Archivio storico italiano, serie 3, volume 12 (1870)/Società Ligure di Storia Patria
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SOCIETÀ LGURE DI STORIA PATRIA
Anno xiii
Inauguratosi il nuovo anno accademico con un discorso del Presidente comm. Antonio Crocco, nella tornata generale del 28 novembre 1869, ripigliavansi tosto dalle sezioni le adunanze ed i lavori particolari.
Il socio cav. Cornelio Desimoni, proseguendo gli Studi Numismatici, ai quali già di proposito aveva indirizzate nel passato anno le sue ricerche, leggeva l’ultima parte dei medesimi, porgendone come un riassunto in due serie di tavole, una per le monete d’oro, l’altra per quelle d’argento e di biglione, e spiegando gli intendimenti ed il metodo giusta cui le avea compilate. Indicava le fonti cui aveva attinto, ed i criteri che gli erano stati di guida; e notava in qual modo potesse in molta parte supplire al difetto dei libri della zecca genovese, distrutti pel noto bombardamento del 1684.
Quanto ai criteri direttivi, il cav. Desimoni soggiungeva come il più importante sia l’unità, o base monetaria, non solo dell’oro ma dell’argento; senza della quale e del rispettivo rapporto non può aversi idea sì dei valori e delle crisi, sì delle distinzioni tra il corso forzato ed il volontario, nonchè tra l’errore e la verità.
L’unità d’argento, nel medio evo, è lo sterlino; quella d’oro il fiorino. Il primo era tagliato sull’antichissimo sistema di 160 pezzi a marco, e 240 a libbra o lira; e perciò rappresenta la lira giunta fino ai nostri tempi, di 240 denari o 20 soldi. Se non che, il denaro che nella più antica età era di buon argento, e perciò identico allo sterlino, ricevendo successivamente una lega sempre maggiore, era cagione che lo sterlino valesse poscia più denari; onde a questi si diè nome di minuti, a quello di grosso.
L’Autore enumerava quindi più altri criteri; e concludeva accennando con qualche esempio alla utilità che da essi deriva alla storia numismatica in generale.
Come appendice agli Studi suddetti, il cav. Desimoni faceva quindi relazione di alcune monete genovesi inedite, rarissime o singolari. Additava le diverse cause di tale rarità; e notato come per le crisi del 1508 e 1528 il grosso di buon argento diventasse il cavallotto a metà fino, rilevava tra quest’ultima specie un esemplare unico conosciuto, colla leggenda di san Bernardo e la data del 1630: leggenda e data, che si riferiscono ad un voto fatto dalla Repubblica nel 1625, al Monte di san Bernardo eretto lo stesso anno, ed alla chiesa omonima terminata nel 1629.
Presentava inoltre il calco e i disegni delle tre monete seguenti:
1.° Un grosso pezzo di buon argento, non mai finora veduto, di Luigi XII di Francia, colla leggenda comvnitas ianvae e collo stemma gigliato fra due istrici; i quali dati riportano siffatta moneta al secondo periodo della dominazione di quel monarca su Genova (an. 1507 in 1512). E siccome il suo peso è di quasi 38 grammi, ossia eguale a quello di tre testoni da una lira, così il detto pezzo altro non può essere che uno scudo da lire tre, che era pure il valore del contemporaneo scudo di oro.
2.° Un piccolissimo pezzo d’oro, del peso di centigr. 45 circa, colla leggenda iana da una parte e le lettere cv (iniziali di cvnradvs) dall’altra. Il peso poi di questa monetina, la quale si dimostra dei più antichi tempi, risponde ad un ottavo di genovino d’oro, allorquando è certo che questo non potea valere più di soldi otto, e perciò la medesima altro non può essere che il soldo effettivo di quel periodo. Donde si deduce che siccome il genovino passò a valere soldi 10 e poi sempre più, mentre che non riuscì possibile impiccolire ulteriormente il soldo d’oro, così fu necessario lo ingrandire invece il soldo d’argento, ossia raddoppiarlo per farne il soldo effettivo.
3.° Un grosso pezzo d’argento col tipo dei più antichi grossi e colla leggenda ianva; se non che mentre il peso di quelli è di gr. 1, 45 al più, questo al contrario pesa gr. 5, 33. Il cav. Dosimoni opinava pertanto che in siffatta moneta avesse per avventura da riconoscersi un esemplare di quelle di tipo genovese che Enrico VI fece battere nella nostra città il 1191, e delle quali disegnava giovarsi per sopperire ai bisogni della conquista della bassa Italia.
