Anime allo specchio/Allegro, ma non troppo
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ALLEGRO, MA NON TROPPO.
La prima volta che il maestro Santamaura udì il nuovo segnale acustico collocato dal suo amico Sandro Galeata sulla propria automobile, si coprì con le palme le orecchie, chiuse gli occhi e gemette con voce soffocata: — Dio mio!
Era un grido stridente e lacerante come un cigolìo di cardini arrugginiti misto a un gracchiar di ranocchie irose, o come uno strofinìo urlante di ferro contro marmo, un suono insomma così urtante per un paio di timpani sensibili, che Santamaura non cessò di gemerne lungo tutta la strada.
Ma Galeata occupato al volante, ne rideva come d’una graziosa burla giocata all’amico e si volgeva tratto tratto ammiccando verso sua moglie, la quale sedeva nell’interno della vettura fra i suoi due bambini, tutta ravvolta in un fitto velo verde.
— No, — proruppe finalmente Santamaura alla prima sosta presso un passaggio a livello, — no, io non ti permetterò mai di lacerar le orecchie a me ed all’umanità innocente con uno stridore di questo genere. Perchè non usi una semplice tromba?
— Caro mio, la semplice tromba è uno strumento antidiluviano; pare che si usasse già nel paradiso terrestre e prima ancora, nel paradiso perduto, — scherzò Sandro Galeata ch’era avvocato e non si lasciava facilmente convincere. — Nessuno più l’ascolta, — proseguì ponendosi in marcia; — è un suono morbido, scivolante, afono; per scuotere i nostri simili ci vuole ormai un sussulto, un urto, un fremito, qualcosa che li prenda per la gola e li costringa a voltarsi e a scansarsi.
La vettura si slanciò per un rettilineo deserto e gli amici, nel vento della corsa che travolgeva le parole, tacquero per un pezzo, ma Santamaura rifletteva intanto sul mezzo di salvare sè e l’amico da un simile scempio che gli pareva sacrilego per l’arte.
Egli era un musico di valore, ancora giovane e non ancora celebre e componeva da due anni un’opera, il Don Giovanni, che gli doveva dare la gloria, la ricchezza e la felicità ad un tempo. Per ora non gli dava che una grande esaltazione lirica quando ne parlava con gli amici, molte illusioni di grandezza per l’avvenire e alcuni rari momenti di fervore operoso i quali non bastavano a portare a compimento l’opera ed i sogni.
Quando ebbero pranzato in un alberghetto di montagna tutto chiaro e lindo, mentre la signora Galeata faceva riposare i bambini, Santamaura disse all’amico appoggiando i gomiti sulle lunghe dita incrociate:
— Ricordi tu la marcia nuziale del mio Don Giovanni, quella che accompagna l’eroe ogni volta ch’egli entra in scena?
Socchiuse gli occhi e alzò un dito ispirato:
— Ta, ta, tatatà.... È uno scoppio di gioia e di passione, è un grido d’amore, di tutti gli amori. Io la chiamo marcia nuziale in un senso pagano, intendendo per nozze il congiungimento di due creature innamorate, l’ebbrezza suprema degli amanti. È il grido d’Elvira e di tutte le altre donne, il tema dominante che variando si ripete per tutta l’opera.
— Ebbene? — domandò Sandro corrugando le ciglia e assentendo vivamente come se s’interessasse molto a quel discorso che in realtà gli era divenuto indifferente a furia d’udirlo ripetere.
— Ebbene, ora vi ho aggiunto un piccolo motivo, allegro ma non troppo, poche note squillanti e sfuggenti che tornano parecchie volte e che sembrano un commento, una risata e insieme un ammonimento. Questo te lo regalo.
— Per che farne, scusa?
— Per farne un segnale acustico per la tua macchina; qualche cosa di nuovo, di personale, di armonioso che possiederai tu solo e che non rovinerà i timpani all’umanità.
