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capo xxix. 319

mio frate i suoi giovani allievi: uno di questi infermò a Mantova e Daillè per cansare le vessazioni del Sant’Offizio, che avrebbe voluto convertirlo per forza, lo fece trasportare a Padova dove morì. Volendo quindi mandarne il cadavere in Francia, gli uffici di Frà Paolo valsero ad ottenergli prontamente dal governo veneto i passaporti necessari. A dì nostri anco in Roma non vi sarebbe prelato, se non è vandalo od incivile, che non volesse fare lo stesso; ma per quei tempi un atto di urbanità era una eresia.

Daillè, o fosse il disgusto che provano di solito i Francesi quando escono dal paese natìo, o l’intolleranza e le vessazioni continue a cui erano esposti in Italia gli eterodossi, si lagnava di non avere cavato altro profitto da quel suo viaggio tranne l’amicizia di Frà Paolo, col quale, nella sua dimora a Venezia, soleva trattenersi quasi ogni giorno. «Il buon frate (narra il figliuolo di Daillè nella vita che scrisse di suo padre) gli aveva preso tale affezione che fece ogni sforzo, unitamente al medico Asselineau, per fare che colà si fermasse». Ma e’ volle tornarsene in Francia dove fu ministro della Chiesa di Saumur, poi di quella di Parigi.

Noto qui due anacronismi del Grisellini: il primo che Daillè andasse a Venezia nel 1608, e l’altro che l’Aarsens vi andasse nel 1609. Quanto al Daillè, Bayle ci fa sapere che partì co’ suoi allievi da Saumur al principio dell’autunno del 1619 e che visitata l’Italia, la Svizzera, la Germania, i Paesi Bassi, l’Olanda e l’Inghilterra, rimpatriò sul finire del 1621: bisogna dunque ch’ei fosse in Venezia