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Parte quarta Parte quarta - 2


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I.


Lieto maggio


Il mese di maggio venne avanti col suo bel verde.

Una serie di giornate calde e ventilate aiutò la campagna a fiorire. Gli alberi erano già folti, i viali ombrosi e le siepi mandavano il buon odore della robinia.

Arabella che da quindici giorni trovavasi alle Cascine in casa de’ suoi a rifare le forze, non cercava altro, per il momento, se non che la lasciassero tranquilla.

Tutti parlavano intorno a lei di perdono, di pace, di conciliazione. Parenti, avvocati, sacerdoti si dimostravano disposti ad accettare una transazione, che mentre divideva in tre parti la sostanza Ratta e assegnava ad Arabella il fondo di San Donato, offriva alle istituzioni di carità e ai parenti poveri, in base al testamento del ’78, dei compensi che valevano di più d’ogni grassa causa.

L’ostinarsi a pretendere di più sarebbe stato per i parenti un compromettere una buona condizione, o fare quel tal buco nell’acqua. Comunque fosse, la pace e la conciliazione non potevano fermarsi qui: e a rigore di coscienza essa non avrebbe potuto accettare [p. 398 modifica]nemmeno questa parte dell’eredità, se non avesse stesa la mano a Lorenzo, che da quindici giorni aspettava una parola di perdono. Suo suocero l’aveva beneficata per rimunerarla d’essere tornata in casa. I benefici fatti alla famiglia Botta dal defunto (benefici che Lorenzo irritato poteva trasformare in altrettanti crediti) presupponevano un buon accordo fra i coniugi. Il non accettare la pace con suo marito, dopo essere tornata in casa, quando questa era voluta e desiderata da tutti e in essa soltanto era il bene di tutti, sarebbe stata per parte sua una condotta illogica e crudele. E Dio non l’aveva fatta crudele, se anche la sua testa stentava a capire e a ragionare.

Ora invocava un po’ di quiete. La lasciassero stare. Facessero e disponessero pure degli interessi suoi come meglio credevano, ma per carità concedessero al suo cervello e al suo spirito il tempo di raccogliersi. E a poco a poco andava abituandosi a quel dolce far niente. Dalla finestra della sua cameretta di fanciulla stava volentieri collo sguardo ozioso a contemplare la stesa verde dei prati, riscaldati dal sole di maggio, il tremolare allegro che fanno le frasche dei pioppi scossi dall’aria, il rimescolarsi veloce delle rondini sul far della sera intorno alla bruna guglia dell’abbazia, o colle mani inerti sopra un lavoruccio, o colle mani morte in grembo, come una persona che aspetta un avviso per riprendere di nuovo un viaggio non lieto per un paese lontano, che si rivede mal volentieri.

— Tu hai ben diritto di riposare, — le diceva qualche volta la mamma, che meglio di lei era in grado di giudicare del valore delle cose, — basta per [p. 399 modifica]ora che dimostri della buona volontà. Intanto ti conviene accettare, non mostrarti contraria ai nostri progetti. Anche Lorenzo ora è molto occupato e non pretende nemmeno che tu l’abbia ad aiutare. Poichè a Milano non si può andare, ci vuol tempo per mettere in ordine San Donato e per cercare un’altra casa. Hai tempo fino al Corpus Domini di riposare e di vedere che il diavolo non è poi così brutto come lo dipingono. Accettando però quel che ti dicono di accettare, ti metti in posizione di fare del bene a tutti, e specialmente a noi, a’ tuoi fratelli, al tuo benefattore. Tu diventi nostra creditrice, e non vorrai farci gli atti, non è vero? Se invece irriti e disgusti Lorenzo, o supponiamo il caso che tuo padre e tua madre dovessero rifondergli un capitale che non hanno, nessuno approverebbe la tua ostinazione. Del resto, duecentomila lire, cara te, valgono un bel perdono. Non sai che San Donato diventa tuo? Son ottocento pertiche milanesi, quasi tutti prati, oltre la casa e le bestie, che solamente in latte mettono in grado il padrone di pagare l’affitto. Coi soli interessi di un anno puoi far tanto bene ai poveri, da guadagnarti non una, ma tre sedie d’oro in paradiso.

