Archivio storico italiano, serie 3, volume 12 (1870)/Società Colombaria Fiorentina
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SOCIETÀ COLOMBARIA FIORENTINA
Adunanza solenne del 25 di maggio 1870.
Voi conoscete quel disco di bronzo che si conserva nel nostro piccolo museo, e ne avete ammirato lo squisito lavoro: ma tutti rimanemmo colla curiosità d’intenderne il significato, di conoscerne l’uso. Sei zone dentro una circonferenza di settantasette centimetri; e in quella più accosta all’orlo, un’infilzata di settantadue campanelli: poi digradando verso il centro, sei versi di latino fortemente abbreviato; e poi le figure dello zodiaco, dentro tanti quadri separati da due lise, che portano il nome d’un’erba e d’una pietra. Segue, sempre ristringendo, una zona co’ segni de’ mesi: e un’altra con quattro versi delle solite abbreviature. Sulla linea dell’ultimo verso, rompendone in dodici punti le lettere, passa e ripassa un nastro che forma quattro volte un triangolo, equilatero, inscritto nella circonferenza, da parere a prima giunta una stella; nel cui centro è un tondo forato, con un pezzo mobile, più moderno del disco e più goffo; dentrovi il globo con la croce, come si vede in mano alla Maestà imperiale de’ suggelli e delle monete, racchiuso da un triangolo che da ogni lato ha tre stelle. Qui sarebbe il caso di domandare col Panciatichi: Vi ricordate voi del caos? L’apio, l’assenzio, il napello, con altr’erbe buone o malefiche, sino a dodici; il sardonio, l’agata, il diamante, con altre pietre preziose e miracolose, fino a dodici; Beniamino, Gabriele, Gioele, Giove, Mosè, fino a sessanta tra capi di tribù, angeli, profeti, patriarchi e iddei. A tutti questi nomi aggiungete le imagini del leone, d d sagittario, de’gemelli e via discorrendo; i suddetti campanelli; passi scritturali presi a vanvera, e smozzicati a capriccio; sei triregni maritati a sei corone imperiali; dodici serafini che tengono con ambedue le mani un piattello con un emblema variato; finalmente, una seminata di occhi umani, e queste parole intorno al centro: ego ego hermes.
Un inventario del nostro piccolo museo, fatto un mezzo secolo addietro, lo dà per un «bellissimo talismano di bronzo, intagliato all’oggetto di levarne impronta». Il Migliarini lo credette un «oroscopo»: altri, se ne levarono col chiamarlo un «gran medaglione». Alla Colombaria fu presentato cento e più anni fa, ma in calco di carta; e se ne registrò una storia piuttosto lunga, dov’è chiamato «medaglia magna», «scudo ermetico», «gioia la più preziosa dell’universo». Dice, che fu della galleria d’un gran sovrano; che un forestiero, al solito, tentò il custode coll’offerta di «mille zecchini effettivi», perchè la riconobbe «una preziosità unica al mondo», che «aveva virtù immense, e buone a ogni operazione contro qualunque disastro potesse mai avvenire a chi si sia». Come la cosa s’andasse, o che il cerbero di quella galleria pigliasse il boccone, o che l’anonimo sovrano volesse ricompensare qualche segnalato servigio; il bronzo passò dalla galleria in un postero di quel Dante da Castiglione che mantenne, duellando con un traditore della patria, l’onore di Firenze assediata. Del postero, già rappaciato co’ Medici e Marchese, non si dice il nome, ma perchè fra’ primi ministri di Cosimo III fu Vieri da Castiglione, non potrebb’essere che il prezioso disco passasse dalla guardaroba del Serenissimo nelle mani di questo signore, che bazzicava volentieri i letterati e gli artisti? Certo è che in casa da Castiglione si teneva come una maraviglia: e si sa che il pittore Cignani rimase a bocca aperta per lo squisito lavoro; che il Pertussi gesuita consigliò a tenerlo sotto chiave come cosa di contrabbando; che due inquisitori ne accettarono volentieri un’impronta. Chi lo donasse poi alla Colombaria non si sa.
