Cara Speranza/Suor Maria/V

Suor Maria

V

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V.


Quella mattina che era uscito solo dalla sua casa, Carlo, dopo aver dette e ripetute nella chiesa parrocchiale tutte le preghiere che sapeva, s’avviò per la strada di Circonvallazione, ruminando i suoi rancori contro la Margherita.

Se avesse potuto non tornar più in casa se non quando ci tornerebbe il nonno!

Gli avevano detto la sera innanzi che mancavano due giorni a Natale. Si studiava di calcolare quanto poteva esserci di meno dopo quella notte trascorsa. Ad ogni modo poteva esser poco; e pensava:

— Appena sarà Natale andrò all’ospedale a prendere il nonno. La monaca ha detto che il Bambino lo farà guarire, [p. 111 modifica]Torneremo a casa insieme, faremo il nostro pranzo, e saremo contenti come prima.

Ma intanto cominciava ad aver fame, e, malgrado la sua ostilità contro la Margherita, la buona scodella di polenta che doveva esserci sulla tavola a quell’ora, lo consigliava a tornare verso casa.

Era appunto in quella perplessità, quando si sentì urtare, e riconobbe un suo compagno, che aveva frequentata la scuola in novembre, e poi era scomparso.

— Perchè non vieni più a scuola? domandò Carlo.

— Siamo andati ad abitare fuori di Porta Romana, e vado alle scuole di laggiù.

Carlo gli narrò i casi suoi, ed il suo desiderio di non restituirsi a domicilio prima di Natale, per aspettare il nonno.

— Non so dove stare intanto, concluse un po’ scoraggiato. [p. 112 modifica]

— Vieni a casa mia, propose ospitalmente il compagno. Mio padre lavora fuori di Milano, e torna a casa soltanto la sera del sabato. Domani sera verrà perchè è la vigilia di Natale; ma oggi non c’è.

— E la tua mamma? domandò Carlo, a cui la Margherita aveva destato in cuore una grande paura delle massaie.

— La mia mamma va a servire in città, e sta fuori anche lei tutto il giorno.

— Ma io ho fame; osservò il piccolo fuggiasco impensierito.

— Quando saremo a casa ti darò metà della mia colazione: poi giocheremo tutto il giorno, e vedremo passare il tram, e andremo alla Certosa di Chiaravalle, dove si sale sul campanile per una scaletta in aria, che fa paura, ed è facile cader giù...

Carlo seguì il compagno, sedotto da [p. 113 modifica]quella prospettiva; ed i fanciulli passarono delle buone ore insieme.

Ma quando cominciò a farsi buio, si trovarono imbarazzati. La mamma stava per tornare, e pare che non fosse molto indulgente, perchè il suo figliolo si metteva in grave pensiero.

— Se ti vede qui mi sgrida; diceva.

D’altra parte Carlo, dopo essere stato assente tutta la giornata, si sentiva meno disposto che mai a riaffrontare solo la Margherita: e le strade buie gli mettevano paura.

A lungo pensare, il suo ospite trovò un ripiego: in fondo al casamento c’era un piccolo fienile.

— Dormirai nel fieno, disse a Carlo. È bello, sai! Ora ti rimpiatti lassù; ed appena avrò la mia minestra, salirò anch’io e mangeremo insieme. La mamma non s’accorgerà di nulla. [p. 114 modifica]

La cosa andò benissimo. Carlo s’addormentò, o quasi, prima che il suo compagno lo lasciasse, e tirò via a dormire fino al mattino. L’altro, che si divertiva di quella novità d’aver un ospite, e che desiderava di farlo sgattaiolare prima che il padrone del fienile potesse scoprirlo e denunciarlo alla sua mamma, era già accanto all’amico quando questi si destò.

Lo fece scendere subito, e traverso i campi, lo ricondusse sulla strada, dividendo con lui un pezzo di polenta fredda ed una cipolla, che sua madre gli aveva dato per colazione. Prima di lasciar Carlo, gli disse:

— Vai sempre dritto: poi volta a destra e troverai l’ospedale. Oggi è la vigilia di Natale, ti lasceranno entrare. Dacchè il tuo nonno deve uscire domani, è segno che sta bene, e potrà anche venire con te questa sera. [p. 115 modifica]

Carlo approvò quel facile accomodamento, e s’avviò col cuore leggero. Ma, appena ebbe passato il dazio, ricominciarono le difficoltà. Quando doveva voltare a destra? Alla prima contrada? Alla seconda?