— E non devi mica — proseguì la mamma — aver certi scrupoli, perchè se il sor Tognino ha fatto una sostanza, è pur vero che pochi uomini hanno lavorato come lui. E quando uomini onesti come un avvocato Baruffa, un mezzo santo che porta il baldacchino a Sant’Ambrogio, quando lo zio don Giosuè e il prevosto Vittuone, un ladro del paradiso, ti dicono che tu puoi accettare con tutta coscienza questa eredità, io non capirei la ragione de’ tuoi [p. 400 modifica]scrupoli. In quanto a Lorenzo, credi che è pentito e strapentito. Mi ha parlato un pezzo. La morte di suo padre gli ha fatto senso. In fondo non è mica un animo cattivo, ve’... E ti vuol bene, l’ha detto a me, e quasi piangeva nel dirmelo. È un giovane un po’, diremo così, volage, e suo padre forse coll’idea di volerlo dominare faceva peggio. Egli mi ha detto non solo che ti vuol bene e che è pentito, e che non pensa più a quella donna e che vuol far giudizio, eccetera, eccetera; mi ha detto ancora che, se non ti dispiace la sua idea, egli lascia addirittura Milano, e viene a stabilirsi a San Donato a fare l’affittaiolo de’ suoi fondi, sotto la guida di papà Botta, che per agricoltura bisogna dargli la patente. È sempre stato il suo ideale questo, lo sai anche tu: e io ho sempre visto che gli uomini son buoni o cattivi, secondo che sono a posto o fuori di posto. Un buon prete è un cattivo soldato e viceversa. E c’è ancora un altro vantaggio, cioè che tu potresti prendere con te Mario, che di studiare non ha molta voglia, e invece fa bene qualunque mestiere di campagna. Mi sarebbe un bel sollievo e mi avvieresti un poco questo figliuolo, che somiglia tanto al tuo povero papà... — gli occhi di mamma Beatrice si inumidirono a questa memoria. — Così, la mia figliuola, tu sollevi un poco anche la tua povera mamma dalle fatiche e dai pensieri di questi benedetti figliuoli, che mi stancano ve’... Non sono più giovine, e comincio anche io a sentire il bisogno di una mano che mi aiuti. San Donato è a due passi, ci potremo vedere spesso, tu aiuti me, io aiuto te. Se ho un bambino malato posso fare un conto sopra qualcuno, va bene? In quanto a papà Botta, non [p. 401 modifica]dico nulla. Oltre al vantaggio pecuniario, tu gli puoi, diremo così, restaurare il morale. Da una settimana è già diventato più grasso. Ma ne abbiamo passate di notti dolorose, la mia figliuola! Tu non volevi credere alle mie lettere, quando ti scrivevo che quasi non si aveva più denaro da comperare la tela di una camicia. A te non mancava nulla laggiù, e quando si è nell’abbondanza, non si sanno nemmeno immaginare certe angustie e certe mancanze. Amen, tutto questo è passato, e Dio ci ha voluto bene. Adesso riposa un poco, la mia figliuola, non pensare a tante cose, piglia qualche cucchiaino di magnesia, che fa bene, in quanto il corpo aiuta l’anima. Un giorno andremo insieme a San Donato a vedere quel che c’è da fare... e il Signore benedica te e quel povero uomo che ti ha fatto del bene.

Papà Botta a parole non diceva nulla, ma si vedeva dagli occhi, si vedeva dal modo in cui moveva le braccia e le gambe che in lui camminava un morto risuscitato. Ora le Cascine e San Donato avrebbero fatto una cosa sola; il mio è tuo, il tuo è mio. Una mano di biglietti da mille è sempre il miglior concime per i fondi della Bassa... La sua casa era salva, i suoi figliuoli eran salvi, e l’avvenire, grazie ai meriti e alla virtù di quella povera figliuola, poteva dirsi assicurato. Quando la ricondusse alle Cascine nel suo vestito di lutto, a papà Botta parve di tirarsi dietro un angelo fatto prigioniero. Pensò a mettere in ordine la stanza, sbarazzandola dei centomila attrezzi, che il disordine e la malavoglia avevano ammucchiato in mezzo alla polvere e alle ragnatele.