Ora voi sapete che il nostro socio Conservatore ha preso ad illustrare questo singolare cimelio; e in tre lezioni ce l’ha minutamente descritto, eruditamente chiosato1. Quando ne avrà compiuta la pazientissima analisi, qualcosa ne potremo conchiudere: ma fin d’ora par manifesto, ch’egli è uno strumento di quella falsa scienza a cui non solo nel medio evo s’inchinarono gl’ingegni, ma durò tino a tanto che il Galileo non n’ebbe spazzato le scuole. Nè questo disco risale a più di trecent’anni, fatta ragione dell’artificio e dei caratteri: si direbbe lavoro toscano; e verrebbe fin voglia di ricercare se non sia un pezzo di quella macchina astrologica, intorno alla quale scienziati e artisti s’affaticarono, regnante Cosimo I, da tenersi in Laurenziana per comodo degli studiosi. Alcuni documenti veduti dal nostro collega Milanesi danno, che il Cioli scultore vi lavorò di figurine; e Baccio Baldini, bibliotecario e medico, precedeva all’opera. Ma questo vorrà dircelo a suo tempo il nostro Conservatore: io dirò d’altre poche lezioni, che due soci urbani fecero in questo biennio.
Fra i lavori edilizi, più o meno necessari, che il Municipio fiorentino disegna, par che non va la trascurato il Pontevecchio, con quelle sue botteghe, con quel corridore che congiunge il palazzo che fu della Signoria alla residenza del Principe. E perchè l’arte co1 demolire fa più presto, e schiva le difficoltà ohe s’incontrano molte e gravi nell’adattare a’ nuovi bisogni le cose antiche; non mancò il progetto di ridurre quel Ponte come qualunque altro ponte; condannando le botteghe degli orafi come inutili, il corridore come memoria di sospettosa tirannide! Nè a questo valeva che le pacifiche arti vi avessero preso domicilio, nè a quelle l’antichità venerabile, la ricchezza sfolgorante, e quasi non dissi la fama. E l’opinione che si dovesse far così, pareva confermata dal vedere che nessuno architetto, neanche per istudio geniale, se n’occupava: quando un giovane, Ferdinando Fantacchiotti, metteva fuori un suo disegno. Dal quale tolse occasione il nostro collega Guglielmo Enrico Saltini per ricordare, con una sua lezione2, la vecchiezza e le vicende del Pontevecchio (già il Manni ne aveva scritto), e mostrare più che la convenienza di seguire in ogni parte il concetto del giovane artista, il dovere di conservare lo antiche costruzioni. Il Saltini vorrebbe che delle officine su cui passa il corridore si ricercasse tutta l’ossatura, e tornando fuori gli archi di Taddeo Galdi o, meglio, di Neri Fioravanti, ce ne giovassimo per una loggia come quella che già abbiamo sul colmo del ponte. Del resto, concede che le botteghe si levino; nè gli duole che per rendere il ponte spazioso, si demoliscano affatto le botteghe e gli archi che ricorrono sulla destra spalletta. Ma se anch’io posso dir la mia, dirò: che le botteghe, non il corridore, danno al Ponte un carattere; che gli archi del Fioravanti non furono fatti per il corridore; e riaprendoli, il corridore peserà loro addosso, senza far un insieme da contentare la mente dell’artista e l’occhio del popolo: che nè al popolo nè all’artista parrà bello il Ponte caricato sovra una sola spalletta da fabbriche, le quali senza cascar mai in Arno, parrà che sempre stiano lì lì per ribaltare. Io non m’intendo di statica; ma se Michelangelo parlava d’un compasso negli occhi, credo che l’equilibrio debba rispettare anche le leggi dell’ottica.
Una copiosa raccolta di Lettere latine di Girolamo Morone era venuta in luce nel 1863 per cura di Domenico Promis e di Giuseppe Müller; e questi, due anni dopo, compì l’opera con un altro volume di documenti che illustrano la vita pubblica di quell’uomo, in cui lo stesso Guicciardini desiderò «animo più sincero ed amatore dell’onesto». Levandosi dalla lettura di questi due ponderosi volumi (quasi dumila pagine in ottavo), il Saltini raccolse in breve i fatti, pose de’ criteri, giudicò il Morone3: e concludendo si trovò discorde un poco dal Müller, che in un largo proemio avea discorso d’una vita sì varia con giudizi nuovi e a prova di documento autorevoli. Ma chi si metta di mezzo, vedrà che la differenza del giudicare nasce da questo; che l’editore, per quanto riesca a francar l’animo da ogni passione, ama più il personaggio tolto a illustrare.
