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10 i tempi di catullo.


Le memorande lotte fra patrizi e plebei, in cui la grandezza del fine rendea sopportabili i mezzi, tralignano in meschine guerre di brighe, d’insidie, di personalità indegne e volgari;1 il cittadino si pone in luogo dello Stato, il partito in vece della legge; licenza, non libertà; non generose battaglie di liberi, ma pettegolezzi e rappresaglie di schiavi; forza d’armi e di denaro su tutto: anarchia morale e politica.

Il governo di Roma era tutto municipale, fatto per una città, non per un impero; la sovranità del popolo non valicava il pomerio; la libertà, tutta al centro, la tirannìa tutta intorno; là estremamente liberi, qui eccessivamente schiavi.2 Le grandi conquiste rendeano necessarie le grandi riforme; non se n’ebbe mai davvero il coraggio: la repubblica romana avea la debolezza dei vecchi, laudatores temporis acti; il passato era il suo ideale; voleva vivere a uso degli antichi, more majorum. Aprite le porte di Roma, gridava Cesare, s’introduca tutto il mondo nella città; ma Catone era lì a dargli sulla voce, a chiuder le porte sul naso del mondo; a morder le gambe a chiunque. Catone era il passato; Cesare l’avvenire. Qualche concessione fu fatta, ma ora inopportuna, ora tarda, non mai generosa e completa. Si modificò, si rimendò, si rattoppò il vecchio; si traccheggiò con prudenza, quand’era mestieri operar con coraggio; si curò la cancrena, non si tagliò. Si concesse agli alleati il diritto di città, e si ferì al cuore l’aristocrazia, che vide scapparsi di

  1. Vie de César, liv. IV, chap. 3.
  2. Montesquieu, Esprit des lois, XI, 49.