Il socio Belgrano esponendo il concetto a cui s’informa la Illustrazione del Registrum Curiae Archiepiscopalis Januae già da lui pubblicato negli Atti della Società1, notava i punti che aveva tolti principalmente a subbietto del suo lavoro; e fermatosi in ispecie a toccare delle famiglie nelle quali all’aprirsi del secolo XII il dominio utile dei beni della Chiesa Genovese trovavasi ripartito, soggiungeva come tutte o quasi si riannodino a due soli stipiti: i Conti di Lavagna ed i Visconti di Genova. Mostrava che lo studio di questo argomento, oltre la parte che tocca in modo diretto al Registro, ne ha pure un’altra di non poco rilievo; perchè le anzidette famiglie, e quelle in particolare derivate dai Visconti, sono le stesse che costituirono il nucleo del Comune Genovese, e ne ressero ne’ suoi esordi i destini. La discendenza poi delle famiglie in discorso dalle due succitate apparirà chiara, non solo pel complesso dei documenti del Registro, ma per quelli del Cartario Genovese, che ora appunto è in corso di stampa, e che dovrà contenere tutti gli atti ancora inediti anteriori al 1100. Onde, compilandoli su tali basi, l’Autore aggiungerà alla predetta Illustrazione una raccolta di schizzi genealogici.
Cominciando quindi a leggere la Illustrazione medesima, il socio Belgrano toccava dell’epoca del Registro, la cui compilazione risale al 1143, de’ suoi varii ordinatori e delle sue vicende; riconosceva che il codice membranaceo pervenuto agli Archivi Governativi per legato di Federico Federici nel secolo XVII, non è propriamente l’originale, ma un duplicato eseguito verso il 1183; accennava ad alcuni antichi autori i quali vi attinsero o ne fecero menzione; e passava in ultimo alla descrizione del codice stesso, il quale è guasto in più luoghi e manca di fogli non pochi.
Il P. Amedeo Vigna, perseguendo il Codice Diplomatico delle colonie tauro-liguri, e la rassegna degli avvenimenti in proemio a ciascun anno dallo stesso abbracciato, discorreva de’ fatti pertinenti al biennio 1458-59. Accennava ad alcune riforme introdotte dai Protettori delle Compere di San Giorgio circa la distribuzione e la durata degli uffizi in quelle contrade, esponeva il contenuto delle istruzioni consegnate ai magistrati, e dimostrava come fossero informate a principii di severa giustizia e di profonda saggezza. Toccava in succinto dei gloriosi fatti operati in Levante dalla flotta romana negli ultimi anni del pontificato di Callisto III; e diceva come soltanto dopo la costui morte (6 agosto 1458) ripigliasse il Turco nuovo ardimento, e minacciasse coprir di sangue e di rovine l’Europa meridionale. Frattanto un corriere giunto da Caffa, ritraeva coi più sconfortanti colori lo stato miserabile de’ taurici possedimenti; e promovea dall’Ufficio e dal Consiglio delle Compere le provvidenze che erano indicate come le più necessarie dalla gravità della situazione. La pia opera delle indulgenze a pro de’ Caffesi, predicata in Corsica dal frate minorita Vannino, recava anch’essa buonissimi frutti. E siccome alla presidenza della Giunta di quest’opera venivano da’ Protettori successivamente chiamati i vescovi caffesi Giacomo Campora e Girolamo Panizzari, così l’Autore ne toglieva opportunità a parlare dei medesimi e delle relazioni corse a loro riguardo fra il Banco e la Santa Sede.
