Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXIX

Capo XXIX.

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CAPO VIGESIMONONO.


(1619). L’ultima congiura contro la Repubblica avendo eccitata la diffidenza del governo, e rinovate con maggiore severità di prima le leggi che proibivano alle persone pubbliche di trattener relazioni con ambasciatori e loro aderenti, obbligò Frà Paolo a interrompere ogni carteggio co’ suoi amici di Francia. Quindi il suo vivere divenne ancora più monotono. I ripetuti tentativi contro di lui e la età crescente e prostrata mano mano dalle infermità, lo tenevano come imprigionato: usciva di rado e solo per gli affari del suo impiego, non si allontanava più da Venezia, ammetteva poche visite di forestieri: e per maggior cautela l’Inquisizione di Stato assoggettava ad una rigida vigilanza e direi quasi ad una malleverìa i frati del convento, faceva spiare la condotta e i rapporti di ciascuno, allontanare i sospetti, e i forestieri teneva attentamente di vista.

In compenso Frà Paolo era ad ogni momento visitato da’ primari patrizi e cittadini. I giovani nobili, e quelli specialmente destinati alla magistratura di Savi agli Ordini, andavano da lui ad apprendere le regole della prudenza civile. Era per così dire il precettore di una nuova generazione, e quel portentoso numero di eroi di che abbondò Venezia nella famosa guerra di Candia furono in gran parte alunni del Sarpi e di Domenico Molino, uomini quasi [p. 312 modifica]pari per scienza, nulla dissimili per modestia e virtù cittadine: tanto bastano pochi buoni a informare coll’esempio la moltitudine, e infonderle massime di dedizione alla patria.

A folla accorrevano eziandio i particolari di Venezia e delle province a consultarlo de’ loro privati affari; ed egli, sempre amorevole, tutti accoglieva con eguale affabilità, e imparziale ed amico del giusto, gli consigliava nel modo più conveniente ad evitare le spese e i disturbi, o a prescindere se la causa era ingiusta o poco probabile; sì che molti deponevano nel suo arbitrio la decisione della lite. E l’esperienza confermando i suoi giudizi, egli si era acquistato fama quasi di oracolo. Di tanta affluenza di negozi in che ogni altro benchè onesto giureconsulto avrebbe potuto accumulare non lieve peculio, il Sarpi non trasse mai profitto alcuno; e non che il pagamento ricusava i doni, sì che la povertà in cui fu trovato dopo morte fece meraviglia anco ai più indifferenti. Anzi questo suo allenamento da ogni cupidità od ambizione era così conosciuto e confessato anco in Roma, che i cortegiani erano soliti dire che l’avrebbono vinto se per questo lato avessero potuto appigliarlo.

Ciò nulla ostante Frà Paolo era uno di quei frati che fanno la fortuna del loro convento. Non era un santo, non faceva miracoli, non sanava dalle infermità con pregiudizio dei medici, non spacciava amuleti sacri pel dolore dei denti o per la quartana, e neppure valeva al confessionario, miniera di elemosine a chi sa bene palpare i pinzocheri. Ma il concorso delle persone che per curiosità o per [p. 313 modifica]affari andavano a lui aumentavano le beneficenze a pro dei Serviti; il che era uno stimolo a invigilare la conservazione di un uomo i servigi e la fama del quale contribuivano a tenere bene edificate le loro canove e le loro dispense.

Non vi era viaggiatore che non fosse desideroso di vedere e conoscere il Sarpi. Due qualità di persone principalmente dimostravano all’estremo una tale curiosità: i cherici che venivano da Roma, e i protestanti: quelli per vedere l’umil frate che teneva in tanto stupore la Corte Santa, e questi per vedere il grand’uomo che aveva riempiuto della sua fama il mondo. Se non avevano relazione coi nobili, erano costretti dirigersi ai frati e aspettarlo in chiesa o in sagrestia quando andava a dir messa o a cantare in coro; o pazientare in qualche bottega della Merceria per vederlo di passaggio quando si recava a San Marco.

