Cabala del cavallo Pegaseo con l'aggiunta dell'Asino Cillenico/Dialogo secondo/III
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Dialogo secondo
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III.
- Seb.
- Soprassediamo circa questo per ora, e venemo a sentir il vostro parere circa la questione, qual ieri fu mossa tra me e Saulino qua presente, il quale referisce l’opinion d’alcune sette, le quali vogliono, non esser scienza alcuna appo noi.
- Saul.
- Feci a certa bastanza aperto, che sotto l’eminenza de la verità non abbiam noi cosa più eminente, che l’ignoranza ed asinitade. Per ciò che questa è il mezzo, per cui la Sofia si congionge e si domestica con essa, e non è altra virtude, che sia capace ad aver la stanza gionta muro a muro con quella. Atteso che l’umano intelletto ha qualche accesso a la verità; il quale accesso, se non è per la scienza e cognizione, necessariamente bisogna, che sia per l’ignoranza ed asinità.
- Cor.
- Nego sequelam.
- Saul.
- La conseguenza è manifesta da quel, che ne l’intelletto razionale non è mezzo tra l’ignoranza e scienza; per che bisogna, che vi sia l’una di due, essendo doi oppositi circa tal suggetto, come privazione ed abito.
- Cor.
- Quid de assumptione, sive antecedente?
- Saul.
- Quella, come dissi, è messa avanti da tanti famosissimi filosofi e teologi.
- Cor.
- Debilissimo è l’argumento ab humana auctoritate.
- Saul.
- Cotali asserzioni non son senza demostrativi discorsi.
- Seb.
- Dunque, se tal opinione è vera, è vera per demostrazione; la demostrazione è un sillogismo scientifico; dunque secondo quei medesimi, che negano la scienza ed apprension di verità, viene ad esser posta l’apprension di verità e discorso scienziale, e conseguentemente sono dal suo medesimo senso e parole redarguiti. Giongo a questo che, se non si sa verità alcuna, essi medesimi non sanno quel che dicono, e non possono esser certi, se parlano o ragghiano, se son uomini o asini.
- Saul.
- La risoluzion di questo la potrete attendere da quel che vi farò udire a presso; per che prima fia mestiero intendere la cosa, e poi il modo e maniera di quella.
- Cor.
- Bene. Modus enim rei rem praesupponat oportet.
- Seb.
- Or fatene intendere le cose con quell’ordine, che vi piace!
- Saul.
- Farò. Son trovati tra le sette de’ filosofi alcuni nomati generalmente Academici, e più propriamente Scettici, o ver Efettici, li quali dubitavano determinar di cosa veruna, bandiro ogni enunciazione, non osavano affirmare o negare, ma si faceano chiamare inquisitori, investigatori e scrutatori de le cose.
- Seb.
- Per che queste vane bestie inquirevano, investigavano e scrutavano senza speranza di ritrovar cosa alcuna? Or questi son di quei, che s’affaticano senza proposito.
- Cor.
- Per far bugiarda quella vulgata sentenza: Omne agens est propter finem. Ma, aedepol, mehercle, io mi persuado, che come Onorio ha dependenza da l’influsso de l’asino pegaseo, o pur è il Pegaso istesso, talmente cotai filosofi sieno stati le Belide istesse, se al meno quelle non l’influivano nel capo.
- Saul.
- Lasciatemi compire! Or costoro non porgean fede a quel che vedeano, nè a quel ch’udivano: per che stimavano la verità cosa confusa ed incomprensibile, e posta ne la natura e composizione d’ogni varietà, diversità e contrarietà, ogni cosa essere una mistura, nulla constar di sè, niente esser di propria natura e virtude, e gli oggetti presentarsi a le potenze apprensive non in quella maniera, con cui sono in sè medesimi, ma secondo la relazione, ch’acquistano per le lor specie, che in certo modo partendosi da questa e quella materia, vegnono a giuntarsi e crear nuove forme ne li nostri sensi.
- Seb.
- Oh in verità, costoro con non troppa fatica in pochissimo tempo possono esser filosofi, e mostrarsi più savi de gli altri!
- Saul.
- A questi successero li Pirroni, molto più scarsi in donar fede al proprio senso ed intelletto, che gli Efettici; per che, dove quelli altri credeno aver compresa qualche cosa, ed esser fatti partecipi di qualche giudizio, per aver informazion di questa verità, cioè, che cosa alcuna non può esser compresa nè determinata, questi anco di cotal giudizio si stimaro privi, dicendo, che nè men possono esser certi di questo, cioè, che cosa alcuna non si possa determinare.
- Seb.