Al Saltini pare il Morone più tristo che al Müller; nè questi tace o diminuisce lo colpe; ma profondandosi nelle ricerche, ha conosciuto che il secolo era più tristo dell’uomo. Così le lettere del Morone, che l’editore allega a giustificarne le azioni, paiono allo studioso collega una giustificazione pensata. In fondo, ciascuno fa la sua parte: perchè altro è leggere i documenti, altro scavarli: può storpiare l’affetto come la critica; ma lo storico che lavora su’ libri, risica di scaldarsi colla sua rettorica; mentre chi tolse dagli archivi i responsi, se abbia cuore ed ingegno, facendosi facilmente contemporaneo dell cose narrate, è capace di quella eloquenza che, nutrita dalla materia come la fiamma (dirò con quell’antico), levasi per agitare, chiarisce per ardere.
L’auditore Eugenio Branchi staccò dalla sua Storia di Lunigiana un capitolo dove sta la vita d’Alessandro Malaspina; e ve l’offerse, o colleghi, non appena venne fatto del nostro numero4. Nè poteva sceglier una parte del suo lavoro, per i tempi a noi più vicini, che meglio destasse la vostra curiosità; parlando d’un uomo passato quasi di memoria agl’Italiani, e pur degnissimo di vivere nelle storie di questa patria. Da Carlo Morello nacque Alessandro l’anno 1754 nel castello di Mulazzo; e ancor giovinetto si sentì portato a cose ardue, e in special modo alle imprese marinaresche.
Ma le città d’Italia, che un giorno ebbero la signoria dei mari avevano dimenticato, non che perduto, la gloria dei loro navigli: la Spagna accolse Alessandro, che in breve divenne capitano di vascello. A trentacinque anni, giudicato più abile de’ vecchi in quella scienza cui tanto giova la pratica, fu eletto capo d’una squadra che il re Carlo IV mandava a esplorar nuove terre e ad allargare le cognizioni delle già note lungo le coste dell’America settentrionale, della Cina, del Perù. Quattro anni durò la navigazione: il ritorno dello due corvette fu festeggiato da tutta la Spagna; l’Italia non s’accorse della parte che ne toccava anche a lei; mentre un giovane Prussiano, che doveva riempir l’Europa del suo nome meditava di ritentare i viaggi del Malaspina. Il quale, associatosi un Francescano esperto nella lingua spagnola, si dava a ordinare le preziose collezioni e le osservazioni scientifiche; quando il ministro Godoy, noto infaustamente nelle storie col titolo di Principe della Pace, abusando anche questa volta dell’autorità di un sovrano dappoco, lo faceva rinchiudere nel castello di Sant’Antonio al Ferrol, sequestrandone le carte. Il re d’Etruria e il vicepresidente della Repubblica Italiana gli ottennero la libertà; ma dopo sett’anni di ferri: e tornato a’ monti nativi, trovò abbattuti i feudi, la famiglia sua povera. L’amico Melzi gli offerse onori: ma egli, ritiratosi da uomo privato in Pontremoli, non visse oltre il 1809. E narrano, che dalla sua bocca non escissero mai nè vanti nè querele: segno, che forte al pari della mente era l’animo. La storia de’ suoi manoscritti non fu meno infelice: e il marchese Campori ce ne ha raccolto i documenti preziosi. Uno scolopio pensò a togliere la memoria del Malaspini dall’oblio; e fu Massimiliano Ricca: ma «per colmo di sciagura (riferisco le parole del Campori) l’Elogio storico del Ricca, nel quale erano raccolte le notizie con tanta fatica attinte alle fonti migliori e di più autorità che a lui costò parecchi anni di lavoro, e ch’eli disegnava leggere in una tornata della Società Colombaria Fiorentina, e darlo poscia alle stampe, già quasi era compiuto; quando per la morte dell’autore, accaduta nel 1833,... andò pur esso in dispersione». Alla Colombaria, ignorandolo, ristorava quel danno il nostro collega; la scienza fu largamente compensata da’ viaggi e dalle opere d’Alessandro Humboldt: ma all’Italia non resta che ricordare, come Cristoforo Colombo e Alessandro Malaspina fossero dalla Spagna ricompensati con le catene.