In quest’anno giunse a Venezia Francesco Aarsens di Sommelsdick mandato dalla Repubblica di Olanda a ratificare la nuova lega testè conchiusa fra i due governi e proporre altri negozi di comune interesse. Il quale ambasciatore si mostrò desiderosissimo di conoscere personalmente Frà Paolo e avere qualche abboccamento con lui, come già il suo antecessore Vander Myle; ma pei rigori sopraddetti non si poteva senza una speciale permissione del Collegio. Essendo l’Aarsens personaggio accettissimo alla Repubblica l’avrebbe forse non difficilmente ottenuto se fosse piaciuto al Consultore, ma questi per rispetti prudentissimi non credette di darvi il suo assenso. Memore dei disgusti che aveva patito quando [p. 314 modifica]il primo ambasciatore di Olanda venne a Venezia, avvisava che un congresso famigliare con un altro ambasciatore eterodosso avrebbe potuto dare appicco a suoi nemici di opporgli qualche aggravio, molto più che i tempi erano assai difficili e pieni di sospetti per gli accidenti passati l’anno innanzi, e che appunto allora era uscita alla luce l’Istoria del Concilio Tridentino, ed i Curialisti stavano attentissimi a spiare ogni suo politico o privato andamento; per cui quell’abboccamento se poteva lusingare la vanità, poteva altresì increscere per ingrate conseguenze, che un uomo nella posizione di Frà Paolo doveva prevedere.

Quindi non so se fu a caso o per una convenzione stabilita col Collegio che l’Aarsens potè satisfare in parte al suo desiderio. Imperocchè essendosi recato, in compagnia del senatore Giustiniani che gli era stato dato per guida, nell’anti-secreta per sentirsi leggere, com’era l’uso, la risposta alla nota da lui presentata al Senato, vide colà Frà Paolo che passava da quella camera per andare nella Segreta, ossia archivio di Stato. Del quale fortunoso incontro rallegrandosi l’ambasciatore col Giustiniani, disse: «Sono contento di aver veduto questo grand’uomo, il più cospicuo di Europa, che mi parrebbe poco disgusto se dovessi ritornarmene senza essere riuscito nella mia missione, stimando che ho bene impiegato la fatica e la spesa del viaggio».

Il cardinale Pallavicino narra il fatto con circostanze molto diverse. Porto intiero il paragrafo perchè non si trova in tutti gli esemplari della seconda [p. 315 modifica]edizione della sua Istoria del Concilio di Trento, nè in tutte le ristampe che ne furono fatte da poi. È nella Introduzione, Capo II in fine.

«Mi dà materia di confermar con un vivente ragguardevole testimonio quel che ho detto fin ad ora intorno alla religione e alla passion del Soave, su la cui fede s’appoggia la sua Istoria da me impugnata: una contezza che al signor di Lionne, quel gran ministro del cristianissimo re Luigi XIV è ora piacciuto di comunicarmi per suo zelo verso la causa cattolica. Sì che io per aggiunger ciò, reputo buono il mutar questo foglio nelle copie dell’Opera non ancora sparse. Ella è, che essendo mandato il signor di Sommerdit per ambasciatore de’ signori Olandesi alla Patria del Soave; ed avuta quivi da lui opportunità di parlargli trascorsivamente; il Soave gli disse: mi rallegro sommamente d’esser vissuto fin a tanto che io abbia veduto nella mia Patria un rappresentator di quella Repubblica, la qual conosce meco questa verità; che il romano pontefice è l’Anticristo. Tutto questo aveva narrato al prenominato signor di Lionne il signor di Zuilicom, che era allora in compagnia del prenominato ambasciatore, e fu poi segretario del principe d’Oranges; e l’ha scritto (il Lionne) poc’anzi di suo carattere in una carta che sta in mia mano» (del 11 aprile 1665).

