Bizzarrie/Quintessenza del piacere
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QUINTESSENZA DEL PIACERE.
Una lunga esperienza fatta in pochi anni di gioventù, nei quali, a contare tuttociò che si prova, possiam dire di vivere una vita centuplicata, aveva posto Stanislao R*** nella dolorosa certezza che fosse assai scarsa la porzione dei beni che gli sarebbe conceduta a questo mondo. In un’ora di pensoso silenzio, in cui chiamò, come a dire, a raccolta tutte le potenze dell’anima, si mise ad annoverare i piaceri del tempo passato: ricorda questo, e quest’altro, e un terzo, e un quarto... e non più? Non più! soggiunse allora fra sé, crollando il capo malinconichissimamente. E saranno questi pur quelli di tutta la vita! E il resto? Noia e dolore. A tal punto rimase più attonito che addolorato.
Questi piaceri, a bene considerarli, sono venuti spontanei a cercarmi, anzichè io gli andassi a trovare. Ed io non devo esser buono a nulla per la mia felicità? Ecco da qual riflessione ebbe origine la sua maraviglia. Ma, tutti quelli che sono sempre contenti, che sorridono al sole quando nasce, e quando tramonta gli parlano come ad amico che ci tenne buona compagnia, e a cui raccomandiamo di farci un’altra visita quanto prima, tutti quelli (sempre fra sé Stanislao) non sono impastati della medesima mia carne, non hanno le mie facoltà stesse, povero ipocondriaco? E perché sono tanto contenti?
Qui posesi ad annoverare i piaceri di quelli che in tutti i tempi sono di buon umore. Bella casa, lauto pranzo, teatro, carrozze, villeggiatura, e continuava, e perdevasi, non però senza qualche sbadiglio, nella moltitudine de’ motivi che sono dati ad alcuni per esser felici. Gettavasi quindi colla fantasia in quel gran vortice di vita gioconda: adagiavasi sopra un divano, facendosi a palpare le frange mollissime che cadevano ai lati — e sbadigliava. Aveva negli occhi i graziosi disegni di una ricca tappezzeria, e i raddoppiati festoni di mussola rabescata che raddolcivano il troppo lume delle invetriate; sentivasi solleticate le narici dal profumo dei fiori e delle essenze disseminate per tutto l’appartamento, e le orecchie dagli accordi insinuantisi per tutta l’anima, che partivano da un pianoforte suonato nella distanza di qualche camera — e sbadigliava. Per torsi a quella incomoda successione di troppo languide sensazioni, balza in piedi, si getta sur un’altra seggiola; la fantasia gli si eleva, gli si riscalda, è a cavallo. La carriera è poco meno che disperata, quinci e quindi si vede fuggire le colline, il fiume, gli alberi, le case: l’impressione della corsa immaginaria si viene a mano a mano attenuando — e sbadiglia.
Alle corte: passeggia colla immaginazione per tutta la serie de’ piaceri, e a capo d’ognuno trova la noia e lo sbadiglio. Noia è la corteccia, la polpa, il nocciuolo d’ogni piacere. Provisi pure d’aprirlo come fosse una melarancia; lo dibucci pure, lo divida per spicchi; io ogni spicchio così sgusciato, così disgiunto, la noia! Noia che gli è forza masticare, sorbire, che non può in modo alcuno evitare. Povero Stanislao! Che ha egli dunque a fare de’ suoi trent’anni, della sua sanità, delle sue svelte gambe, del suo ingegno e del suo cuore? Annoiarsi.
E sentiva in questo un canarino trillare dalla sua gabbia, e pareva la musica di un cuore contento. E sì la era musica cantata entro una gabbia! E vedeva un cielo limpido, vasto, trasparente, distendersi, incurvarsi al disopra e tutto all’intorno; e sotto quel cielo una bella distesa d’acque, col riflesso de’ campanili, delle chiese, de’ palagi che ondeggiavano mollemente là entro. E non ci sarà modo ch’io possa esser altro che malinconico ed annoiato? Soltenlrava alla maraviglia la rabbia; e per questa volta non sbadigliò.