Nella storia delle famiglie feudali non son cose di lieve momento gli stemmi e i sigilli: tanto più nella genealogia de’ Malaspina, che divisa fino dal 1221 in due rami, noti agli araldici per gli emblemi dello spino secco e dello spino fiorito, si suddivise noi tanto, che per dare a tutti un po’ di signoria, dovettero bastare a un feudo pochi ettari di terreno, che ora i discendenti di Corrado e di quella «gente onrata» coltivano con le proprie mani, mangiando il frutto d’onorati sudori. D’un sigillo di Voroello marchese di Mulazzo, trovato presso a un fabbro nel 1840, e nel 65 messo a mostra in Fir-nze pel gran Centenario, come memoria di chi fu amico e ospite dell’Alighieri, aveva scritto il Branchi in quel Periodico di numismatica e di sfragistica, che la Colombaria riguarda con affetto quasi materno, essendochè il benemerito direttore e i più operosi collaboratori le appartengano. Ora di tre altri sigilli venne a parlarci il nostro collega nell’ultima adunanza5; e poichè presto vedranno anch’essi la luce, basterà qui ricordare che due appartennero a un Gabriello di Fosdinovo e a un Francesco di Tresana; il terzo fu d’Iacopo re d’Aragona, e pende tuttavia da un diploma del 1327, confermante ai Malaspina quei diritti, che in mezzo alle fazioni volevano essere raccomandati così all’Impero come alla Chiesa.
E quest’adunanza degli 8 di maggio 1870 vi ricordo, Signori, con particolare compiacimento; perchè, dismessa pur una volta quella solennità della lezione, tornaste alla buona usanza de’ primi Colombari che, conversando più che ascoltando, si comunicavano le loro erudizioni, i cimelii, i nuovi documenti, le recenti indagini, le stesse lettere de’ lontani colleghi; mentre uno di loro sovra un quaderno così alla buona registrava un po’ d’ogni cosa, lasciando agli avvenire un tesoro di cognizioni in quegli Annali che vorrebbero esser più noti. Eravamo pochi pur troppo (e quando non siamo noi pochi?); ma dalla breve illustrazione di que’ sigilli Malaspina cominciò una conversazione, che di Lunigiana ci portò in Lombardia; da’ guelfi e’ ghibellini azzuffati tra loro, a’ Francesi e Italiani combattenti l’Austriaco; dai suggelli de’ Marchesi, a’ sigilli scritti in tre lingue e trovati fra l’ossame degli ottomila sepolti nelle settecencinquanta fosse di Solferino e di San Martino: nè al vederne l’impronte, che il Branchi ci mostrava, mancò la lode e il compianto pe’ caduti nelle patrie battaglie.
Lo storico della Lunigiana darà, spero, una modesta pagina alla memoria d’un nostro collega, il consigliere Girolamo Gargiolli, nato in Fivizzano quattranni prima che finisse il secolo XVIII, morto il 4 giugno dell’anno decorso in Firenze. Trovandolo ascritto alla Colombaria fino dal 1834, io credo che il nostro diploma gli arrivasse accettissimo, quasi approvazione mandatagli da uomini autorevoli, a lui appena noto fra’ suoi monti, per quel Calendario Lunese, che in quello stesso anno cominciò a vedere la luce. E lo credo, perchè ripenso a quello che provai io medesimo quando, per un altro Calendario, mi voleste onorare dello stesso diploma. Nè vi sarà chi dica che plaudendo a que’ libercoli la Colombaria s’abbassò. Parlo francamente del Calendario Pratese, perchè mia ne fu poco più che l’idea; mentre al Gargiolli va tutto il merito de’ tre Lunesi. Ma chi lodava quell’operetta fu savio, vedendo più là del titolo; il quale non trattenne il Tommaseo da darle valore di libro. E veramente ne’ tempi che gli uomini, perchè costretti a tacere (due anni avanti s’era imposto silenzio all’Antologia), finirebbero col dimenticare, anche il dir sotto voce è coraggio; e fa che prima si ricordi, poi parli
Chi per lungo silenzio parea fioco.
Ma del Gargiolli, che apre la serie de’ soci urbani defunti in questi due anni ultimi, non farò altre parole, dappoi che un Elogio ne fu letto qui dal collega Saltini6; il quale nel magistrato venuto da umili ad alti uffici, nello scrittore che colse la lingua delle arti dalle labbra del popolo fiorentino per farne egregi libri all’Italia, trovò molto da lodare senz’offesa dei vero.