Nel 1868 la Società avea pubblicata nel volume VIII de’ suoi Atti una collezione di Documenti ispano-genovesi, tratti dall’Archivio di Simancas e riguardanti in ispecie il periodo che corre dalla congiura di Gian Luigi Fieschi al viaggio del principe Filippo di Spagna per l’Italia superiore, la Germania e le Fiandre (1547-1549). Ora poi il march. Massimiliano Spinola avendone compiuta la Illustrazione, e di questa dando perciò lettura in diverse tornate, osservava come alle macchinazioni del Fieschi (circa le quali pur non mancava di rilevare nuovi ed importanti particolari) tenessero immediatamente dietro quelle di Ferrante Gonzaga e dell’oratore Gomez Soarez de Figueroa per annettere Genova all’impero di Carlo V. Accennava alle lotte virilmente sostenute da Andrea D’Oria contro quei ministri cesarei, i quali, a conseguire lo scopo, aveano proposta all’imperatore la erezione di una grande fortezza nella metropoli della Liguria; ed all’ambasceria di Francesco Grimaldi dal D’Oria medesimo inviato a Cesare in Germania, con missione di scongiurare il pericolo notificandogli che i Genovesi restituiti a libertà nel 1528 non soffrirebbero mai si adattasse loro per tal guisa nuovamente il giogo sul collo. Prevaleano siffatte ragioni nell’animo di Carlo; ma non così fortemente, che la congiura di Giulio Cibo (comecchè abortita prima di nascere) non porgesse al Figueroa nuova occasione di richiamare l’attenzione di Cesare ai primieri disegni, con dimostrargli la poca sicurezza in cui doveano ritenersi in Genova gli interessi di Spagna. E questa volta l’imperatore chiarivasi molto meglio disposto a secondarlo; quando il D’Oria spedivagli Adamo C mturione con incarico di esporgli come per l’adesione a siffatte proposte rimanendo profondamente vulnerate le capitolazioni che stringevano esso Andrea all’impero, egli si ritenesse sciolto dal continuare a questo i suoi servigi. Cesare adunque sostava di bel nuovo dal mandare ad effetto le prese deliberazioni; ma il negozio non mancava perciò d’entrare indi a poco in un terzo ed ultimo stadio. Imperocchè il Figueroa ed il Gonzaga, pur disperando aver favorevole il D’Oria, si diedero a carezzare l’idea di appoggiare l’esecuzione del combattuto progetto ad altri cittadini, la cui autorità veniva dopo quella di Andrea e la cui devozione all’imperatore non pativa conimi. Dibattutasi però maturamente la pratica in più consigli, che si tennero in Genova stessa nel dicembre del 1548, coli’ intervento del Duca d’Alba alla presenza del principe Filippo, non tardarono a rilevarsi i pericoli gravissimi che avrebbe tratti con sè la divisata evoluzione. Perchè il popolo ricisamente avverso agli Spagnuoli avrebbe potuto prorompere in eccessi; e Adamo Centurione (valendosi delle galee comandate da Marco suo figlio) rivolgere lo Stato di Genova alle parti di Francia.
A conclusione del suo lavoro il socio Spinola descrivea quindi la condizione politica interna ed esterna della Repubblica verso la metà del secolo XVI, e noverava le cause di debolezza che già cominciavano a manifestarsi nella medesima.
Ma quel periodo di storia, il quale dai documenti di Simancas ha già ricevuta così viva luce, arricchivasi pure di altre scoperte circa la parte che tocca propriamente alle trame dei Fieschi. Difatti il socio Belgrano presentava e facea relazione d’alcuni brani di due rilevantissimi processi testè rinvenuti dal comm. Antonio Merli nell’archivio del Principe d’Oria. L’uno contiene gli atti introduttivi della causa mossa contro Scipione Fieschi per delitto di lesa maestà; l’altro è una allegazione contro il Fieschi medesimo, il quale mirava a rivendicare il possesso dei feudi de’ suoi maggiori. E siccome a tal fine sforzavasi dì provare non aver punto partecipato alle trame anzidette, così l’oratore pigliava a confutarlo colle deposizioni di oltre a venti testimoni, i quali parlano dell’andamento generale di que’ moti, e della parte onde vi si era in ispecie distinto lo stesso Scipione.
Il prefato socio Merli comunicava pure il Cifrario generale del re Filippo II per la corrispondenza di Stato: documento opportunissimo alla intelligenza delle carte diplomatiche di quel monarca, e de’ suoi agenti o ministri.
Il socio Belgrano continuando poscia il suo lavoro Delle Feste Genovesi, trattava delle pompe ducali e delle gare d’armi.
Considerata la natura dei torbidi che provocarono in Genova la istituzione del Governo dogale, e toccato delle norme che regolarono l’elezione, l’autorità e gli onori dei Dogi a vita, l’Autore stringea brevemente quanto in siffatta materia disposero le leggi dal 1528 in appresso rispetto ai Dogi biennali. Esponeva con quali cerimonie avesse luogo la loro accettazione, e come si accrescesse la solennità di quel rito dopo che Carlo V ebbe conceduta alla Repubblica la facoltà di sovrimporre un aureo cerchio al pileo ducale e di far recare innanzi al doge una spada. Diceva poscia del titolo di Serenissimo assunto insieme dal doge, dal senato e dalla Repubblica, e finalmente di quella di re di Corsica attribuito al doge stesso nel 1637. Notava quali modificazioni ed accrescimenti inducessero que’ titoli negli stemmi, nelle vesti, nei cerimoniali; descrivea le feste della incoronazione, ed in ispecie la sontuosità del banchetto e la copia de’ trionfi. Dichiarava in appresso come allo spirare del biennio rimettessero i dogi la dignità; ed accennando per ultimo alle onoranze rese ai pociiis’imi, i quali durante la stessa vennero a morire, concludeva colla descrizione dei funerali celebrati nella cattedrale di san Lorenzo a Francesco Maria Sauli nel maggio del 1699.
