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noi si desiderano, le quali veggiamo esserci con più di forza contrastate. Ora nessuna guisa di diletti punge l’animo del cieco con pari efficacia a quelli che hanno per necessario mezzo la facoltà del vedere. Nei poeti famosi a’ quali è toccata una tale disgrazia, le apostrofi alla luce sono piene di desiderio mestissimo; e tutte le volte che appunto parlano della luce, ne parlano in modo da mostrare che ne son privi. Egli è lo stesso che udire l’Allighieri parlare di Firenze, da cui lo teneva escluso l’esilio, o del trionfo della sua setta a cui agognò senza effetto tutta la vita.

Questo cieco, che non potendo godere la vista d’un cielo e di una campagna diffusa, e pur sentendo con molta vivacità qual piacere possa ritrarsi da quella vista, fabbrica specole opportune ad un tal fine, non potrebbe aver mirato a procacciare agli altri ciò appunto ch’egli crede il migliore ad essere gustato, sebbene ciò sia per esso impossibile? Non rassomiglierebbe a quell’altro signore, che avendo continuamente lo stomaco svogliato d’ogni specie di cibo, pur convitava gli amici a lautissimi pranzi, ne’ quali spendeva buona parte delle sue rendite? E qui ancora, non sono alcuni i quali, non potendo da sé, s’ingegnano di godere col mezzo altrui, e di cui può dirsi che, ciechi, veggano cogli occhi di un altro? E questa è generosità singolare a dir vero. Anzi diremo esser questa generosità compiuta, laddove non altro che mezza