Nè l’antica amicizia mi farà dir cosa meno vera parlando di Pietro Rigazzi; che ascritto nel 1839 fra i corrispondenti, e passato nel 54 fra gli urbani, mancò di vita a’ 19 d’aprile di quest’anno, nel quale al primo d’agosto avrebbe compito il suo settantesimo.
«Figliuolo d’impiegato che per un mezzo secolo servi onoratamente», si chiama da sè in un’istanza al principe; nè a quarant’anni si diceva più che bibliografo, cognito ai tribunali come perito; e narrando d’aver comprata la libreria del Moreni (manoscritti e libri per la massima parte concernenti a cose toscane, facilmente messi insieme in que’ tempi che il dispregio d’ogni cosa vecchia era la coccarda de’ petti liberali non liberi, e il Demanio strascicava fuor de’ conventi frati e roba, perdendola mezza per istrada), il Rigazzi dice soltanto d’averlo fatto, perchè la preziosa raccolta del Canonico Laurenziano non andasse dispersa. Ma siccome cercava d’entrare aiuto al bibliotecario della Marucelliana, il dir questo gli nocque; e perchè non aveva fortune da signore, gli supposero idee da mercante. Nè gli valse che un Vincenzio Antinori attestasse di conoscerlo, da molt’anni, «intelligentissimo ed appassionato per le cose bibliografiche, ricercatore indefesso di patrii manoscritti, onesto e leale». Coll’Antinori s’occupava allora nel collazionare il Diario degli Accademici del Cimento, non che nell’assistere alle ricerche dei materiali che debbono servire ad illustrare l’opera celebre del Magalotti»: e voi conoscete, colleghi, con quanto sapere fosse dall’Antinori condotta e accresciuta la terza edizione dei Saggi di naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento. La quale ristampa uscendo nel settembre del 1841 a solennizzare, meglio che i pranzi, il terzo Congresso degli scienziati, preludeva alla nuova edizione dell’Opere di Galileo, dal Sovrano affidata a Eugenio Albèri; a cui davasi per consultore l’Antinori medesimo, Celestino Bianchi e Pietro Bigazzi in aiuto. Ma ne’ due primi volumi soltanto apparisce il nome del Nostro; che ritiratosi il Consultore, egli ne seguì i passi. Le cause son note per gli opuscoli che ambe le parti mandarono in luce; qui non giova fermarvisi, perchè il Bigazzi non fece che seguir l’uomo a cui era legato di gratitudine.
E all’Antìnori doveva, credo, in gran parte l’essere stato eletto nel dicembre del 41 Commesso nell’Accademia della Crusca; la quale, dopo un secolo, abbattuta da un Principe filosofo (come dicevano) e da un Conquistatore avverso agl’ideologi rialzata, diceva finalmente di volere dar mano alla quinta edizione del suo Vocabolario. Credè il Bigazzi d’aver trovato la sua nicchia: e a me, che appunto allora cominciavo a conoscerlo (da un cataloguzzo di libri vecchi si cominciò), scrivva dell’Accademia con gran riverenza, e della Tavoba de’ citati con aria di mistero: perchè io, Giovanissimo e un po’ infarinato di quelle cose, ricevevo le confidenze dell’amico quasi iniziazione. Nè queste cose dico per ischerzo; chè mi rammentano l’età più bella, quando si prende a conoscer gli uomini, e si scelgono gli amici; preparando agli anni più tardi consolazioni e dolori.
Poche cose aveva pubblicato il nostro collega prima d’allora; perchè dovendo campar la vita, senza scostarsi dagli amati libri, faceva perizie, cataloghetti, traduzioncelle, lezioni. E quando diede in luce il primo opuscolo letterario, fra timido e modesto, vi pose in fronte il verso di Dante:
Ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia.
Era il primo quaderno d’una Miscellanea, dove intendeva raccogliere documonti di storia e di lettere; sentendo, per così dire, l’influsso di quella nuova scuola, che doveva darci l’Archivio Storico, e aprire alla storia gli archivi. Nell’Archivio storico Italiano inserì la vita di Bartolommeo Valori l’antico, scritta latinamente da Luca della Robbia e da Piero Della Stufa volgarizzata: dagli archivi trasse alcune vite degli Strozzi, scritte dal buon Lorenzo di Filippo: e una gran copia di documenti che illustrano la vita politica e letteraria di quello Strozzi, che non amò tanto la libertà della patria quanto la propria grandezza, e forse per la vita pagana meritò la fama d’aver finito come Catone. I quali documenti corredano la tragedia di Giambattista Niccolini, che volle ammonito il lettore, come «quelle notizie e lettere» fossero dal Bigazzi «con infaticabile diligenza, con critico acume, con lungo amore corrette e ’corredate, non altrimenti che la Vita dello Strozzi, di dotte e laboriose note». E veramente nel raccogliere come nel comentare si portò benissimo, giovandosi spesso di cose inedile, e della sua privata libreria; cosicchè pochi libri servono meglio alla cognizione di un tanto vario e infelice periodo, come quello che nella storia della Repubblica Fiorentina sta in mezzo al gonfalonierato del Soderini e alla disfatta di Montemurlo.