Circa poi alle gare d’armi, il socio Belgrano, premesso come le giostre ed i tornei non sembrino doversi tenere in conto di molto antichi nè riputarsi punto frequenti appo de’ Genovesi, toccava di un armilustre seguìto nel 1463 fra Ettorino Fieschi e Leonardo Ravaschieri; e notava come il torneo la cui memoria rimase più celebre e popolare, sia quello che fu combattuto da’ nobili nuovi in Ponticello nel carnevale del 1575. Soleano però i liguri gentiluomini partecipare a quelli che si bandivano presso le corti straniere; ed a questo proposito l’Autore facea ricordo delle rappresentazioni del Castello di Gorgo-Ferusa, del Monte di Feronia e de! Tempio d’Amore che seguirono in Ferrara per ordine di quel duca Alfonso II.
La bell’opera del ch. Barone De Nervo forniva, al medesimo Belgrano argomento di una rivista pubblicata quindi in questo periodico2; ed era eziandio oggetto di nuove ricerche da parte dei march. Massimiliano Spinola e march. Antonio Carrega3. Il quale ultimo opinava fra le altre cose doversi ritenere non del tutto conforme al vero l’assentimento del Corvetto ad un progetto imaginato nel 1814 da un nucleo d’illustri uomini per la costituzione dell’unità d’Italia sotto l’impero di Napoleone e della sua discendenza, comecchè ciò sia asserito dallo anonimo scrittore di un rarissimo opuscolo uscito in luce nel 1825 in Brusselles col titolo La verité sur les cents jours, ec.
Le ricerche intorno alle cose marittime ed agli annali della tipografia ligure procedeano pure in quest’anno con felice successo. Perchè, oltre alla presentazione fatta dal cav. Federigo Alizeri di un Discorso inedito del distinto geografo del secolo XVII Ascanio Persi circa la postura dell’antica Savona, e quella del comm. Merli di una carta del porto di Genova, che vale a chiarir l’epoca dello ingrandimento della darsena, e ce ne rivela autore l’ingegnere Genesio Bresciani nell’ultimo terzo del secolo XVI, la Società valendosi dell’opera gentile del prof. cav. Alfredo D’Andrade, illustre e benemerito cultore delle belle arti, procuravasi dagli archivi di Stato di Lisbona buona copia di documenti riguardanti il genovese Emanuele Pessagno primo ammiraglio del regno di Portogallo, i quali non tarderanno ad essere pubblicati negli Atti.
Inoltre il cav. Desimoni porgea notizia d’alcune memorie attinenti alle scoperte ed alla navigazione. E cominciando dalle regioni del Plata, ciie oramai per l’ingente numero de’ genovesi colà emigrati si può chiamare una seconda Liguria, si rallegrava che le sue grandi comunicazioni fluviali fossero appunto tentate innanzi a tutti dai liguri Nicolò Descalzi e Bartolomeo Bossi. Toccato quindi di altri genovesi, i quali resero illustre 11 loro nome in quelle lontane contrade, notato come il Bossi descrivesse il suo viaggio in lingua spagnuola fino dal 1863, e come il capitano Emanuele Bozzo pubblicasse anch’egli nel 1869 un simile viaggio, anzi una replica o traduzione del precedente, inserendolo ad altre notizie circa le più recenti vicende del Paraguay, continuava osservando come, a differenza di quanto a primo aspetto potrebbe sembrare, i Genovesi abbiano anche dopo Colombo assai contribuito alle scoperte dell’America meridionale. Difatti l’illustre D’Avezac ha di fresco rinvenuta la origine ligustica de’ celebri Giovanni e Sebastiano Cabotto; e ad ogni modo poi vuolsi ritenere come i Genovesi siano del pari stati lungo tempo fra i primi a raccogliere le più sollecite notizie di tali discoprimenti e a delinearne analoghe carte. Difatti una tra queste, che è di Visconte Maggiolo e reca la data del 1519, contiene, rispetto all’epoca, la più completa nomenclatura di quelle terre sino alla foce del Plata; come le carte di G. B. Agnese contengono la più esatta indicazione delle coste messicane dal Pacifico alla California.