- Guardate l’industria di quest’altra academia, ch’avendo visto il modello de l’ingegno, e notato l’industria di quella, che con facilità ed atto di poltronaria volea dar de’ calci, per versar a terra l’altre filosofie, essa armata di maggior pecoraggine con giongere un poco più di sale de la sua insipidezza, vuol donar la spinta ed a quelle tutte ed a cotesta insieme, con farsi tanto più savia di tutte generalmente, quanto con manco spesa e lambiccamento di cervello in essa s’intogano ed addottorano. Via, via, andiam più oltre! Or che debbo far io, essendo ambizioso di formar nuova setta, e parer più savio di tutti, e di costoro ancora, che sono oltre li tutti? Farò qua un terzo tabernaculo, piantarò un’academia più dotta, con stringermi alquanto la cintura? Ma vorrò forse tanto raffrenar la voce con gli Efettici, e stringere il fiato con li Pirroni, che per me poi non esali spirito e crepi?
- Saul.
- Che volete dir per questo?
- Seb.
- Questi poltroni, per scampar la fatica di dar ragioni delle cose, e per non accusar la loro inerzia, ed invidia, ch’hanno a l’industria altrui, volendo parer migliori, e non bastandoli d’occultar la propria viltade, non possendoli passar avanti, nè correre al pari, nè aver modo di far qualche cosa del suo, per non pregiudicar a la lor vana presunzione, confessando l’imbecillità del proprio ingegno, grossezza di senso, e privazion d’intelletto, e per far parer gli altri senza lume di giudizio de la propria cecitade, donano la colpa a la natura, a le cose, che mal si rappresentano, e non principalmente a la mala apprensione de li dogmatici; per che con questo modo di procedere sarebbono stati costretti di porre in campo al paragone la lor buona apprensione, la quale avesse parturito miglior fede, dopo aver generato miglior concetto ne gli animi di quei, che si dilettano de le contemplazioni di cose naturali. Or dunque essi, volendo con minor fatica ed intelletto, e manco rischio di perdere il credito, parer più savi che gli altri, dissero gli Efettici, che nulla si può determinare, per che nulla si conosce: onde quelli, che stimano d’intendere, e parlano assertivamente, delirano più in grosso, che quei, che non intendeno e non parlano. Li secondi poi, detti Pirroni, per parer essi arcisapienti, dissero, che nè tampoco questo si può intendere, il che si credeano intendere gli Efettici, che cosa alcuna non possa esser determinata o conosciuta. Si che, dove gli Efettici intesero, che gli altri, che pensavano d’intendere, non intendevano, ora li Pirroni intesero, che gli Efettici non intendevano, se gli altri, che si pensavano d’intendere, intendessero o no. Or quel che ne resta per giongere di vantaggio a la sapienza di costoro, è, che noi sappiamo, che li Pirroni non sapevano, che gli Efettici non sapevano, che li dogmatici, che pensavano di sapere, non sapevano, e così con agevolezza sempre più e più vegna a prendere aumento questa nobil scala di filosofie, sin tanto, che demostrativamente si conchiuda, l’ultimo grado de la somma filosofia ed ottima contemplazione essere di quei, che non solamente non affermano, nè niegano di sapere o ignorare, ma nè manco possono affirmare, nè negare; di sorte, che gli asini sono li più divini animali, e l’asinitade sua sorella è la compagna e secretaria de la veritade.
- Saul.
- Se questo, che dici improperativamente ed in colera, lo dicessi da buon senno ed assertivamente, direi, che la vostra deduzione è eccellentissima ed egregiamente divina, e che sei pervenuto a quel scopo, al quale tanti dogmatici e tanti academici hanno concorso, con rimanerti di gran lunga a dietro tanti quanti sono.
- Seb.
- Vi priego, poi che siamo venuti sin a questo, che mi facciate intendere, con qual persuasione gli Academici niegano la possibilità di detta apprensione.
- Saul.
- Questa vorrei che ne fosse riferita da Onorio, per ciò che, per esser egli stato in ipostasi di si molti e gran notomisti de le viscere de la natura, non è fuor di ragione, che tal volta si sia trovato Academico.
- Onor.
- Anzi, io son stato quel Senofane colofonio, che disse, in tutte e di tutte le cose non esser altro che opinione. Ma lasciando ora que’ miei propri pensieri da canto, dico circa il proposito, esser ragion trita quella de’ Pirroni, li quali dicevano, che, per apprendere la verità, bisogna la dottrina, e per mettere in effetto la dottrina, è necessario quel che insegna, quel ch’è insegnato, e la cosa la quale è per insegnarsi, cioè il mastro, il discepolo, l’arte: ma di queste tre non è cosa, che si trove in effetto; dunque non è dottrina, e non è apprension di veritade.
- Seb.
- Con qual ragione dicono prima, non esser cosa, di cui sia dottrina o disciplina?
- Onor.