Se fosse venuta in casa la Madonna, papà Botta [p. 402 modifica]non avrebbe potuto usare un maggior riguardo. Essa aveva bisogno di riposo e di quiete? dunque non si doveva nè strillare, nè far rumore, nè cicalare sotto la sua finestra. Mandò lontano le oche e le galline e per alcuni giorni fece condurre le bestie a un’altra stalla. Intanto egli stesso colla scopa in mano eccitava gli uomini a far netto, raccontando a tutti quel che Arabella veniva a ereditare dal defunto signor Tognino. — Se ho un piacere e una soddisfazione a questo mondo — soggiungeva, indicando le gelosie verdi della finestra — è che io le ho voluto bene anche prima, quand’era una bambina alta così, quando di suo non aveva che il vestito e un paio di scarpe stracciate. È giusta la legge che bene fa bene; ma il Signore m’è testimonio che, se mi fosse tornata in casa logora e senza scarpe, io non le avrei voluto meno bene.

E tutti gli credettero, essendo uno dei molti privilegi dei buoni d’essere creduti degni anche del bene che non fanno.



Arabella, nella quiete delle belle giornate calde, nella cura e nella benevolenza de’ suoi, e, più ancora di tutto, nella persuasione che la sua vita non potesse essere diversa, a poco a poco si avviò a perdonare e a dimenticare. La giovinezza vuol vivere. In queste condizioni, anzichè ribellarsi a un destino maggiore alle nostre forze, è meglio condurre queste a smuovere e ad aiutare il nostro destino. Le acque grosse che rompono i ponti, ben incanalate, muovono molini e gualchiere. Un coscritto malcontento non ha che [p. 403 modifica]un rimedio contro la sua disgrazia, ed è di prendere il servizio con quel coraggio affaccendato e irragionevole, che da un coscritto cava spesso un eroe.

Ritrovava dei momenti di intero riposo e di smemoratezza quando poteva, come una volta, rinchiudersi a disegnare e a ricamare nella fresca chiesuola della Colorina. Vi si rifugiava colla foga della bimba, che ha portato via e nascosta in tasca una piccola merenda, o una ghiottoneria dolce, che vuol gustare e assaporare un pezzo, da sola, senz’essere vista. Vi si rifugiava meno a pregare che a sentire la sua vita scorrere lentamente, in attesa di qualche cosa di chiaro, che tardava ad accendersi in lei e senza di cui sarebbe stato troppo pericoloso continuare per una strada buia.

Essa poteva perdonare e dimenticare; ma non basta. Per vivere bisogna amare. Ora il pensiero che tra quindici o venti giorni essa avrebbe dovuto cader nel dominio del suo vecchio padrone, non era per lei così semplice e giocondo come pareva alla mamma. Qualche cosa della vecchia monachella soffriva ancora nel suo spirito. Nei suoi lunghi e pensosi silenzi, mentre la mano copiava un gruppo d’alberi o un pezzo di casa in rovina, la voce della monachella sorgeva a predicare, non tanto a lei, per cui le parole erano inutili, quanto a tutte le buone ragazze, che si affidano alla vita colla lieta poesia dei diciott’anni: «Non credete alle lusinghe della vita: fatevi monache. Il mondo, sotto uno strato di rose, vi prepara dei dolorosi letti di spine: fatevi monache. E se Dio vi chiama a sè prima del tempo, benedite il Signore che vi vuol bene. Meglio morte a quindici anni sotto una coperta d’erba fresca e di fiori di [p. 404 modifica]prato, che sentirsi sepolte vive nel fango del mondo vecchio e corrotto.

Per isfuggire alla seduzione di queste malinconie, usciva a correre qualche volta in mezzo ai prati, univasi alle donne che sotto il raggio caldo del sole agitavano e ammucchiavano il fieno maggengo, dava di mano a un rastrello, e mentre le ragazze intonavano un’aria di soldati, nel bagliore della luce aperta, cercava anche lei di attaccarsi alla vita e alla terra collo sforzo di un lavoro affaticante.