L’Autore diceva poscia di un Memoriale del Colombo, edito dal ch. Vincenzo Promis, coll’aggiunta di una Nota sulla interpretazione della famosa Bolla di papa Alessandro VI per la divisione del nuovo mondo fra i re di Spagna e di Portogallo; accennava a due Memorie del già lodato D’Avezac sulle vicende e le edizioni di Waltzemüller (Hylacomilus), e sul viaggio del capitano di Gonneville (prodotto per la prima volta nella sua integrità), il quale fino dal 1503 dovrebbe essere disceso in due punti dalla costa brasiliana. Ragionava per ultimo del genovese Antoniotto Usodimare; e notava che mentre questi era conosciuto finora soltanto pel cenno fattone dal Cadamosto e per la sua lettera del 12 dicembre 1455 (scritta fra la prima e la seconda spedizione alle regioni dell’Africa occidentale), di presente invece, per gli atti rinvenuti dall’Autore, se ne hanno più altre notizie. Rilevasi difatti come l’Usodimare dimorasse dapprima negoziando in Siviglia, e poscia si riducesse in Portogallo, a seguito del suo fallimento, del quale si possiede ora il processo; si ha quindi certezza che Antoniotto morì prima del 1463, lasciando un figlio chiamato Anfreone, che fu banchiere in Genova e quivi esercitò onoratamente pubblici uffici.
Circa poi alle cose tipografiche, più documenti in proposito veniano comunicati dai socii Alizeri, Merli e Belgrano. Il quale inoltre leggendo alcune Notizie di Giuseppe Pavoni, notava come questi fosse introdotto in Genova nel 1598 da Antonio Roccatagliata cancelliere ed annalista della Repubblica, e come entrambi vi esercitassero congiuntamente la tipografia, con privilegio di privativa del senato. Di questo privilegio poi, dopo la morte del Roccatagliata (1608) era sollecito il Pavoni a chiedere per sè solo la rinnovazione; ed ottenutala con limitazione a tutto il 1620, due anni prima che spirasse il termine, proponea di bel nuovo alla Repubblica le proprie istunze che gli fruttavano la conferma della concessione per un altro decennio. Presentavano però, benché vanamente, al Senato vivissime opposizioni alcuni tipografi genovesi; e lamentavano le tristi conseguenze a cui siffatte privative li aveano esposti. Imperocchè Marc’Antonio Belloni erasi veduto costretto a trasferire le suo stampe da Genova a Carmagnola; Domenico Roncagliolo aveva emigrato a Napoli; Simone Molinari si era ritirato in Loano (feudo dei principi D’Oria) e Giovanni Maria Valeriana si riduceva a stampare carte da giuoco. Sorgeano pure di que’ giorni le tipogratie clandestine; alle quali accennando il socio Belgrano, dicea delle pene comminate dalla Signoria nello intendimento di farle cessare.
Facendoci ora agli studi che hanno tratto alla storia delle belle arti, ricorderemo dapprima quelli dell’avv. Enrico Lodovico Bensa, con titolo di Cenni sull’architettura in Liguria nel medio evo, di una parte de’ quali diede lettura in più sedute. Descritte le condizioni di quell’arte alla caduta dell’impero occidentale, notava le tre forme che allora sorsero nuove: la bisantina, la romanica, la lombarda; e detto come a quest’ultima spettino alcuni de’ più antichi edificii sacri di Genova, passava a ragionare delle torri di San Cosma, San Donato e Santa Maria delle Vigne. Descriveva per sommi capi le due porte laterali del Duomo di San Lorenzo, e più lungamente ragionava del suo prospetto inferiore, riguardo al quale pareagli non dover seguitare la comune sentenza che lo fa risalire al secolo XI. In questa opinione non consentiva però il cav. Alizeri; mentre il Bensa pigliava in apposita Memoria a sostenerla. Limitava questi le decorazioni esterne e l’architettura interiore tra la fine del secolo XIII ed i principii del XIV; accennava all’incendio del 1296 che distrusse il tetto, la tribuna e le navate, nè sapeva persuadersi che rimanessero illesi gli ornamenti della porta maggiore, l’unica a suo avviso che fosse allora praticata ne! prospetto dello edificio. Osservava la somiglianza dei lavori di commesso che qui si vedono con quelli di alcuni monumenti toscani del secolo XIII, e confrontava gli avanzi della costruzione indubbiamente antichi colla parte che reputava posteriore all’incendio. Rammentava un documento del 1325 all’incirca, nel quale il Comune assegnava all’opera delle colonne di San Lorenzo il decimo dei legati; e pensava che ciò dovesse riguardare la decorazione degli ingressi, avvisandosi che di quell’epoca la interna ricostruzione fosse già ultimata.
Replicava cionondimeno il prof. Alizeri, opinando che alla ricerca della verità fosse per contribuire validamente il paragone fra il portale e la navata, la quale da apposite epigrafi risulta appunto rifatta o modificata tra il 1307 ed il 1312; imperocchè questi lavori che, eseguiti in un solo periodo di tempo dovrebbero mostrarsi di stile conforme, sono invece essenzialmente diversi l’uno dall’altro. Dichiarava come vogliansi attenuare le proporzioni dell’incendio del 1206, limitandone il danno maggiore al tetto dello edificio; mostrava come l’istituzione del deceno sui legati, oltre all’essere di gran lunga anteriore al secolo XIV, avesse anche a durare posteriormente; e come gli operai della cattedrale, per quanto corse di tempo fino al secolo XVII, non cessassero mai di dar mano a costruzioni e riforme.
