Canti dell'ora/VI. Poemetti guerreschi/Alla madre del poeta
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ALLA MADRE DEL POETA
«E tu cantasti già qualche canzone |
Madre, sorridi. Non è un sogno. Ascolta:
leva nel sole la tua bianca testa
3e sorridi. Non è come altra volta,
oggi, no, quando a la tua casa mesta
vàgolo in rime callide e leggiadre
un suo pensier lieve illudea. No, questa
che vien squillando a mattinar le squadre,
su l’alba grigia limpida diana,
9è la sua voce, la sua voce, o madre!
La sempre invitta, l’unica sovrana,
che gli ozi ignora e sa tutte le prede,
12impetuosa come la fiumana.
È la sua voce che improvvisa riede
qual non fu mai sì piena e sì possente,
15vergin d’insanie, indomita di fede.
Porgi le braccia a lui benedicente
senza un sospiro per la sua pressura
18che quest’ora di gloria gli consente.
Ne l’erma landa, ove grandeggia e dura
le asprezze note a chi provò l’esiglio,
21ei vide, Italia, ’l mare e la pianura
a l’anima fiammar il tuo vermiglio.
La tua Vittoria egli sentì presente:
24e a’ piedi le gettò, verace figlio,
i lauri, orgoglio del suo cuore ardente.
Rutilo in gemme sì com’ei lo scalpe
27scintilla il verso; e la percossa gente
volgesi al lume raggiante d’oltralpe,
prodigioso pur anche a coloro
30che sopra gli occhi avean pelle di talpe.
Fu il segno, fu l’appello, fu il ristoro.
Ecco, da i monti fino a la marina
33è tutta l’aria un palpito sonoro.
Chi si desta presago, e chi cammina
alacre, conscio il dissueto spirto
36come d’una rinascita divina,
maravigliando: — Fino a ier fu irto
di geli ’l cammin nostro, aspro di rovi;
39or lo allieta la rosa e abbella il mirto!
Godemmo il serpe stuzzicar ne’ covi,
e le volpi aggiogar, plaudendo a Mevio;
42or non è senso in noi che non s’innovi! —
Chi potè dire: il verno arido abbrevio
e la tristizia e la stoltezza? l’onta
45del gioire il deforme, o ciechi, allevio?
Sol quei che il mondo più di luce impronta,
titanio efebo da le molte vite,
48e con la morte vincitor s’affronta.
O anime nel tedio svigorite,
o petti senz’amore e senza ira,
51o rede di Belacqua, aprite aprite
le mute chiostre all’Unico che attira
i raccesi disii con la sua foga
54ne l’alto sempre, pur quando delira.
Liberatore è il vate. Egli disgioga
l’età mal vive, cui ottunde e preme
57l’indifferenza, che ogni possa affoga.
Ei frange al varco le barriere estreme
del vero, e salde edifica le mura
60ai dominii del sogno. Ei getta il seme
nel campo per la nuova mietitura,
onde s’allegra in sua virtù ferace
63la terra che odorò di sepoltura.
Ei precorre con l’ala e con la face
i secoli, eternando la favilla
66sempre più alto ardente e più vivace.
O giorni che il crepuscolo sigilla
di silenzio e d’oblìo, quando l’ardore
69del sacrifizio in cor più non assilla!
O vedove contrade, poi che il fiore
eletto a coronare, il nembo sperde,
72la nobiltà del popolo e il valore!
Del canto che fioriva l’età verde
rimembrando il miracolo qual era
75la mente mia per poco non si perde.
L’ingenuo costume e l’indol fiera
nel sangue armonioso una tenzone
78rendeano qual di luci a primavera.
Canto eran l’armi e la religione,
canto gli amori e canto le contese,
81e l’anima correa su la canzone.
Indi ’l nodo primiero al bel paese
d’una patria ideal, clamata indarno,
84la Lauda incorava e il Serventese.
E al popolo, che il nobil verso scarno
di sè nudrìa, le rime andavan come
87dal Casentino i ruscelletti in Arno,
tutto agitando: le sue forze indome,
le gioie sue, le visioni sante,
90e i flagelli e i dolori senza nome.
Fu poeta il notaro, il mercatante,
l’uom d’armi; e il sangue cittadino scrisse
93l’acre invettiva, che sì piacque a Dante.
Perchè il genio latin mai non perisse,
Italia e poesia nacquero insieme;
96nè indi l’una senza l’altra visse.
Oh come scialbe e di grandezza sceme
tramontano l’età cui la civile
99oda non spira e marzio ardir non freme!
Ma la patria che il braccio usa virile
s’infutura nel suo carme vetusto
102che sempre aulisce di recente aprile.
Romano è il carme; di cimenti onusto
e di trofei, che ancor domina ’l mondo
105folgorando con l’aquile d’Augusto.
Ascendea, novo sole, dal profondo
silenzio a ravvivare in chiaritade
108l’orme di dieci secoli fecondo.
E il sonito de l’aste e de le spade
era ne’ ritmi, ’l grido de gli eroi,
111la forza, il dritto e l’incolpata clade.
Polvere il resto. Ei varca l’ombre, e poi
ch’è giunta l’ora, epico messaggio,
114assale il vate co’ fulgori suoi.
Spirito insonne, se de’ cieli un raggio
ti affranca, rendi rendi a l’avvenire
117di civiltà quest’inclito retaggio.
E mentre i corpi esercita a perire,
àlea nostra, la cava, il bruto ordegno,
120l’attoscato sudor, drizza le mire
al Divino, che ovunque inciela un segno
di milizia la vita, aspira ed alia.
123Già te conclama e aspetta a questo regno
l’altra tua madre vigile, l’Italia.