— Ti ringrazio, — mormorò Sandro stupito di tanto zelo e poichè sua moglie giungeva glie ne parlò subito con le parole stesse di Santamaura, fingendo un grande entusiasmo mentre la signora mostrava i denti in un sorriso che si sforzava inutilmente di sembrare amabile.
Ella contava alcuni anni più del marito ed aveva una magra faccia giallognola benchè regolarissima di tratti e due grandi occhi neri in cui la disperazione dell’invecchiare metteva una fiamma fosca, una contenuta passione non priva di un certo fascino singolare. Ella amava fortemente quel marito giovine e leggero che sospettava infedele e non poteva soffrire Santamaura il quale non le aveva mai fatto la corte e s’assentava spesso con l’amico in automobile dandole una vaga impressione di sfruttatore e di complice.
Il dono promesso dal giovine maestro, costruito appositamente in Germania, giunse alla vigilia della partenza per la villeggiatura. La tromba tutta lucente, munita di alcuni piccoli tasti fu applicata all’automobile e Sandro Galeata imparò subito a maneggiarla. Essa, mandava un suono acuto e vibrante e modulava un piccolo motivo gaio, vivace e caratteristico, composto di poche note facili e squillanti.
Santamaura era partito il mattino stesso per un luogo di cura dove si doveva incontrare con un tenore celebre a cui sperava d’affidare la parte di don Giovanni e casa Galeata, composta dei coniugi, dei bambini e della governante dopo un viaggio di sei ore in automobile giunse la sera in una cittadina di mare e si sistemò in un albergo già in precedenza fissato, circondato da un ampio giardino e molto vicino alla spiaggia.
Sandro Galeata non faceva bagni e compieva da solo lunghe passeggiate in automobile rientrando soltanto all’ora dei pasti, e sebbene sua moglie s’irritasse alquanto di queste frequenti assenze, egli le spiegava garbatamente che aveva amici e colleghi disseminati sulla riviera e che li visitava con assiduità, assicurandole che la vita oziosa del bagnante lo infastidiva e nuoceva alla sua salute.
D’altra parte, con saggezza e con prudenza, aveva abituata sua moglie a non discutere e a non controllare le sue azioni e con un po’ d’intelligenza e molto buon senso s’era conservata interamente la propria libertà.
Ella intanto lontana dalla città e dalle amiche s’annoiava e passava le sue giornate a leggere o a ricamare in giardino, cosicchè fu tutta lieta quando capitò di passaggio nell’albergo la signorina Altavilla, una sua antica compagna di scuola che si piccava di illustre nobiltà e che, forse per questo, forse per causa della madre sempre inferma era rimasta a trentacinque anni una zitella grassoccia e sentimentale, un po’ miope e molto espansiva.
Non s’erano rivedute da molti anni e chiacchierarono dei loro affari e di quelli degli altri finchè l’Altavilla abbracciò con impeto l’amica e corse alla stazione invitandola con calore alla sua villetta, ch’era lontana un’ora di treno e veniva chiamata col poetico nome di Gelsomina.
Dopo un’altra settimana suo marito le annunziò un mattino partendo in automobile che sarebbe rimasto assente tre o quattro giorni per trattare un affare d’importanza e poichè ella continuava ad annoiarsi ed i bambini erano ben custoditi dalla loro governante, decise un pomeriggio di recarsi a visitare la sua amica.
La Gelsomina tutta avvolta nel verde delle piante odorose che le davano il nome, distava dalla stazione circa un quarto d’ora di carrozza e la signora Galeata vi si fece portare e suonò al cancello fra le gioiose acclamazioni della signorina Altavilla che corse ella stessa ad aprirle.
— La mamma è sulla terrazza, — disse dandole il braccio lungo la scala di marmo che saliva al primo piano e la introdusse in un salottino buio e fresco, quindi in una veranda coperta di edera dove una signora canuta dall’aria sofferente ma non triste leggeva un giornale, seduta in una poltrona a ruote.
— Ecco Maria, mamma; adesso signora Galeata, — esclamò l’amica presentandola a sua madre e le due signore sedettero presso l’inferma discorrendo vivacemente.