Se i documenti serviti per la sua Istoria sono tutti autentici come questo, avremmo un’altra prova che il Pallavicino non tanto curava la verità quanto di trovar materia per calunniare Frà Paolo. Tralascio che l’aneddoto pallaviciniano viene un po’ tardi [p. 316 modifica]comparendo alla luce 46 anni dopo l’avvenimento; e che l’autorità del ministro francese, partigiano dei gesuiti, può essere alquanto sospetta, e più sospetta ancora la sua memoria: ben prego il giudizioso lettore a conciliarlo, se sia possibile, colla minima verosimiglianza. Non vi voleva che la malignità o la leggerezza del Pallavicino per credere che il Sarpi, quel frate tanto scaltro e cauteloso, potesse fare una così matta dichiarazione in una sala del palazzo ducale, in presenza di un senatore, di segretari, di subalterni, e dei forestieri che componevano il seguito dell’ambasciatore di Olanda, dove in ogni paio d’orecchie doveva temere o due imprudenti o due spie. Egli era teologo e consultore di Stato, era stimato dai Veneziani un buono ortodosso, la Repubblica lo difendeva come tale, e per ciò era andata incontro ad assai dispareri colla Corte di Roma: ma la confessione sopraddetta inferiva sentimenti ben diversi; rivelava da stolto quella ipocrisia che, al dire de’ Curiali, con tanto studio cercava di nascondere; dimostrava che il suo principe era ingannato e sedotto e lui un traditore: delitti irredimibili a Venezia. Può essere che Frà Paolo trattenuto dal Giustiniani, in luogo così pubblico e in presenza di tante persone, si sia fermato a breve complimento di convenienza coll’ambasciatore; ma che tenesse un discorso tanto strano e così fuor di proposito, non era cosa nè da Sarpi nè da chi che siasi altro che avesse bricciolo di cervello in testa.

Arrogi che il Pallavicino o il Lionne o qualunque sia l’impostore che fa parlare Frà Paolo non si accorse di avergli messo in bocca una assurdità. A patto [p. 317 modifica]niuno poteva egli rallegrarsi coll’Aarsens come s’e’ fosse il primo ambasciatore olandese andato a Venezia; mentre niuno meglio di lui sapeva che un altro ve n’era stato dieci anni prima. Ma il cardinale non era tenuto nè a critica, nè a coscienza, e lui solo aveva il privilegio di spacciar racconti i quali, purchè facessero alla sua intesa, poco badava se erano veri o falsi.

E la falsità di questo è così flagrante che l’ex-gesuita Francesco Zaccaria, curialista maniaco, pieno di fiele contro il Sarpi, e lodatore scorporato del cardinale suo consettario, nella nuova edizione della di lui Istoria del Concilio di Trento, Faenza 1792-97, omise al tutto la rara notizia fingendo d’ignorarla, stantechè non è nella prima edizione autografa del 1656 e neppure in tutti gli esemplari della seconda del 1664. Ma il suo infingimento è una pretta soperchieria, perchè aveva sott’occhio e le Memorie del Grisellini che cita quell’aneddoto (senza averlo veduto), e un passo dell’Amelot che sodamente lo confuta, e il Dizionario di Bayle che ne parla all’articolo Aarsens, ed egli stesso nella sua dissertazione critica riferisce un capo di lettera del Pallavicino in coi ricorda il documento Zuilicom e la mutazione fatta per esso alla Istoria.

Colgo l’occasione per ricordare un altro aneddoto in prova della buona fede che mettono i Curiali nelle loro ricerche. Il padre Graveson domenicano si scalda molto contro il Sarpi, perchè, secondo lui, incusò di eresia il celebre e sfortunato Bartolomeo Carranza arcivescovo di Toledo e domenicano egli pure. A chi ha letto la Storia della Inquisizione di [p. 318 modifica]Spagna di Antonio Llorente sono note le sventure di questo virtuoso prelato, che calunniato dalla invidia, perseguitato dal Sant’Offizio, carcerato in Spagna, mandato a Roma dopo 38 anni di affanni e di prigionia morì nel 1576 pochi giorni dopo che fu liberato da papa Gregorio XIII. Frà Paolo nella sua Istoria ne parla con onore, il Pallavicino con malignità mentre lo imputa di corrotta fede e di sinistra credenza; indi usando la consueta sua franchezza carica delle sue menzogne le povere spalle del Sarpi. Il Graveson non potendo sfogarsi contro il Pallavicino, se la prese contro quest’ultimo, usando le seguenti espressioni: «È egli eretico lo scrittore che sotto il mentito nome di Pietro Soave Polano pubblicò una Istoria dei Concilio Tridentino, e che ha avuto la temerità di contare fra gli eretici Bartolomeo Carranza». Il servita Bergantini, uomo pieno di buon senso e di rettitudine, non potè frenare il suo sdegno al leggere tali falsità, e incontratosi in Roma col Graveson gliene fece un leale rimprovero, ed egli se ne scusò dicendo: Caro voi, così conviensi scrivere, scrivendosi in Roma.

