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Con queste parole fu congedato mastro Bernardo, che uscì poco stante dal castello, scavalcato a sua volta dalla Gilda, com’egli avea scavalcato il Maso, e senza capire una maledetta dei disegni della sua bella nipote.

La quale, poichè fu partito lo zio, non si mosse altrimenti dalla sua camera. Muta, immobile, attonita, come chi, per malvagità di possenti e implacati nemici, o per cieco volere del caso, si veda di balzo gettato nel fondo di ogni miseria e sappia pur troppo che ogni scampo gli è chiuso, la misera donna rimase là, contro la finestra della sua camera, a cui s’era affacciata per veder scendere lo zio giù dai tortuosi sentieri del castello. Rimase là, coi gomiti appoggiati sul davanzale di pietra, il volto nelle palme, gli occhi torbidi e fisi di rincontro a sè, sulla roccia dell’Aurera, salutata allora dagli ultimi raggi pallidi d’un sole di febbraio, non curando il freddo rovaio che già cominciava a soffiare dalle gole di Rialto, addensando in aria negri e minacciosi drappelli di nuvole.

Niente guardava la Gilda, di niente si avvedeva, niente sentiva da fuori; le forze tutte dell’anima sua s’erano concentrate in un pensiero, l’infamia di Giacomo Pico. Imperocchè, ella avea pure inteso il disegno di lui, per mezzo ai pochi cenni recati da suo zio. Il colpo che si tentava era di dare il castello in mano ai nemici, d’impadronirsi di madonna Nicolosina, di uccidere il Cascherano. Quest’ultima parte del disegno di Giacomo Pico doveva andargli fallita, poichè il conte di Osasco, quel giorno medesimo era disceso nel Borgo, per custodire co’ suoi uomini la porta di san Biagio; ma questa assenza non tornava forse a