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di voci lontane, tanto le soverchiava la furia del vento. Era una notte minacciosa; il mare mugghiava al lido, il tuono rumoreggiava nella gole dei monti.
Madonna Nicolosina, all’ora consueta delle altre sere, si ritirò nelle sue stanze. La Gilda, come portava l’ufficio, era andata a servirla nel suo spogliatoio, ma più rigida e più taciturna a gran pezza che le altre volte non fosse stata colla sua giovin signora.
Il broncio dell’ancella (quasi sarebbe inutile di dirlo) era cominciato dalla scoperta di una rivale, triste scoperta che ella avea fatta nella torre dell’Alfiere. Madonna Nicolosina, dal canto suo, vedendola così piena di cruccio, era stata in contegno, nè aveva cercato occasione di rompere il ghiaccio. Anche trovata da lei a colloquio col Bardineto, madonna Nicolosina si sentiva innocente e non voleva scendere alle prove colla sua cameriera. Così erano rimaste ambedue coll’amaro, l’una servendo a puntino, l’altra comandando con garbo, ambedue fredde e guardinghe.
Tale la Gilda all’aspetto; ma il cuore avea gonfio di sospiri e di lagrime. E s’era fatta innanzi, con un tal poco di sostenutezza, a vestir la padrona. Ma quando fu al punto di toglierle la sopravveste, la sua anima candida non seppe più contenersi, e la poveretta diede in uno scoppio di pianto.
— Madonna! — gridò tra i singhiozzi che le facean nodo alla gola, — Madonna, ve ne prego, concedetemi una grazia!
— Che cosa? — domandò Nicolosina, voltandosi stupefatta a guardare l’ancella.
— Non dormite in questa camera! — proseguì con accento supplichevole la Gilda.