Per non sbagliare, voltò alla prima; prese i bastioni, ed arrivò fino a Porta Venezia. Ma non s’imbattè in nessuna costruzione che gli ricordasse l’ospedale. Allora entrò in città, e si diede a camminare di su, di giù, distraendosi a guardare le botteghe, poi ripigliando la sua strada, poi fermandosi di nuovo.

Forse in quei lunghi giri e rigiri passò anche dinanzi all’ospedale; ma non lo riconobbe.

Avrebbe voluto domandare a qualcuno dov’era, ma non osava, e camminava sempre, pensando che finirebbe per arrivarci. [p. 116 modifica]

Nelle prime ore del pomeriggio si trovò in piazza Cavour, all’ingresso dei giardini pubblici. Andò fino al laghetto a vedere le anatre, poi più in giù alla grande gabbia degli uccelli, poi tornò indietro, e si fermò allo steccato, in cui s’aggiravano melanconicamente due cervi freddolosi.

Addossati alle sbarre, parecchi bambini eleganti ben ravvoltolati nelle pelliccie, porgevano delle chicche ai cervi, mentre le bambinaie discorrevano coi loro conoscenti.

Un bambinello tutto vestito di bianco, che si reggeva appena, non riesciva, per quanto allungasse il braccino minuscolo, ad attirare l’attenzione d’un cervo sul suo pezzo di chicca. Carlo aveva fame, prese pian piano dalla manina del bimbo quel dono trascurato dall’animale, e si pose a mangiarlo. [p. 117 modifica]

L’infante rimase stupefatto a guardarlo coi ditini stesi nel suo guanto bianco; aperse la bocca come per piangere; poi gli venne un’idea più amena. Prese il resto della chicca che aveva nell’altra mano, e cominciò a mangiare anche lui, sorridendo a Carlo con aria d’intelligenza.

Più tardi cominciò a cadere un nevischio gelido; scese la nebbia. Carlo aveva ripreso ad errare per le contrade, ma il freddo gli penetrava nelle ossa.

Avvezzo dal nonno a tutte le agiatezze, quell’umidità che gli gelava i panni addosso, gli dava noia.

Si trovava in piazza del Duomo. Pensò che quel giorno non aveva pregato, e che per questo non gli riusciva di trovar l’ospedale.

Entrò in chiesa.

Era un po’ assonnato; non si rendeva ben conto di quanto farebbe dopo. [p. 118 modifica]

S’andò a rannicchiare in un angolo buio, nell’ultima cappella a sinistra che era in riparazione. C’erano ponti da tutti i lati, travi, tele distese, materiali da lavoro. Ma in quell’ora i lavori erano sospesi, ed il fanciullo si trovò isolato nella massima tranquillità.

L’atmosfera interna era tepida; regnava una penombra scura, ma, lungo le navate, un rumore incessante di passi, faceva sentire che c’era molta gente in chiesa, e rassicurava il bambino. Da lontano, nel coro, s’udiva un salmeggiare monotono che conciliava il sonno.

Carlo, stanco, assiderato, non potè sostenere a lungo l’attenzione alla preghiera; chinò il capo verso la parete, e s’addormentò.

Fu risvegliato molte ore dopo, da una molestia allo stomaco. Non era un dolore. Era uno stiramento, una nausea. Aveva fame. [p. 119 modifica]

Chiamò due o tre volte il nonno; era il nome che gli veniva alle labbra ogni giorno al primo destarsi, dacchè sapeva parlare. Ma non udì la buona voce del vecchio, e si ricordò vagamente la sua storia dolorosa.

Stese le braccia, e sentì che non era in letto. Si rizzò ingranchito, confuso; fece alcuni passi, ed urtò negli attrezzi degli operai che ingombravano la cappella. Non sapeva più dove fosse.

Si pose a camminare a tentoni nell’oscurità, urtando ad ogni tratto, scansando un intoppo, impigliandosi in un altro; tremava tutto; piagnucolava, ancora istupidito dal sonno. Finalmente non incontrò più ostacoli, non trovò più appoggio da nessun lato, si sentì solo, smarrito, nelle tenebre infinite, nel silenzio pauroso.

Atterrito cominciò a chiamare stril[p. 120 modifica]lando; e le vôlte immense ripeterono le sue grida con un suono cavernoso, che veniva da lontano, si ripercoteva, si frangeva, si prolungava, e moriva lentamente nel buio e nel silenzio di tomba. Allora la paura invase la mente del fanciullo come un delirio. Egli si pose a correre nell’oscurità, urlando, strillando, disperato, pazzo di terrore.