(1619-20). Le difficoltà incontrate dall’Aarsens per vedere Frà Paolo non le incontrò il celebre Giovanni Daillè calvinista, dottissimo uomo nelle antichità ecclesiastiche, e autore di un pregevole trattato sull’Uso dei Padri della Chiesa. Semplice viaggiatore ed aio di due nipoti di Filippo Duplessis Mornay, la sua condizione privata era molto diversa da quella di un ambasciatore. Egli portava lettere commendatizie di Filippo, ed ordine di presentare [p. 319 modifica]all’esimio frate i suoi giovani allievi: uno di questi infermò a Mantova e Daillè per cansare le vessazioni del Sant’Offizio, che avrebbe voluto convertirlo per forza, lo fece trasportare a Padova dove morì. Volendo quindi mandarne il cadavere in Francia, gli uffici di Frà Paolo valsero ad ottenergli prontamente dal governo veneto i passaporti necessari. A dì nostri anco in Roma non vi sarebbe prelato, se non è vandalo od incivile, che non volesse fare lo stesso; ma per quei tempi un atto di urbanità era una eresia.

Daillè, o fosse il disgusto che provano di solito i Francesi quando escono dal paese natìo, o l’intolleranza e le vessazioni continue a cui erano esposti in Italia gli eterodossi, si lagnava di non avere cavato altro profitto da quel suo viaggio tranne l’amicizia di Frà Paolo, col quale, nella sua dimora a Venezia, soleva trattenersi quasi ogni giorno. «Il buon frate (narra il figliuolo di Daillè nella vita che scrisse di suo padre) gli aveva preso tale affezione che fece ogni sforzo, unitamente al medico Asselineau, per fare che colà si fermasse». Ma e’ volle tornarsene in Francia dove fu ministro della Chiesa di Saumur, poi di quella di Parigi.

Noto qui due anacronismi del Grisellini: il primo che Daillè andasse a Venezia nel 1608, e l’altro che l’Aarsens vi andasse nel 1609. Quanto al Daillè, Bayle ci fa sapere che partì co’ suoi allievi da Saumur al principio dell’autunno del 1619 e che visitata l’Italia, la Svizzera, la Germania, i Paesi Bassi, l’Olanda e l’Inghilterra, rimpatriò sul finire del 1621: bisogna dunque ch’ei fosse in Venezia [p. 320 modifica]durante l’inverno tra ’l 1619 e il 1620. E dell’Aarsens Battista Nani dice positivamente che andò a Venezia nel 1619. La lettera di Frà Paolo 30 marzo 1609 citata dal Grisellini non allude all’Aarsens, ma a Cornelio Vander Myle.

(1620). Continuava intanto Frà Paolo le sue occupazioni a favore della cosa pubblica. L’elezione di un suddiacono fatta dal patriarca e contrastata dal Capitolo indusse il Consiglio de’ Dieci a corregere alcuni abusi ecclesiastici che intaccavano l’autorità del secolare. Fino dal 1525 la Repubblica aveva ottenuto da Clemente VII una Bolla per la quale era concesso a’ dogi d’intromettersi e di riformare le elezioni de’ beneficiati alle pievi e titoli di Venezia. «È stile consueto della cancelleria romana, dice Frà Paolo, quando il pontefice concede alcuna grazia deputare nella Bolla tre ecclesiastici esecutori, colla clausola che tutti tre insieme, o due di essi o ancora un solo mantengano la grazia concessa. E se gli esecutori sono nominati col nome proprio, quella facoltà s’estingue colla loro vita; ma se sono nominati col solo titolo della dignità senza alcun proprio, non solo comprende quelli che si trovano qualificati della dignità nel tempo della spedizione delle Bolle, ma ancora i successori della dignità stessa: sicchè morti quelli, la persona a cui appartiene può chiamare così bene uno o più de’ successori in perpetuo». Il nunzio impugnava questa Bolla Clementina, e pretendeva che morti i conservatori vecchi fosse necessario ricorrere a Roma per eleggerne dei nuovi; ma il Sarpi dimostra ciò essere contrario alle [p. 321 modifica]massime istesse del jus pontificio, e all’uso fino allora stabilito, ed essere in piena facoltà del doge di eleggere a conservatore ed esecutore della Bolla cui più gli piacesse. Questa massima dava all’autorità civile grande independenza e le attribuiva la più estesa facoltà per impedire i disordini e’ soprusi nella nominazione ai beneficii, e tagliava di corto le liti decidendole senza bisogno di ricorrere a Roma dove erano tirate per le lunghe con incomodo e spesa de’ privati e pregiudizio della potestà civile. Frà Paolo riconosce e professa in più luoghi de’ suoi scritti in principio che la potestà ecclesiastica non si estende al di là delle cose spirituali, ed anzi è il primo che l’abbia sviluppato con chiarezza e istorica precisione; ma l’età non essendo anco matura per ridurlo in pratica, a sparmio di dispute preferiva, ad occasione opportuna, di combattere le pretese de’ Curiali colle istesse loro armi, come nel caso anzidetto. Andò più oltre nel seguente.