Tra un ritornello e l’altro della canzone sonava dal casolare vicino la voce argentina della povera Angelica, che dal suo letto salutava le compagne colle litanie della Madonna.

Arabella ponevasi a sedere nel fieno e colle mani abbandonate sui ginocchi, ora incantavasi a contemplare la schiera delle ragazze, splendenti sotto la luce viva nei chiari vestiti rossi, e così tenacemente attaccate alla terra e agli affetti della terra: ora il pensiero volava ad Angelica così lieta negli affetti del cielo. Essa non sapeva cantare. Anche in chiesa la sua voce, avvilita, non aveva più la forza di seguire le litanie. Soffriva non più per non saper rinunciare, ma come chi ha rinunciato troppo, e muore di rincrescimento in un’inedia morale.

Poco doveva durare questo suo riposo. Passati dieci, dodici, quindici giorni, la gente avrebbe cominciato a meravigliarsi una seconda volta di trovare in lei della resistenza, l’avrebbe accusata una volta ancora di egoismo e di freddezza di cuore, perchè dove trattavasi di una fortuna grande e cara a tutti, essa ostinavasi a non vedere che il suo orgoglioso sacrificio. Respingere l’eredità non poteva senza [p. 405 modifica]mostrarsi ingrata, incoerente, irragionevole, per non dire pazza del tutto: e non poteva accettarla senza stendere la mano a suo marito. E se questi era veramente pentito, se prometteva di diventare un uomo onesto e laborioso, se aveva bisogno d’un erede per restaurare la sua casa, se tutti facevano voti per questa benedetta assoluzione, di cui essa aveva il merito maggiore, perchè ostinarsi a non credere alla virtù di questa misericordia? perchè rinchiudersi in una reazione arcigna e sterile? perchè non innovare un dolce sistema di moglie paziente, di massaia casalinga, di donna come ce ne son mille, che ingrassano lentamente nella pratica delle modeste virtù, tra la casa, la messa e il pollaio? Questo miracolo doveva essere compiuto per il Corpus Domini. Papà Paolino, dopo vari abboccamenti coll’avvocato e con Lorenzo, d’accordo colla mamma e colla figliuola, aveva stabilito per quel giorno solenne un gran pranzo alle Cascine, al quale sarebbero intervenuti oltre agli zii Borrola e a Lorenzo, l’avvocato, il notaio, lo zio canonico: e si sarebbe messa una pietra sul passato. Il Pirello prometteva per quel giorno una panna degna del paradiso.

Per quel tempo sarebbe stata pronta ed abitabile la casa padronale di San Donato, un avanzo viscontesco, che sotto le rappezzature e le corrosioni conservava ancora la forte ossatura del suo buon tempo. La parte centrale di quel vecchio caseggiato di robusta costituzione architettonica conteneva ancora qualche ampia sala, qualche segno di vecchi dipinti, molte guardarobe e mobili rococò guasti dall’umido, dal tempo e dalla trascuratezza degli ultimi padroni, che vi avevano abitato nei primi anni del secolo.

[p. 406 modifica]Mentre il tempo era bello, papà Botta, coll’aiuto di Ferruccio, fece venire imbiancatori e tappezzieri, mandò a Milano un carro a prendere il mobilio, perchè di tornare in via Torino, dopo i tristi avvenimenti, non si parlava nemmeno.

Ferruccio, in questo tramestìo, ebbe il suo da fare. Il signor Lorenzo dovette in molte faccende fidarsi di lui che divenne un personaggio importante, il confidente e il segretario di tutti gli interessati nella conciliazione. Rianimato quasi da una nuova energia attese al trasporto dei mobili, che accompagnò a San Donato, facendo e rifacendo la strada da Milano alle Cascine due, tre volte la settimana. Portò molte carte a firmare alla signora, secondo le indicazioni del notaio, e cercò di spiegarle lo stato degli affari, come eran rimasti sul tavolo del povero signor Tognino: raccolse gelosamente la corrispondenza, i valori e le cartelle di rendita, che scaturivan quasi per incanto dai cassetti e dai mobili dell’ammezzato.