- Con questa. Quella cosa, dicono, o devrà esser vera, o falsa. S’è falsa, non può essere insegnata, per che del falso non può esser dottrina nè disciplina: atteso che a quel che non è, non può accader cosa alcuna, e per ciò non può accader anco d’esser insegnato. S’è vera, non può pure più che tanto essere insegnata: per che o è cosa, la quale egualmente appare a tutti, e così di lei non può esser dottrina, e per conseguenza non può esserne alcun dottore, come nè del bianco, che sia bianco, del cavallo, che sia cavallo, de l’arbore, che sia arbore; o è cosa, che altrimenti ed inegualmente ad altri ed altri appare, e così in sè non può aver altro che opinabilità, e sopra lei non si può formar altro che opinione. Oltre, s’è vero quel che deve essere insegnato e notificato, bisogna che sia insegnato per qualche causa o mezzo; la qual causa e mezzo o bisogna, che sia occolta, o conosciuta. S’ella è occolta, non può notificar altro. Se la è conosciuta è necessario, che sia per causa o mezzo; e così oltre ed oltre procedendo, verremo ad accorgerci, che non si gionge al principio di scienza, se ogni scienza è per causa. Oltre, dicono, essendo che de le cose, che sono, altre sieno corpi, altre incorporali, bisogna, che di cose, quai vegnono insegnate, altre appartegnano a l’uno, altre a l’altro geno. Or il corpo non può esser insegnato, per ciò che non può esser sotto giudizio di senso, nè d’intelletto. Non certo a giudizio di senso; stante che, secondo tutte le dottrine e sette, il corpo consta di più dimensioni, ragioni, differenze e circostanze, e non solamente non è un definito accidente, per esser cosa obiettabile a un senso particolare, o al comune, ma è una composizione e congregazione di proprietadi ed individui innumerabili. E concesso, se così piace, ch’il corpo sia cosa sensibile, non per questo sarà cosa da dottrina o disciplina, per che non bisogna, che vi si trove il discepolo ed il maestro, per far sapere, ch’il bianco è bianco, ed il caldo è caldo. Non può essere anco il corpo sotto il giudizio d’intelligenza, per che è assai conceduto a presso tutti dogmatici ed Academiei, che l’oggetto de l’intelletto non può esser altro che cosa incorporea. Da qua s’inferisce secondariamente, che non può essere chi insegne, nè terzo, che possa essere insegnato; per che, come è veduto, questo non ha che apprendere o concipere, e quello non ha che insegnare ed imprimere. Giongono un’altra ragione. Se avvien, che s’insegne, o uno senz’arte insegna un altro senz’arte; e questo non è possibile, per che non men l’uno che l’altro ha bisogno d’essere insegnato; o un artista insegna un altro artista; e ciò verrebbe ad essere una baia, per che nè l’uno nè l’altro ha mestiero del mastro; o quello, che non sa, insegna colui, che sa; e questo verrebbe ad essere, come se un cieco volesse guidare colui, che vede. Se nessuno di questi modi è possibile, rimarrà dunque, che quel che sa, insegne colui, che non sa, o ciò è più inconveniente, che tutto quel che si può imaginare in ciascuno de gli altri tre modi di fingere; per che quello, ch’è senz’arte, non può esser fatto artefice, quando non ha l’arte, atteso che accaderia, che potesse esser artefice, quando non è artefice. Oltre che costui è simile ad un nato sordo e cieco, il qual mai può venire ad aver pensiero di voci e di colori. Lascio quel che si dice nel Mennone con l’esempio del servo fuggitivo, il qual, fatto presente, non può esser conosciuto che sia lui, se non era noto prima. Onde vogliono per ugual e medesima ragione non posser esser nova scienza o dottrina di specie conoscibili, ma una ricordanza. Nè tampoco può esser fatto artefice, quando ha l’arte; per che allora non si può dir, che si faccia o possa esser fatto artefice, ma che sia artefice.
- Seb.
- Che pare a voi, Onorio, di queste ragioni?
- Onor.
- Dico, che in esaminar cotai discorsi non sia mistiero d’intrattenerci. Basta che dico esser buoni, come certe erbe son buone per certi gusti.
- Seb.
- Ma vorrei saper da Saulino, che magnifica tanto l’asinitade, quanto non può esser magnificata la scienza e speculazione, dottrina e disciplina alcuna, se l’asinitade può aver luogo in altri che ne gli asini, come è dire, se alcuno da quel che non era asino, possa doventar asino per dottrina e disciplina? Per che bisogna, che di questi quel, che insegna, o quel, ch’è insegnato, o così l’uno come l’altro, o nè l’uno nè l’altro, siano asini. Dico, se sarà asino quello solo, che insegna, o quel solo, ch’è insegnato, o nè quello nè questo, o questo e quello insieme? Per che qua col medesimo ordine si può vedere, che in nessun modo si possa inasinire. Dunque de l’asinitade non può essere apprension alcuna, come non è d’arti e di scienze.
- Onor.
- Di questo ne ragionaremo a tavola dopo cena.
Andiamo dunque ch’è ora.
- Cor.
- Propere eamus!
- Saul.
- Su!