(1621). Un pievano, la cui elezione era stata riprovata dal patriarca, aveva appellato alla nunciatura e impetrato Brevi da Roma, donde nacque un conflitto di giurisdizione. La Corte Romana a viemeglio dominare i popoli aveva introdotti negli Stati altrui i tribunali della nunciatura rappresentati dai nunci, che a loro avvocavano le cause dette ecclesiastiche frodandone i giudici naturali con danno de’ particolari e profitto della Curia che ne traeva danari e potenza. Le esorbitanze di questo tribunale e le sue usurpazioni sulla autorità politica obbligò i re di Francia, di Spagna e di Napoli, e i principi di Fiandra a circoscriverlo con leggi repressive. La [p. 322 modifica]Repubblica aveva fatto lo stesso in varii tempi: nel 1613 proibì a’ ministri secolari di eseguir decreti di tribunali ecclesiastici esistenti fuori dello Stato, e proibì lo stesso a’ tribunali ecclesiastici del paese quando non ne fossero licenziati dal governo; nel 1615 proibì l’esecuzione di Bolle citatorie o monitorie e simili senza l’approvazione del Senato: ma con questo non cessarono gli abusi, anzi nella provincia di Bergamo si erano moltiplicati con grave discomodo delle persone. Ad ogni minimo litigio per un beneficio, ad ogni minimo litigio tra’ vicari e giusdicenti, erano invocati monitorii da Roma: un prete chiamato ad ufficiare in una cappella domestica spinse l’audacia di far intimare ai patroni di essa una scomunica se non riducevano quella officiatura privata in beneficio perpetuo. Il che fece dire a Frà Paolo: «L’ufficio dell’Auditore della Camera romana concede monitorii a petizione di qualunque persona non solo ecclesiastica, ma anco secolare, in qualsivoglia genere di causa, nissuna l’eccettuata; sempre però con clausola salutare in fine, che chi è aggravato compari. La quale cosa serve non solamente al profitto presente che l’officio trae, ma anco ad acquistare giurisdizione; perchè chi ha speso impetrandoli, usa ogni arte acciocchè lo speso non sia perduto».

Il disordine andò tant’oltre che vi furono Comunità che invocarono Brevi da Roma onde conseguire la fertilità ai loro campi, o preservarli dalla gragnuola o dai topi o da altre calamità naturali; e Dio guardi, diceva Frà Paolo, che i Romani le disingannassero da una superstizione tanto contraria alla dottrina cristiana. [p. 323 modifica]

Simili imposture non succedevano solamente in quella età superstiziosa e incivile; che anco al principio del secol nostro, nel 1803, papa Pio VII concedette a quelli di Menate, borgo del Milanese, un Breve di scomunica contro le cavallette che devastavano i loro campi; e fra le cose singolari contenute in quel Breve è portata come probabile l’opinione de’ teologi scolastici che risguardano gl’insetti nocivi come abitati di spiriti infernali. E poi si dice che il papa non è infallibile!

La gola del denaro induceva i tribunali dei cherici a commettere abusi non meno riprovevoli: «Gli auditori de’ nunzi che attendono al tribunale delle cause, dice il Sarpi in altro suo scritto, concedono ogni sorte di citazione e monitorio, sì contra le persone ecclesiastiche come anco contra i laici, per qualunque male, non avendo riguardo nè alla giurisdizione degli Ordinari, nè a quella del principe laico. E ciò fanno per render lucroso il loro carico in Cancelleria con mille disordini e cose indegne, come lo ha conosciuto l’istesso monsignor nunzio presente che di già ha mutato due auditori per le stesse accuse.