Pensò una, due, varie volle, in più giorni, in ore diverse, e conchiuse di farsi distillatore per sè medesimo di una quintessenza del piacere. Questo piacere io lo bevo nè più nè meno degli altri uomini, ciò è indubitabile. Emana da tutti gli oggetti, tutti i miei pori sono aperti a riceverlo, secondo stagione: ma l’assimilazione è difettosa. Esso mi viene amalgamato con sproporzione spaventosa a mille altre materie eterogenee che ne indeboliscono, e molte volte ne annullano l’efficacia. Dunque farne l’estratto, comporne un elisire, separare dalle parti grosse le spiritose. In ciò deve stare tutto il segreto della possibile felicità, almeno per mio conto.
Trasformerò la mia anima in uno staccio, in un limbicco, in un crogiuolo; d’ora innanzi tutto deve essere maceratura, vaporazione, raffineria; un’alchimia intellettuale, dacchè la felicità è la vera pietra filosofale. Appunto un’alchimia; e non paleserò a chicchesia il mio segreto, perchè il prossimo caritatevole non prenda diletto del turbarmi l’operazione, infondendo nel mio composto il miscuglio delle proprie passioni. Ma a questo modo mi sarò cangiato in misantropo? Tutt’altro, perchè anche dagli uomini prenderò quel tanto che mi occorrerà per rendere perfetto il mio estratto; anzi saranno dessi che mi somministreranno gl’ingredienti più attivi.
Innumerabili sono i vantaggi che mi sarà dato ritrarre da questa mia quintessenza. I piaceri così depurati, e tanto diminuiti di numero quanto accresciuti di forza, lunge dal trovare un’anima stanca e ignara, si apprenderanno ad un’anima cupida ed intelligente. Potrò anche tenere in serbo la mia quintessenza, e, poste certe condizioni, dispensarne l’uso secondo i bisogni. Oltre a questo, nell’analisi del piacere, che mi converrà fare senz’altro, volendo pur venire a capo di averne l’estratto, mi sarà dato di conoscere, oltre che la natura propria di tutti i piaceri in generale, quella propria in particolare di ciascheduno. Probabilmente molte spezie di felicità non danno agli uomini quella contentezza che pur potrebbero per questo principalmente che non vengono amministrate in quella dose, e in que’ casi che vorrebbe ragione. Questi sono quelli che fiutan cogli occhi, e guardano colle narici! E poi si lagnano della poca soavità del profumo, e della poca vivezza del colorito!
E i dolori, che pur sono inevitabili, e che non si possono segregare assolutamente dai piaceri, chi non ne parli colla morte? Oh! i dolori sono il sedimento della mia quintessenza. Vanno dietro ai piaceri come l’ombre seguono i corpi; mi tenanno occupato nell’aspettazione del futuro, irriteranno le mie speranze. È sembrato a taluno, che pur era dottissimo, non altro esser piacere fuorchè cessazion di dolore. La quistione sarebbe alquanto intralciata da diffinire, ed io non voglio mettermi a quistioni intralciate; ma potrebbe darsi che anche dal dolore ne cavassi elementi di piacere. Chi sa? Quali ottimi effetti non debbo ripromettermi dall’avanzare in quest’arte del distillatore?
Detto, fatto. Dopo quel giorno Stanislao è tutto intento alla composizione del suo elisire. A molti sembra diventato migliore, a molti altri peggiore: ma certo non è più quello di prima. La più parte il credono pazzo. Guarda il cielo, guarda l’acque, ascolla volentieri la musica, odora fiori, passeggia, conversa con persone che gli vanno a genio, legge, canticchia, zufola, si stropiccia le mani, ma non sbadiglia. Vedete però singolarità! egli ride pochissimo. Come, direte, dacchè ha trovato l’elisir del piacere non ride? Bisogna conchiudere che il riso contenga quelle parti del piacere che nel distillarne la quintessenza svaporano.