Il comm. Santo Varni leggeva Sulle antichità di Levanto, con aggiunta di altre notizie4. Parlando della chiesa maggiore di Santo Andrea, ne descriveva il prospetto decorato da una pregevole dipintura, toccava d’alcuni quadri e d’alcune argenterie del secolo XV; ragionava quindi del tempio dell’Annunziata, e notando un bassorilievo della B. Vergine e Sant’Anna che ne orna la fronte, ricercava le analogie che presenta con parecchie sculture e dipinti del Quattrocento; accennava ai Corali miniati, ed alla celebre tavola di San Giorgio, di Andrea del Castagno. Toccando della Loggia edificata nel 1265, ne rilevava il carattere tutto particolare alle costruzioni della Liguria; trattava poscia della chiesa di Nostra Donna della Costa, e da un’antica tavola che ivi sorge nell’abside, traeva occasione di accennare ad una continuata serie d’artisti, i quali ebbero stanza in Genova a partire dal secolo XII. Parlava in seguito delle sculture che abbelliscono tuttora i palazzi Taliacarne e Da Pascano; e descrivea per ultimo una gran pala che serbasi nella chiesa di San Lorenzo a Cogorno.
Il march. Marcello Staglieno facea relazione d’alcuni documenti da lui testè rinvenuti nell’archivio governativo, e riguardanti diversi artisti che nella prima metà del secolo XV aveano stanza in Genova; come i pittori Ughetto da Pisa, Domenico di Vernio, Giovannino di Parigi, Donato e Boniforte da Pavia; gli argentieri Teramo di Daniele e Simone Caldèra di Andòra.
Dei suddetti pittori si hanno più domande, con le quali chiedono alla Repubblica di essere convenzionati pel pagamento delle avarie; ma più particolarmente se ne deducono importanti notizie riguardo ai pavesi Donato e Boniforte. Perchè questi diconsi fratelli; e mentre del primo, alla data del 21 giugno 1434, si afferma che già da molto tempo lavorava pel Comune, il secondo offre di sè, della sua famiglia e delle sue avventure non pochi ragguagli. Oltre di che, asserendosi egli nato di nobile stirpe, il socio Staglieno opinava che fosse de’ Bardi; e che perciò nel Donato di questi documenti si dovesse riconoscere quel Donatus Comes Bardus Papiensis, del quale è nota e lodata una tela della Crocifissione nello spedale di Savona.
Gli atti che riguardano il Daniele ed il Caldèra sono anch’essi della medesima natura; ma ciò che riesce in ispecie notevole si è il complesso delle circostanze esposte dallo stesso Caldèra. Il quale afferma aver soggiornato lungamente in Siena, esercitandosi nello intagliare, nel traforare ed in tutte quelle altre discipline che sono proprie del magistero dell’orafa, nel quale era da tutti e dovunque stimato eccellente; essersi poi recato in Genova a persuasione de’ cittadini costituiti sopra l’opera dell’arca per le ceneri del Precursore, e di questa avergli tosto i medesimi confidato l’indirizzo e la somma. L’Autore notava pertanto come siffatti documenti avvalorino le considerazioni altra volta espresse dal socio prof. Varni, laddove opinava che l’arca in discorso (malgrado la iscrizione che vi si legge) non dovesse attribuirsi al solo Teramo di Daniele5.
Il cav. Alizeri soggiugneva poscia più altre notizie. Accennava l’opera che Donato pavese fu solito di prestare agli orefici con modelli e disegni, sì che l’Università di quest’arte ebbe a patrocinare perchè fosse alleggerito dalle pubbliche gravezze; faceva altresì parola del Boniforte, e per nuovi documenti accertava la loro pertinenza al casato de’ Bardi. Solo movea qualche dubbio che proprio a questo Donato, piuttosto che ad un suo omonimo e prossimo discendente, sia da attribuire la tela di Savona, essendo lo stile di essa disforme dall’epoca del pittore testè ricordato, la cui morte parrebbe avvenuta nel 1451 od in quel torno. Avvertiva quindi la strana coincidenza di nome e d’età d’altri due dipintori, l’uno de’ quali è il Domenico di Vernio indicato dal marcii. Stagliano, e l’altro prodotto dall’Alizeri medesimo si chiama invece Domenico di Nervi. Imperocchè, se questa rassomiglianza e coincidenza (avuto specialmente riguardo alle forme dei caratteri usati nel secolo XV), avea dapprima potuto trar seco una molesta incertezza, e lasciar supporre che le parole de uernio e de neruio accennassero ad un solo e identico artefice; di presente invece ogni dubbio è dissipato circa la reale esistenza di due maestri, l’uno de’ quali è dovuto alla Toscana, l’altro alla Liguria. Domenico di Nervi ebbe un figlio, di nome Giovanni, pittore anch’esso e di merito non comune.