Alla privata libreria ricorreva Pietro Bigazzi ogni volta elle gli piacesse di porre in luce qualcosa; e perchè vi aveva di tutto, i suoi opuscoli sono una mescolanza d’antico e di moderno, di pubblico e di familiare. Ma quello che poteva veramente tornare di gran profitto agli studi, sarebbe stato un largo Catalogo di que’ mille manoscritti che aveva acquistati da’ Moreni, e aumentati da trenta e più anni. Nè il volere gli mancò: e al dolce rimprovero di qualche amico, soleva rispondere; un tempo, che il bisogno d’attendere a occupazioni lucrose gli era d’impedimento; poi, che le forze non gli bastavano. Pure un saggio ne fece, e alla Colombaria venne in due volte leggendolo, prima di dario alle stampe: ultima cosa da lui pubblicata per ricordo delle nozze d’una giovinetta a lui cara; che non avendo figliuoli, a questa nipote della moglie sua e ad un nipote dal lato di fratello portò affetto di padre. E fra le braccia di loro e della moglie chiudendo gli occhi, una cosa non ebbe a temere, che la preziosa raccolta Moreniana, da lui fatta più ricca, potesse andare dispersa o fuori d’Italia: pensiero a lui per molt’anni molesto, quando a lui non agiato venivano le offerte dell’opulenza straniera. Il dinaro, della Provincia fiorentina fu bene speso in acquistarla; resta che il senno ne procuri la conservazione, e la renda utile a chi la paga. E all’una cosa come all’altra provvederebbe un Catalogo; pe’ libri, assai compendioso, ma pe’ manoscritti foggiato alla maniera di quello che la sola Laurenziana, tra le biblioteche fiorentine, possiede.
Nella Laurenziana l’esempio del Biscioni e del Bandini impose come un obbligo ai successori; e nella prima meta di questo secolo fu compilato il Catalogo de’ codici che la soppressione Napoleonica aveva tolto a’ conventi. Fatica non lieve, e che si contiene in quattro grossi volumi, quasi tutti di mano di quell’abate Pietro Del Furia, che fu de’ sessanta urbani della nostra Società sino dal 1831, e a’ 14 del passato febbraio morì. Era nato in Firenze il 30 giugno del 1806 da Francesco Del Furia, che datolo a istruire prima agli Scolopi nelle lettere umane e al Seminario nelle scienze ecclesiastiche, volle poi da sè erudirlo nelle lingue dotte per farne un conservatore di biblioteche. E parmi di poterlo dire; perchè non ancora diciottenne lo chiedeva aiuto nella Marucelliana, per i sei mesi che Francesco Inghirami veniva dispensato dall’ufficio: e il Consiglio de’ Ministri pregava il Principe d’annuire, in riguardo «al rispettabile e benemerito Bibliotecario». Vacò nel 34 il coadiutore per le lingue orientali nella Laurenziana; chiesero vari, e fra gli altri un tale, che fra i titoli metteva il tenere non so che amministrazione. E poteva dire d’esser un gran beccatore d’autografi! Non fu difficile al bibliotecario Del Furia escludere certi postulanti: altri ne pospose al figliuolo perchè ignari di greco e d’ebraico, nè paleogratì; mentre del suo Pietro attestava, che a quelle lingue s’era applicato con profitto, e già aveva collazionato su’ codici laurenziani la Storia varia di Eliano per il consigliere Iacobs di Gotha, le Familiari di Cicerone per l’Orelli di Zurigo, il Poema di Dante per il Witte di Breslavia e per il Nott inglese; al quale copiò la Storia dell’Avventuroso Ciciliano, pubblicata in Firenze nel 32, e l’anno dopo in Milano con più accuratezza. Così l’ebbe coadiutore, e nel maggio del 42 sottobibliotecario; associandolo alle molte collazioni ond’era ricercato dagli stranieri, e alla compilazione dei Cataloghi di cui ho parlato. Lavori lunghi e faticosi, che tolsero ai nostri vecchi bibliotecari il modo di venire in fama con opere proprie: per che dell’Abate Del Furia non posso citarvi una riga che sia a stampa. Ho cercato invano nell’archivio di questa Società tre Lezioni sue; nè pare le serbasse fra le proprie carte. Discorse in una degli Uffici di Cicerone, mostrando (cosi il Segretario ne fece ricordo negli Atti) «come senza i lumi della vera religione potò il filosofo moralista