«L’Auditor della Camera, che è offizio principalissimo della corte romana, è giudice ed esecutore di tutte le obbligazioni camerali e Bolle pontificie per ogni luogo: tuttavia se vien levata una citazione o monitorio da quel tribunale da esser eseguito nello Stato Ecclesiastico, è necessario prima presentarlo al legato o vice-legato di quel luogo dove si ha da eseguire, dal qual si ottiene l’esecuzione, altrimenti non può alcun pubblico ministro intimarlo». [p. 324 modifica]

Era una singolare contradizione che il papa concedesse ai governatori de’ suoi Stati la facoltà di non eseguire i suoi decreti che a loro non piacevano; e pretendesse che i medesimi decreti dovessero avere negli Stati altrui la più ampia osservanza. Ma Frà Paolo citando questi esempi e le leggi ostative di altre nazioni faceva osservare al Senato non essere mai abbastanza l’attenzione per guardarsi dalle orditure macchinate dalla corte romana e suoi nunzi, e consigliò che d’ora in poi gli exequatur ai rescritti di Roma non fossero più dati dai segretari del Senato, ma dal pien Collegio, e fosse incaricato particolarmente il Savio di settimana (presidente del ministero) a nulla lasciar correre senza una particolar diligenza; e se ne’ segretari nascesse qualche facilità, con castigo irremissibile punirli».

Questa misura ne fruttò un’altra non meno importante. Era uso antico in Venezia di sospendere l’esecuzione di quei rescritti che venivano di Roma e che non erano consenzienti coi diritti del principe o l’utilità pubblica; ma sopra ciò non vi era alcun metodo regolare, e la esecuzione o sospensione di tali rescritti, massime di quelli che toccavano interessi di non grave momento, era abbandonata a’ magistrati secolari, od anco ad un segretario come è detto di sopra. Ma il Consultore propose la creazione di un teologo canonista appositamente incaricato di esaminare codesti rescritti. Così stabilita di diritto e di fatto la supremazia della potestà civile sulla ecclesiastica, fu un nuovo freno alle esorbitanze curiali, che per essere stato stretto più duramente nel seguito ricorda sempre [p. 325 modifica]più odioso alla Curia il nome dell’inventore. Piacque il pensiero, e ne fu affidato l’incarico al Sarpi medesimo, e lui morto fu continuato in un consultore chiamato il Teologo per la revisione delle Bolle.

(1622). Nel 1576 papa Gregorio XIII aveva fondato in Roma il Collegio de’ Greci con chiesa di rito greco e ufficio in lingua greca ed alunni greci, ma educati alla romana. Nel seguente anno per un accordo col Senato vi applicò le rendite del vescovato di Chisamo in Candia, a patto che vi fossero ricevuti Greci sudditi della Repubblica, in numero determinato e a scelta del governo. Benchè le rendite di Chisamo fossero concesse per soli 15 anni, il Senato lasciò continovare anco dopo spirato il termine, e trascurò eziandio di nominare gli alunni lasciando che fossero introdotti a capriccio dai Romani. La direzione del collegio fu prima in mano de’ gesuiti, passò poi ai domenicani, finchè nel 1622 il papa pensò di volerla tornare ai primi, essendochè i gesuiti, diceva, non hanno pari nell’educazione. Questa novità risvegliò l’attenzione della Repubblica, che tosto si oppose. Da qui cominciò un carteggio fra i due Stati e trattative tra il nunzio e il Senato, e l’ambasciatore veneto e il papa. Il Consultore, interpellato dal Collegio, fece notare che tale innovazione occultava un artifizio; e quanto fosse pericoloso il lasciare educare Greci, figli di popolo ignorante, nelle massime di quella Società tanto nemica della Repubblica. «Le parole, disse, che i gesuiti non hanno pari nella educazione involvono un’equivocazione assai manifesta. Non è [p. 326 modifica]l’educazione una cosa assoluta che abbia gradi di perfezione il sommo de’ quali sia toccato a’ Padri gesuiti; ma è l’educazione relativa al governo; per il quale la gioventù è educata in modo che quella che è buona ed utile per un governo, è dannosa per un altro, e secondo la varietà dei governi l’educazione riceve varietà. Quella che è utile per uno Stato militare che si mantiene ed aumenta con la violenza, è perniciosa ad un pacifico che si conserva con l’osservanza delle leggi.

