Bizzarrie/Generosità singolare, ossia la specola d'un cieco
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GENEROSITÀ SINGOLARE
OSSIA
LA SPECOLA D’UN CIECO
Traversando, giorni sono, una strada a poche miglia dalla laguna, vidi una fabbrichetta condotta con qualche gusto, e sormontata da alcun che di somigliante ad un pulpito, cui si ascendeva per una scala; ed udii quella essere una specie di specola che il padrone vi avea fatto fare di suo capriccio. — Sarà molto amico questo signore, soggiunsi, delle belle viste. — Se molto o poco, mi fu risposto, non saprei dirlo con certezza; so bene che il padrone di quella casa ha la disgrazia di essere cieco. — Cieco, ripresi, e fabbrica specole a sommo il tetto che sembrano campanili? — Chi mi aveva risposto si strinse nelle spalle, e senza curarsi di giustificare il gusto bizzarro di quel signore, si contentò di raccontarmi che non solo in quel silo, ma in ogni altro ov’egli possedeva alcuna casa vedevasi sempre quella medesima stravaganza.
Mi posi allora a pensare: strano egli è veramente il gusto di un cieco che fabbrica specole, ma di questa guisa dì stravaganze non abbiamo esempi continui presso che in tutti gli uomini? Sono pochi quelli che non sapendo leggere comperano libri? Che, giunti ad età decrepita, pigliano moglie? Che con voce rauca ripetono tutte le ariette alla moda? Qual più qual meno, tutti costoro, sono paragonabili al mio povero cieco? E non lo siamo tutti in generale che viviamo, avvisandosi di poter ridurci a tal grado di altezza, donde, se non oggi, domani poter vagheggiare quel volto di felicità cui pur sappiamo che nessun uomo è mai giunto a vedere? E chi ne dicesse: sei cieco, fratello mio; e quando anche sarai giunto con infinito studio e fatica lassuso, vedrai nè più nè meno di quello che vedi ora standoti al basso, e rinchiuso nella tua stanza; noi gli risponderemmo di volere studiarci a salire, e che gli sapremo mandar le novelle di quanto ne sarà dato scoprire dall’agognata altezza. Perdoniamo dunque anche al nostro cieco la sua debolezza, e non siamo tanto presti a farci beffe della sua fabbrica.
Ma un’altra considerazione mi accadde di fare. Sarebbe possibile di trovare nella stessa infermità di quel dabben uomo conveniente motivo all’edificare della sua specola? Proviamoci d’indovinarlo. Chi sa che non ci venga trovata un’utile lezione di saviezza quivi stesso ove ci parve di non trovar altro che una prova di singolare stoltezza.
Certo è che quelle cose con più avidità da noi si desiderano, le quali veggiamo esserci con più di forza contrastate. Ora nessuna guisa di diletti punge l’animo del cieco con pari efficacia a quelli che hanno per necessario mezzo la facoltà del vedere. Nei poeti famosi a’ quali è toccata una tale disgrazia, le apostrofi alla luce sono piene di desiderio mestissimo; e tutte le volte che appunto parlano della luce, ne parlano in modo da mostrare che ne son privi. Egli è lo stesso che udire l’Allighieri parlare di Firenze, da cui lo teneva escluso l’esilio, o del trionfo della sua setta a cui agognò senza effetto tutta la vita.
Questo cieco, che non potendo godere la vista d’un cielo e di una campagna diffusa, e pur sentendo con molta vivacità qual piacere possa ritrarsi da quella vista, fabbrica specole opportune ad un tal fine, non potrebbe aver mirato a procacciare agli altri ciò appunto ch’egli crede il migliore ad essere gustato, sebbene ciò sia per esso impossibile? Non rassomiglierebbe a quell’altro signore, che avendo continuamente lo stomaco svogliato d’ogni specie di cibo, pur convitava gli amici a lautissimi pranzi, ne’ quali spendeva buona parte delle sue rendite? E qui ancora, non sono alcuni i quali, non potendo da sé, s’ingegnano di godere col mezzo altrui, e di cui può dirsi che, ciechi, veggano cogli occhi di un altro? E questa è generosità singolare a dir vero. Anzi diremo esser questa generosità compiuta, laddove non altro che mezza è quella per cui taluno fa dono di ciò che gli sovrabbonda, o di quello che per procacciare alcun diletto a sé stesso chiama altri a venirne a parte.
Sarebbe pur questa la regola da tenere nei benefizii! Se noi siamo ciechi, e perchè vorremo, potendo, torre agli altri le vie di godere della propria vista? Perchè anzi, quanto è da noi, non ci studieremo di loro agevolarla? Questa, si dirà, è generosità troppo squisita, e l’uomo è portato a voler sempre ritrarre da quanto dona un qualche profitto. Sia pure. Ma, e il diletto che altri prova per cagion nostra, non si rifonderà in noi a renderci più consolata la vita? Ci farà sentire, risponde forse taluno, più profondamente la nostra disgrazia. Forse a principio, e per chi non abbia l’anima contemperata a gentilezza; ma in seguito, o quando avremo nobilitata la nostra natura, deve accadere anzi il contrario. Leggo che il vedere continuamente ciere sane e gioconde contribuisca a diradare i vapori dell’ipocondria; e il trarci vicino chi rimanga contentato in qualche suo desiderio non dovrà cagionare nessuno buono effetto nell’anima nostra?
Io non so che cosa potrà sembrare ai lettori di questo discorso: certo è che, dopo fatte queste riflessioni, al rivedere di quella specola, anzichè farmi beffe, mi sento preso di affettuosa venerazione pel cieco, e avrei voluto conoscerlo di persona, se non mi fosse stato detto esser egli infermo da qualche tempo, e le visite degli sconosciuti dargli piuttosto noia che conforto.