romano penetrare nella cognizione del vero e del retto, guidato solo dalla ragione e dalla scienza». Nell’altre illustrò due codici Laurenziani; quello che contiene la Storia de’ Narbonesi; romanzo del medico Follieri, volgarizzato dal francese per un Andrea da Barberino, ch’è testo di lingua: e quello di alcune opere di (cod. IX del pluteo XXVII destro), fermandosi sull’opuscolo De ortu scientiarum, creduto inedito. Ma il collega nostro Anziani, che nell’ufficio del defunto Del Furia è degnamente succeduto, mi nota che a’ tempi del Bandini fu copiato per il padre Bonelli, minore osservante, il quale nella edizione trentina dell’Opere di San Bonaventura lo inserì.
Fu l’Abate Del Furia assiduo nel suo ufficio; sicuro nella paleografia delle tre lingue, e (come mi accerta chi fu seco parecchi anni) arbitro di tutte le difficoltà che s’incontrano in un esercizio così spinoso. Di poche parole, senz’abbordo, con brusca cera; parve talora men gentile a’ visitanti non sempre discreti, e ai poco intendenti men abile di quello che fosse. Ma come vi sono certe nature d’uomini che sanno far comparire il poco valsente, così ne son altre che non riescono a spendersi per quel che valgono. E alla fortuna, per il solito, se ne dà colpa.
Fu di questi Giovambatista Uccelli, collega nostro urbano; e poniamo ch’egli avesse ragione di dolersi un poco della fortuna, perchè nato di buona famiglia, e circondato d’agiati parenti, dovè campare la vita per sè e per la sua tenera famiglinola lavorando di penna umilmente. Alle scuole di San Giovannino fece tutti gli studi; dopo aver languito ne’ primi anni tra malattie e grammatiche. Il Basettini lo destò alla poesia; il Gatteschi lo invogliò della storia: ma nel Tanzini gli parve di trovare ogni cosa. Ed era ingegno versatile quel Padre Numa; forse per ciò meno adatto a guidare altri ingegni. Si direbbe che il nostro Giovambatista pigliasse a scimmiarlo. A diciassett’anni abbozza una commedia, e pone in tragedia Corso Donati; si fissa su certa tromba che doveva tirar su acqua senza stantuffo, e d’altre macchinette fantastica per mesi: bada alla chimica; va a notomia; disegna all’Accademia sotto il buono e bravo Calendi. Là trova un francese e due inglesi, che ripetono l’insulto famoso alla terra de’ morti, negli anni che il Gioberti ricordava all’Italia il Primato: ed egli improvvisa l’Italia rivendicata; la legge a que’ giovanotti, che fanno una colletta, e si stampa. A spese de’ compagni stampò anche una Cantata all’Italia nel memorabile anno 47; e non eran parole: che venuta la guerra, e non potendo per amor della madre, che aveva solo lui, prender l’armi, ammalò. Carlo Milanesi, ispettore delle scuole accademiche, scorse questo giovinetto nella baraonda, e prese a volergli bene: l’Abate Zannoni, vedendolo assiduo nella Riccardiana, l’aiutò: e questi miei cari amici lo fecero conoscere a me nel 56. Aveva stampato, oltre quell’orazione e que’ versi, un volgarizzamento del Bellum Senense di Pietro Angelo Bargeo; ma egli stesso non ne parlava ormai più. Tutto era nel raccogliere notizie per una compiuta illustrazione di Firenze ne’ suoi Monumenti, sotto forma di Dizionario: e vi lavorò molt’anni con una costanza da meritare altro premio. Il suo Programma, che prometteva l’opera in dieci volumi, fu accolto da pochi veramente nobili cittadini; ch’egli cercava patroni più che associati: e tutte le sue fatiche rimasero in molte migliaia di schede, tranne alcuni capitoli sulla Firenze antica, che dovevano servire d’introduzione all’opera maggiore dei Monumenti. Nel 67 tentò se almeno questa parte trovasse un editore; e fu un altro disinganno. Lo trovò per le Memorie storiche di Bientina e del suo Lago; operetta giovanile, a lui cara: chè di là era la madre sua, là fanciullo passava tra i pescatori gli autunni, là trovava le memorie d’un primo affetto innocente. Ma condotta la stampa a due quinti, lo stampatore gli fallì, e appena potè ricuperare il suo manoscritto. A queste cose ripensando, l’Uccelli se n’affliggeva.
