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316 capo xxix.

parendo alla luce 46 anni dopo l’avvenimento; e che l’autorità del ministro francese, partigiano dei gesuiti, può essere alquanto sospetta, e più sospetta ancora la sua memoria: ben prego il giudizioso lettore a conciliarlo, se sia possibile, colla minima verosimiglianza. Non vi voleva che la malignità o la leggerezza del Pallavicino per credere che il Sarpi, quel frate tanto scaltro e cauteloso, potesse fare una così matta dichiarazione in una sala del palazzo ducale, in presenza di un senatore, di segretari, di subalterni, e dei forestieri che componevano il seguito dell’ambasciatore di Olanda, dove in ogni paio d’orecchie doveva temere o due imprudenti o due spie. Egli era teologo e consultore di Stato, era stimato dai Veneziani un buono ortodosso, la Repubblica lo difendeva come tale, e per ciò era andata incontro ad assai dispareri colla Corte di Roma: ma la confessione sopraddetta inferiva sentimenti ben diversi; rivelava da stolto quella ipocrisia che, al dire de’ Curiali, con tanto studio cercava di nascondere; dimostrava che il suo principe era ingannato e sedotto e lui un traditore: delitti irredimibili a Venezia. Può essere che Frà Paolo trattenuto dal Giustiniani, in luogo così pubblico e in presenza di tante persone, si sia fermato a breve complimento di convenienza coll’ambasciatore; ma che tenesse un discorso tanto strano e così fuor di proposito, non era cosa nè da Sarpi nè da chi che siasi altro che avesse bricciolo di cervello in testa.

Arrogi che il Pallavicino o il Lionne o qualunque sia l’impostore che fa parlare Frà Paolo non si accorse di avergli messo in bocca una assurdità. A patto niu-