— Se tu vedessi i suoi bambini, mamma! Che amori! — sospirava la signorina. — Dicono che tuo marito sia un avvocato molto brillante.
— Sarà anche un bel giovine se rassomiglia ai figli, — commentò la vecchia signora e soggiunse amabilmente: — Del resto basta che somiglino a lei.
La Galeata sorrideva, lieta dell’accoglienza e si proponeva d’invitare la signorina a passare con lei alcuni giorni per saziare la sua curiosità sul «brillante avvocato», ed anche per far conoscere a suo marito quell’amica che non le dava ombra. E presero il thè sulla terrazza mentre il sole scendeva in mare e nell’ultima luce si coloriva di madreperla, ansando più dolcemente incontro alla terra come in un desiderio di riposo.
Allora la visitatrice s’alzò per prendere congedo e mentre stringeva le mani alla malata e l’amica le cingeva la vita col braccio per condurla verso il giardino, ella ristette, sollevò il capo, rimase in ascolto.
Dal fondo della strada salivano alcune squillanti note di tromba e ripetevano un noto motivo, allegro, vivace, caratteristico: la piccola marcia del Don Giovanni. Il motore ansava rombando lungo la salita e il suono che lo accompagnava s’avvicinava sempre più, finchè squillò chiaro, lungo e vibrante sotto la terrazza.
— Che ascolti? — le domandò la signorina Altavilla sorridendo. E subito soggiunse: — È il segnale di una automobile che passa qui ogni giorno e ogni volta si ferma a quel villino laggiù.
— Quale? — domandò la Galeata con voce un po’ roca e si sporse dalla balaustrata mentre l’automobile di suo marito passava. Ed ella vide ch’egli non era solo.
— Laggiù, a quel cancello con le lancie dorate, — spiegò l’altra indicando una casa elegante in fondo alla via, — dove abita una bella signora bionda, dicono una contessa fiorentina, molto emancipata. — Ecco, — ella continuò ponendosi ad osservare con un binoccolo da teatro. — Oggi rientrano insieme. Ella è elegantissima come sempre ed anche il suo amico ha una figura molto distinta, sebbene non si riesca mai a vederlo in viso sotto quegli enormi occhiali. Come devono amarsi quei due!
Ma la Galeata interruppe seccamente il sospiro della sua amica.
— Addio, cara, — le disse d’improvviso con una voce così aspra che l’altra le si volse meravigliata.
— Quel motivo è tanto nuovo, — diceva la signora Altavilla, la quale secondo l’uso dei vecchi rifletteva molto prima di parlare, — ed è così grazioso che non si può fare a meno di notarlo. Però quel signore mi pare alquanto leggero a non accorgersi che il farsi precedere da questa fanfara è molto, molto imprudente.
— Buona sera, signora, — concluse la Galeata come se non avesse inteso quelle osservazioni e ritornò in giardino con l’amica, la salutò, salì nella carrozza che l’aspettava al cancello. Ma com’ebbe percorso un breve tratto di strada ella si assicurò che il terrazzo della Gelsomina fosse deserto, quindi discese, pagò il cocchiere e tornò indietro a piedi.
L’automobile di suo marito era sempre ferma al medesimo posto e il cancello dalle lancie dorate era chiuso. Ella vi si diresse e quando fu presso quella soglia esitò un momento ansando di emozione, quindi si risolse, premette il bottone del campanello.
S’udì nell’interno un lungo trillo, poi una cameriera giovine in cuffietta di pizzo bianco attraversò una breve serra vetrata e aperse.
— Vi prego di consegnare questo all’avvocato Galeata, — ingiunse la signora porgendo il suo biglietto da visita e soggiunse dopo una pausa: — Avvertitelo che lo aspetto qui.
La cameriera lesse il biglietto e si morse le labbra trasalendo come se avesse toccato un oggetto rovente, quindi richiuse e scomparve.
Allora la signora Galeata salì lentamente nell’automobile, sedette, e si dispose a ricevere suo marito.