi par il nostro Teofilo e Frulla troppo grave e rigidamente toccare il dorso di alcuni suppositi, considerate, signor, che questi animali non han sì tenero il cuoio; chè, se le scorse fussero a cento doppia maggiori, non le stimarebbono punto, o sentirebbono più, che se fussero palpate d’una fanciulla. Nè vorrei, che mi stimaste degno di riprensione per quel, che sopra si fatte inezie e tanto indegno campo, che n’han porgiuto questi dottori, abbiamo voluto esagerar sì gravi, e sì degni propositi; perchè son certo, che sappiate, esser differenza da togliere una cosa per fundamento, e prenderla per occasione. I fondamenti in vero denno esser proporzionati a la grandezza, condizione, e nobiltà dell’edificio; ma l’occasioni possono essere di tutte sorte, per tutti effetti; perchè cose minime e sordide son semi di cose grandi ed eccellenti: sciocchezze e pazzie sogliono provocar gran consigli, giudizii, ed invenzioni. Lascio ch’è manifesto, che gli errori e delitti han molte volte porgiuta occasione a grandissime regole di giustizia e di bontade.
Se nel ritrarre vi par che i colori non rispondano perfettamente al vivo, e li delineamenti non vi parranno al tutto proprii, sappiate, ch’il difetto è provenuto da questo, che il pittore non ha possuto esaminar il ritratto con que’spazii e distanze, che soglion prendere i maestri de l’arte; perchè oltre che la tavola, o il campo era troppo vicino al volto e gli occhi, non si possea ritirar un minimo passo a dietro, o discostar da l’uno e l’altro canto, senza timor di far quel salto, che feo il figlio del famoso difensor di Troia. Pur tal qual’è, prendete questo ritratto, ove son que’ doi, que’ cento, que’ mille, que’ tutti; atteso che non vi si manda per informarvi di quel, che sapete, nè per giunger acqua al rapido fiume del vostro giudizio, ed ingegno; ma perchè so, che secondo l’ordinario, ben che conosciamo le cose più perfettamente al vivo, non sogliamo però dispregiar il ritratto, e la rappresentazion di quelle. Oltre che son certo, ch'il generoso animo vostro drizzarà l’occhio de la considerazion più a la gratitudine de l’affetto, con cui si dona, che al presente de la mano, che vi porge. Questo s’è drizzato a voi, che siete più vicino, e vi mostrate più propizio, e più favorevole al nostro Nolano, e però vi siete reso più degno supposito di nostri ossequii in questo clima, dove i mercanti senza coscienza e fede son facilmente Cresi, e li virtuosi senz’oro non son difficilmente Diogeni; a voi, che con tanta munificenza e liberalità avete accolto il Nolano al vostro tetto, e luogo più eminente di vostra casa; dove, se questo terreno, in vece che manda fuori mille torvi guantoni, producesse altri tanti Alessandri magni, vedreste più di cinquecento venir a corteggiar questo Diogene, il qual per grazia de le stelle non have altro, che voi, che gli venga a levar il sole, se pur, per non farlo più povero di quel cinico mascalzone, manda qualche diretto o riflesso raggio dentro quella buca, che sapete: a voi si consacra, che in questa Britannia rappresentate l’altezza di sì magnanimo, si grande, e si potente re, che dal generosissimo petto de l’Europa, con la voce de la sua fama fa rintronar gli estremi cardini de la terra; quello che, quando irato freme, come leon da l’alta spelonca, dona spaventi ed orrori mortali agli altri predatori potenti di queste selve, e quando si riposa e si quieta, manda tal vampo di liberale e di cortese amore, ch’infiamma il tropico vicino, scalda l’orsa gelata, e dissolve il rigor dell’artico deserto, che sotto l’eterna custodia del fiero Boote si raggira. Vale!