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16 | i tempi di catullo. |
suna autorità che la forza; nessuna speranza nel domani: una sola battaglia può da un momento all’altro cangiare ogni cosa; il popolo vive alla giornata, non vuol darsi più pensiero di nulla.
Consoli, tribuni, agitatori di professione, arruffapopoli di mestieri si spaventano di questa generale stanchezza. Insieme al riposo avrete la servitù, grida M. E. Lepido ai Romani; insegnerete ai posteri come vi siate fatti vincere e soffocare nel proprio sangue.1 Io non so qual torpore v’ingombri, esclama Licino, tribuno della plebe, che nè gloria alcuna vi muove, nè ribalderia di sorta vi offende; giacete nell’ignavia a tutti i costi; credete esser liberi e padroni di voi, perchè non vi si frusta le spalle, e vi si permette accattare alla porta dei ricchi.2
Tutte voci al deserto; il popolo, come il Nerone d’Alfieri, vuole ciò che più gli manca: la pace. Come averla? Obliando. E dove trovar l’oblio di sè stesso? Nel piacere. Perduta l’idea del giusto, si perde anche quella del buono; non c’è leggi senza costumi, nè costumi senza leggi: l’ordine morale e l’ordine giuridico sono correlativi e coesistenti. Le molte leggi son sempre indizio di corrotti costumi, come i molti medici di molti malati. Le poche leggi decemvirali erano prima bastate ai Romani; valevano, dicea Crasso, assai più di tutte l’opere dei filosofi; si ricorse poscia ai plebisciti, ai senatoconsulti, agli editti, ai responsi, alle sentenze, alle tradizioni, alle consuetudini, a un visibilio di leggi: