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i tempi di catullo. 9



II.


Aguzziamo un poco lo sguardo, penetriamo al di là di questo splendore, rompiamo questa portentosa vernice.

Quella furia sanguinosa, di cui s’erano valsi gli Etruri per distruggere Roma,1 si giovò Cesare per soggiogare le Gallie, si dovea servire Augusto per arrivare all’impero,2 la discordia, che disunisce gli animi e rovina gli Stati, scorre pazzamente per la città; sconvolge ogni ordine di leggi e d’idee, conturba ogni ragione di cose, suscita invidie, fomenta rivalità, infiamma odii vecchi ed ambizioni nuove, agita i forti, aizza i deboli, scatena gli ardimentosi, travaglia e corrompe tutti. Da un lato un’aristocrazia straricca, oziosa, insolente; dall’altro una plebe prosuntuosa, arrogante, venale. La proprietà concentrata in pochi, la ricchezza malamente distribuita, l’ingens cupido agros continuandi, come Livio la chiama,3 la coltura affidata agli schiavi, distruggono a poco per volta quella classe di mezzo, anello necessario a congiungere gli estremi, che aveva dato a Roma l’impero di sè stessa e del mondo. La legge agraria è sempre là, tinta del sangue dei Gracchi, minacciosa e terribile fra le due schiere, spauracchio dei ricchi, speranza dei miseri, maschera degli ambiziosi, rovina della repubblica.4

  1. T. Livii, Hist. Rom.
  2. Taciti, Ann., lib. II.
  3. Lib. XXXIV, 4.
  4. Machiavelli, Discorsi, lib. I, 37.