«L’educazione de’ Padri gesuiti, siccome l’hanno descritta nelle loro Costituzioni e siccome la praticano, sta in spogliare l’alunno di ogni obbligazione verso il padre, verso la patria e verso il principe naturale, e voltar tutto l’amore e ’l timore verso il padre spirituale, dipendendo dai cenni e motti di quello.

«Questa educazione è utile per la grandezza degli ecclesiastici e di quei principati con i quali gli ecclesiastici vogliono esser soggetti, ed è verissimo che in ben maneggiare questa i gesuiti non hanno pari; ma quanto è migliore per questi tanto è peggiore per quei governi dove il fine e la libertà è la vera virtù, ed al quale gli ecclesiastici non si tengono soggetti. Dalle scuole de’ gesuiti non è mai uscito un figlio ubbidiente al padre, affezionato alla patria, devoto al suo principe. La causa di quest’altro non è, se non che i gesuiti attendono a levar l’amor naturale e la riverenza paterna, e del proprio principe. Dove che per una repubblica libera non vi sono [p. 327 modifica]massime più utili quanto quella dell’Evangelio, che nissuna obbligazione lega maggiormente che la paterna; e quella di San Paolo, che Iddio comanda che il principe sia ubbidito non solo per timore, ma per coscienza. E siccome li gesuiti non hanno pari in alienare gli animi dal padre e dal principe, e per tanto meritano di essere stimati e lodati da chi mira ad ingrandire con la depressione degli altri; così quelli che secondo la dottrina cristiana stimano esser virtuosa la reverenza paterna e la divozione al principe, non possono se non abborrire quella contraria.

«Non si può in scrittura esprimer quanto ai governi e delle case e delle città importino le, massime concepute da’ giovani: ognuno può esperimentare in sè che ciascuno opera secondo le massime credute, e crede quelle che gli sono dagli educatori instillate nell’animo; le quali, quando hanno fatto radice, è impossibile separarle, onde nissuna altra cosa è più atta a mutar il governo di una famiglia o città che l’educazione contraria a quello». E conchiude essere verissimo che i gesuiti non hanno pari alla educazione, ma non in quella che conviene ad uno Stato libero, e propone di rigettare l’instanza.

Passando ora dalle materie clericali alle politiche, la Repubblica si era impigliata nelle infauste guerre che per tanti anni desolarono le tre leghe de’ Grigioni. La Valtellina, suddita ad esse, si era rubellata; onde avvennero guerre civili sanguinosissime. L’Austria si era impadronita della Lega Grigia e voleva aggiungerla a’ suoi dominii; la Spagna [p. 328 modifica]minaccciava le due altre; la Francia per altri motivi fomentava le discordie; e Venezia bisognosa dell’alleanza di que’ popoli bellicosi onde tener freno ad Austria e Spagna, ne proteggeva la independenza di cui erano gelosissimi. Da ciò nacque una complicazione d’interessi e di cabale diplomatiche, che, come è il solito, finirono col malanno di chi non ne aveva colpa. L’Austria pretendeva ragioni sulle Leghe di antica sua dipendenza; la Spagna, sulla Vallellina già dipendente dal ducato di Milano; la Francia, ragioni di passo e di patrocinio; il duca di Savoia aveva anch’egli le sue: il papa, i preti, i frati, l’inquisizione, l’arcivescovo di Milano, vi si mescolavano, succedevano fatti atroci; e quel misero paese, cui la povertà pareva dover rendere sicuro, desolato da amici e nemici, discorde in sè per motivi di religione e per ambizioni sotto quella nascoste, si trovò per lunghi anni travagliato da grossa guerra e in pericolo di perdere la libertà.