Passando a ragionare di Teramo di Daniele, il cav. Alizeri tesseva col soccorso di molte carte una quasi biografia dello stesso; e adduceva la preziosa testimonianza di un documento che lo dichiara cittadino di Genova e nativo di Portomaurizio. Diceva eziandio come i Caldèra costituissero nel secolo XV una non piccola famiglia d’artefici; e come il già ricordato Simone fosse realmente in quel concetto ch’egli medesimo accennava presso de’ suoi contemporanei, sicchè certe opere di statuaria e di grandissimo momento si voleano eseguite dietro il consiglio e la direzione di quell’abile maestro. Onde interpretando i qualificativi di intaliator et perforator attribuiti al Caldèra nei documenti del march. Stagliano, opinava doversi appunto riconoscere in siffatto artefice lo scultore o modellatore che si prestava ai rilievi da servire all’opera dell’oro; ed essere inoltre da ascrivere a Simone il magistero del forare e del trapungere nella lamina quei gentili rabeschi che fanno il carattere dello stile lombardo teutonico onde s’impronta la bellissima arca già ricordata.
Lo stesso prof. Alizeri leggeva Dell’intarsio in Liguria. Dello aver quivi primamente onorata quell’arte leggiadra, dava egli merito ai Savonesi ed al loro grande concittadino Giulio II pontefice; e però accennato con quanto zelo promovessero le opere del Capitolo nello antico lor Duomo, toccate le vicende cui andò soggetto indi a non molto nel trasferirlo alla nuova Cattedrale, numerati gli stalli, descritti gli ordini, e, quanto è degli intarsi!, procacciato di distinguere in essi due diversi periodi, lodava, malgrado tale circostanza, l’unità nei lavori, e diceva come del concetto del Coro stesso voglia darsi lode ad Anselmo Fornari da Castelnuovo di Scrivia. Al quale affermava doversi in ispecie attribuire i meriti dello intaglio e della complessiva disposizione del Capitolo; pensando che fossero al tutto dipendenti da lui que’ pavesi Andrea ed Elia de’ Rocchi, esecutori della maggior parte delle opere di tarsia. Credeva che altri maestri di commesso avessero pur mano nei lavori accessorii delle sganzelle; e forse un Giuliano da Pisa, da lui scoperto siccome autore di un armadio destinato a rinchiudere gli statuti ed i privilegi del Comune Savonese.
Alle notizie del Fornari l’Autore facea succedere quelle di Gian Michele de’ Pantaleoni compaesano (verisimilmente discepolo) e continuatore dell’opera di Anselmo; e diceva come nel 1521 gli fossero ordinati tre nuovi quadri, quelli probabilmente che paiono principali fra gli altri, e che mostrano l’effigie di papa Sisto IV e di Giulio.
Continuando poi la sua trattazione colla storia del Coro nella Cattedrale di Genova, il cav. Alizeri lo riconoscea privo di quella unità che gli parve si pregevole nel Capitolo di Savona; e notava come per le tarsìe qui tornino in campo il Fornari e un de’ Rocchi, l’Elia. Ma il primo, che era incaricato di tutta l’opera, avendola disertata nel 1520, non lanciando che diciassette sganzelle, fu scelto a continuarla, sei anni appresso, il Pantaleoni; il quale però ai patti stretti coi Padri del Comune tenne brevissima fede. Rimanevano allora di bel nuovo sospesi i lavori delle tarsìe (proseguendosi invece quelli degli intagli da Giovanni Piccardo maestro eccellentissimo); e ripigliavansi poi del 1540, avendone tolto l’incarico il valente frate Damiano da Bergamo in unione al suo conterraneo e forse congiunto Giovanni Francesco Zambelli.
Deplorati quindi i molti danni patiti dal Capitolo nei secoli addietro, l’Autore cercava quali fra le storie di commesso e quali fra gli intagli decorativi si dovessero attribuire ai diversi maestri; nel che attenevasi così a’ documenti come al raffronto de’ singoli postergali con quelli del Coro Savonese. Finchè, dopo un rapido cenno dei restauri testò eseguiti per liberal provvidenza del Municipio e per le cure indefesse del socio comm. Varni, concludeva notando alcuni particolari attinenti a quel Gian Giacomo genovese, che nel secolo XV fe’ nel Coro del Duomo piacentino bellissime prove di commesso e d’intaglio.