Fu lieto d’esser de’ nostri, e venne assiduo alle adunanze, non di rado ci lesse qualche monografia fiorentina; brani dell’opera sua.
Io ve n’ho parlato nei passati rapporti; alcune sono alle stampe: santa Maria della Croce al tempio, Il Convento di San Giusto alle mura e i Gesuati, il Palagio del Potestà. Una bella raccolta di documenti su’ Reali di Savoia e di Braganza, stampata quando la principessa Pia andò sposa al re di Portogallo, è tutta fatica del nostro collega; comecchè altri se ne avesse i ringraziamenti e le croci. Ma egli doveva lavorare per vivere; e per vent’anni, ogni giorno, saliva agli archivi o alle biblioteche, per servire italiani e stranieri; troppo spesso manuale copista, ma non di rado partecipe de’ loro studi. Lungo e illustre sarebbe il catalogo degli uomini che a lui ebbero ricorso; e se tutti ne apprezzarono i servigi, alcuni gli dettero la loro amicizia. E gli era conforto; che dalla natura ebbe l’Uccelli una certa alterezza (e prego che la parola si prenda nel significato più bello), mentre la fortuna lo tenne basso, negandogli così i comodi della vita come le care sodisfazioni dell’ingegno. Ma come seppe raumiiiare gli spiriti, così vinse la fortuna con la virtù; la quale aveva le sue scaturigini da un’altissima fonte, il vangelo. Amò e perdonò, sofferse lungamente e morì a un tratto; e fu pietoso consiglio di Provvidenza, perchè lasciava a quarant’anni una buona compagna e tre creature. Giovambatista Uccelli era nato in Firenze il 5 d’aprile 1829; mancò l’undecimo di novembre 1869.
Del Consigliere Pietro Capei, morto il 13 d’agosto del 1868, se non fosse oggi troppo tardo l’elogio, riuscirebbe povero sulle mie labbra, dopo quello che ne fecero il nostro Presidente nell’Archivio Storico Italiano, ed il collega Tabarrini negli Atti de’ Georgofili. A noi basti aver presente l’affetto che il Capei portò a questa Società, e la dottrina con la quale discorse specialmente delle cose etrusche; dopo che la Colombaria promosse quegli scavi, che dovevano essere invito a impresa più grande.
E di Giovanni Masselli, l’erudito annotatore del Vasari, l’arguto scrittore d’arti belle, che ci abbandonò nel marzo del 69, dopo una vita che a lui solo parve lunga, non potrei ripetere che quelle poche ma schiette parole, che, ancora calde le ceneri del buon vecchio, scrissi col cuore L’opere che egli ha illustrate, gli scritti che ha dati alle stampe sono noti a voi: della sua vita, che tu pure consacrata ai pubblico servigio, volendo in un concetto comprenderla, direi: Bene latuit.
In questo biennio non vi fu cosa straordinaria: che neppure i centenari son tali in questo secolo. Cadde l’anno scorso il quattrocentesimo anniversario della nascita di Niccolò Machiavelli: e alle cerimonie che Firenze ordinò a celebrare il giorno terzo di maggio, la Colombaria fu presente nella persona del dottore Mino Coppi.
Fra i doni che ricevemmo dai nostri e dagli estranei basti ricordare, come più singolare, quello del Dottor Enrico Gallizioli. E fu un intaglio in rame dell’affresco che, Giovanni Mannozzi, detto da San Giovanni, fece per commissione di Cosimo II, nella facciata della casa in cui finiscono le due strade che fanno capo a Porta Romana: intaglio tanto più pregevole, che il dipinto, maltrattato e guasto fino dai tempi del Baldinucci, è oggi appena ricordato da pochi frammenti.