Il Collegio onde avere una piena informazione dei fatti anteriori su cui fondava ciascuno le sue pretese, ed egli regolare le proprie azioni, chiese a Frà Paolo una relazione istorica della Valtellina e dello stato della religione cattolica in lei; cui egli satisfece colla solita sua brevità e precisione, notando l’origine delle discordie, quelli che le fomentavano, le mire della Spagna e dell’Austria, e la parte che vi ebbero Francia e Venezia, e l’utilità che poteva ricavar questa dal confermarsi l’amicizia de’ Grigioni. È un opuscoletto di poche pagine, ma racchiude i capi più interessanti le vicende di quel paese. [p. 329 modifica]

Declinando l’anno al suo termine ebbe il Consultore altra visita illustre nel principe di Condè. Questo principe, vivace, leggiero, di molto spirito e sapere, partigiano di Spagna, dedito ai gesuiti, ambizioso della corona, dopo la pace seguita tra il re di Francia e gli Ugonotti, caduto in sospetto alla Corte e veduto malvolentieri dai ministri e cortegiani, chiese il permesso di fare un viaggio in Italia col pretesto di sciogliere un voto alla Santa Casa di Loreto, ma invero per allontanarsi da un luogo dove non poteva restare con riputazione. Fu in Venezia nel mese di novembre e fece le più vive istanze per vedere Frà Paolo, mentre questi si pigliava ogni cura per evitarne l’incontro, sì per il rigore delle leggi e sì perchè ne temeva l’importunità, e che volesse tirarlo in discorsi su cui era del paro arduo il tacere e il parlare, sapendo che il principe era stato il primo a divolgarlo autore dell’Istoria del Concilio di Trento. Ond’è che quello non potendo essere introdotto in convento, lo appostava in chiesa con tanta assiduità che il frate avvisato che e’ ci stava, era obbligato talvolta a non uscire tutto il giorno dalla sua cella. Di forma che impazientato il principe, disse che era più difficile vedere Frà Paolo che il papa. Infine ottenne dal governo di trovarsi con lui. Ma il frate non volle che fosse in convento, e fu scelta la casa del cavaliere Angelo Contarini tornato di fresco dall’ambasceria di Francia, e dove stavano sotto pretesto di onoranza più altri patrizi e segretari del Senato. Dopo i primi complimenti, Condè, spedito parlatore, aggirò il discorso, come il Sarpi già sospettava, sulle materie della [p. 330 modifica]giornata, ma che venivano a toccare interessi di religione, essendo egli avido di scoprire quale fosse la precisa opinione del frate. Parlò delle molte sêtte che erano a quel tempo, e particolarmente degli Ugonotti di Francia, cui dannava come perniciosi allo Stato. Frà Paolo senza entrare in disputa dogmatica divertì l’argomento, discorrendo le passate guerre civili tra’ cattolici ed Ugonotti, la parte che vi ebbero i principi di Condè avolo e padre dell’interlocutore e seguaci della fazione ugonotta, e fece intendere che le opinioni religiose sono sempre innocenti quando non si tirano a fini politici. Con che feriva delicatamente il principe perseguitatore degli eterodossi, non per convinzione, ma per suscitare turbolenze e farsi strada al trono.

Condè lo interrogò della superiorità del concilio sul papa e delle libertà della Chiesa Gallicana. E il Sarpi senza esprimere la sua opinione si ristrinse a ricordare le dottrine de’ Sorbonisti e de’ Parlamenti di Francia che ritenevano la prima come un principio inconcusso, e le altre come diritti naturali a tutte le Chiese.

Passarono a ragionare se sia lecito valersi delle armi di quelli che dissentano da noi in punto di religione, e il frate si limitò ad esempi pratici, adducendo Giulio II che si valse dei Turchi quando i Francesi stavano per prenderlo in Bologna; e di Paolo IV che per far guerra a’ Spagnuoli trasse i Grigioni a Roma, i quali benchè fossero eretici gli chiamava angeli mandati da Dio.

Vennero alle scomuniche contro ai principi, e qui Frà Paolo non fece altro che confermare ciò che aveva dettato in iscritto. [p. 331 modifica]

In ultimo il principe fece un gran girar di parole per cavargli di bocca se sapeva chi fosse l’autore della Istoria del Concilio Tridentino, ma il frate non gli volle rispondere mai altro se non che In Roma sanno chi sia l’autore. Non so poi se il Condè, il quale continuò infatti il suo viaggio sino a Roma, l’abbia saputo egualmente.