Per ultimo il socio comm. Merli, al quale negli anni addietro era stata affidata l’Illustrazione del Palazzo D’Oria a Fassolo, facendo relazione delle ricerche da lui istituite a questo proposito, leggeva la Storia dei possessi dorieschi in quella regione, avvertendo come si estendessero ad una località denominata Paradiso, e constassero di più case e terreni già de’ Lomellini. Quivi appunto, spianate le antiche abitazioni, Andrea D’Oria facea costruire la propria sontuosa dimora; e però il riferente mostrava, insieme con altre, l’erroneità della tradizione che vuole il detto Palazzo sia quello stesso onde il Comune avea nel 1374 gratificato Pietro da Campofregoso per la conquista di Cipri. Osservava che mentre il palazzo Fregoso sorgeva nel borgo di san Tommaso (cosicchè trovasi sempre denominato palatium sancti Thomae), quello del D'Oria sorgeva invece nel borgo di Fassolo; località vicine bensì, ma divise da un torrente non meno che dalle mura compite il 1347. Inoltre il palazzo di san Tommaso, dal Comune suddetto nel 1369 riparato e ricostrutto, era già passato dai Fregosi nel cardinale Giuliano della Rovere, che lo possedeva nel 1494; e più tardi, secondo ogni probabilità, in Antonio D’Oria. 11 quale fattolo tosto a sua volta splendidamente riedificare, vendealo poscia alla Repubblica (1539), che ne ordinava l’atterramento per la costruzione de’ nuovi baluardi.
Proseguendo la sua relazione, il socio Merli avvertiva come i giardini, la miglior parte dei terrazzi, le fontane, i loggiati a mare, il molo, la grotta nella villa superiore fossero edificati, non solamente parecchi anni dopo la morte di Andrea, ma anche dappoi che furono passati di vita il maggior numero di quegli artefici ai quali vengono generalmente attribuiti; e presentava un elenco d’artisti onde nell’Archivio D’Oria avea trovata notizia, e che vennero impiegati sì nei lavori dell’accennato palazzo e sì in altre opere diverse.
Concluse quindi nel volgere di luglio le tornate delle sezioni con opportune allocuzioni de’ Presidi rispettivi; il segretario sottoscritto riferiva nell’adunanza generale del 7 agosto circa i lavori della Società lungo l’anno accademico6, accennava alle relazioni della medesima coi più riputati Istituti, al numero sempre crescente de’ socii, e ricordava quelli la cui vita nel corso dell’anno stesso erasi venuta estinguendo7.
- Genova, 28 agosto 1870.
L. T. Belgrano.
Note
- ↑ Vol. II, Part. II.
- ↑ Tomo XI, parte I, pag. 134.
- ↑ Il socio Spinola ha poscia pubblicato il suo lavoro, col titolo di Studio intorno la vita politica del conte Luigi Corvetto; Genova, tip. Sordo-muti.
- ↑ Questa Memoria del comm. Varni, corredata di molte note e documenti, è stata quindi pubblicata co’ tipi de’ fratelli Pagano.
- ↑ Ved. Varni, Appunti artistici sopra Levanto, pag. 24. - Il march. Staglieno ha fatto anch’esso testè di pubblica ragione il suo scritto (Appunti e Documenti sopra diversi artisti poco o nulla conosciuti, ec; Genova, Sordo-muti), con una Aggiunta nella quale dà contezza dei pittori Ambrogio e Francesco da Pavia, (1438-1479), Cosma da Novara (1479), e Giovanni Masone d’Alessandria ’1463-6)); soggiunge nuovi particolari circa le famiglie di Teramo di Daniele e del Caldèra, e per ultimo produce un ricordo di Lorenzo Nicho da Pisa, fabbricante di ceramica (1465), il quale domanda alcune concessioni per trasportare l’arte sua da Savona in Genova.
- ↑ Le pubblicazioni degli Atti della Società fatte in tale anno sono: il fascicolo 3.° del volume VI, contenente l’esposizione storica e i documenti del Codice Diplomatico delle colonie tauro-liguri pel triennio 1457-39; il fascicolo 4.° del volume IX, nel quale si contengono le Notizie della tipografia ligure sino a tutto il secolo XVI, raccolte dal socio Nicolò Giuliani, e corredate di XXII tavole esprimenti i monogrammi e le imprese di più stampatori, nonchè altre opere d’antica silografia.
- ↑ Di uno fra essi però, cioè il senatore Antonio Caveri ch’ebbe un anno la presidenza della Società, avea già tessuto l’elogio il vice-presidente comm. prof. Giuseppe Morro nella tornata generale del 3 aprile. E di tale elogio la Società stessa decretava la stampa.