Anime allo specchio/Come un'ombra
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COME UN’OMBRA.
Il ricevimento che la duchessa Laurati offriva all’albergo Imperiale si svolgeva piuttosto freddamente. Gli invitati si appartavano a gruppi di due, di tre negli angoli dell’ampio salone, conversando a bassa voce e ridendo forte come estranei gli uni agli altri, come gente quasi ignota convenuta per caso ad un ritrovo. Alcuni maturi signori e qualche dama vetusta circondavano la duchessa e le lodavano la riuscitissima festa cercando un pretesto cortese per andarsene al più presto.
Ella era un’americana del nord, blasonatasi in Italia e le cospicue ricchezze non le avevano concesso d’acquistare insieme al titolo altisonante quella nobile amabilità, quella grazia disinvolta, quell’attirante fervore che riscaldano e ravvivano la gelida e ostile atmosfera dei salotti mondani.
Le si avvicinava di quando in quando a sorriderle od a susurrarle qualche breve frase affettuosa una sua giovine nipote ch’ella amava moltissimo e che per cause oscure viveva separata dal marito.
Elsa Laurati aveva ripreso il suo nome di fanciulla e conviveva con la zia la quale la considerava come una figliuola.
Esse abitavano da oltre un mese all’albergo Imperiale ov’io ero scesa una settimana innanzi e le avevo molto attentamente osservate. La zia vestiva con vistosa eleganza e sopra una persona rimasta flessibile e quasi ancora giovanile portava una piccola testa di vecchia, con capelli tinti in rosso, col naso a uncino, con la bocca così cadente che gli angoli si prolungavano in due rughe profonde ai lati del mento. Pareva uno di quei pagliacci meccanici che servono di giocattolo, i quali per poter aprire la bocca hanno il mento staccato dal resto del viso e lo abbassano e lo sollevano allo scatto di una molla nascosta.
Ma la nipote aveva una faccia di madonna sdegnosa chiusa in due bande di capelli castani, uno sguardo un po’ duro negli occhi color d’acciaio, una bocca sottile e immobile di persona altera e tenace. Il suo vestire era semplice come quello di una fanciulla ma raffinatissimo in ogni particolare. Ella aveva un modo strano di volgersi gli occhi intorno rapidamente e quasi in sospetto, come se temesse sempre un agguato.
Non ostante la sua apparenza quasi verginale ella doveva diffondere intorno a sè un fascino penetrante perchè tutti gli uomini la guardavano con desiderio. Ed ella prendeva nel parlare ad essi un atteggiamento di voluta ritrosia e insieme d’involontario abbandono così palese, li fissava così intensamente coi suoi duri occhi d’acciaio che ciascuno ne pareva nell’intimo conturbato.
Uno specialmente, un signore poco più che trentenne, dal viso bruno e magro guizzante di scatti nervosi, pareva subire la seduzione indefinibile di quella donna, talvolta sino alla sofferenza. Egli era giunto all’albergo poco dopo le due signore ed appariva nell’elenco dei forestieri col nome di Mario Montenero. Sedeva ad un tavolo molto appartato e durante i pasti non staccava mai lo sguardo dal volto della giovine signora Laurati, quasi per raccoglierne ogni gesto ed ogni espressione, quasi per accordare il suo respiro e il suo palpito al respiro ed al palpito di lei. Ma ella pareva non accorgersi di quell’ammirazione appassionata, ed il suo sguardo evitava ostinatamente d’incontrarsi negli occhi dell’uomo.
Tuttavia egli non sembrava stancarsene od irritarsene, nè pareva disposto ad avanzare verso di lei con una tattica amorosa meno innocua di quella dello sguardo.
La sera in cui la duchessa Laurati offriva all’albergo Imperiale un ricevimento d’addio ai suoi amici prima di ripartire per un viaggio all’estero con la nipote, il signor Montenero appoggiato col dorso allo stipite d’una piccola porta laterale del salone pareva una cariatide. Immobile, con le mani conserte sul petto e gli occhi fissi su la giovine donna s’era quasi impietrito in quell’atteggiamento insolitamente orgoglioso, quasi di raccolta sfida e di superbo dolore.
Ella andava dall’uno all’altro gruppo parlando e sorridendo con quella sua grazia un po’ sdegnosa che attirava e respingeva al tempo stesso, ma che lasciava dietro di sè quasi un solco di freddezza e di diffidenza. Sembrava che ella fosse costretta ad occuparsi di tutta quella gente e che se lo imponesse come un dovere, senza riuscire a vincere il leggero fastidio a cui quest’obbligo mondano la costringeva.
Ad un tratto ella attraversò il salone con un’andatura lenta, ondeggiante e quasi felina, accentuata dal suo abito di velluto fulvo a lungo e sottile strascico e s’avvicinò alla duchessa Laurati.
Ella stava porgendo la mano ad un giovine allora giunto che glie la baciava galantemente e sorrise benevola alla nipote quasi affidandole scherzosamente il nuovo venuto. Ella ne prese il braccio e si ritirò con lui nella strombatura d’una finestra dove lo sguardo del Montenero non poteva raggiungerla.
Allora il volto di questi assunse un’espressione quasi feroce. Non rammento d’aver veduto un volto d’uomo manifestare senza parola e quasi senza moto un’angoscia così agitata, un’irritazione così fosca.
Io avevo seguite tutte queste singolari manovre sedendo con un’amica in un piccolo salotto da fumo, attiguo alla grande sala, presso una portiera a metà rialzata, la quale permetteva d’osservare quasi senza essere visti e dopo congedata la mia visitatrice già mi disponevo a ritirarmi, quando irruppe nel salottino il Montenero e si pose in osservazione dietro la portiera sollevata a mezzo. Ma vi rimase solo un momento; subito lo vidi volgersi con una faccia stravolta stringendosi una mano rattratta sul petto, e correre a spalancare la finestra come se il respiro gli mancasse.
Certamente egli non s’era avveduto della mia presenza perchè voltandosi poco dopo mi guardò meravigliato e mormorò confuso:
— Mi perdoni questa mia irruzione, signora, non l’avevo scorta e perciò aprii la finestra senza chiedergliene il permesso. Mi conceda di presentarmi: mi chiamo Mario Montenero ed abito in questo albergo da tre settimane.
Si accingeva a rinchiudere le vetrate sopra la fredda notte quasi ancora invernale, quando io lo fermai col gesto: — Vedo che lei soffre, — dissi osservando il suo pallore e le labbra lievemente cianotiche, — lasci aperta la finestra poichè ha bisogno d’aria; io stavo ritirandomi.
Ma egli aveva già prontamente rinchiuso e il suo volto perdeva a poco a poco la tinta cadaverica, le labbra si ricolorivano, ma gli occhi conservavano tuttavia la loro espressione cupa.
— Mi permetta di giustificarmi, signora, — egli soggiunse senza cedermi il passo, — io sono un povero malato e bisogna compatirmi. Ho sofferto troppo, stasera.
— Lo so, ha sofferto per una donna, — non potei trattenermi dall’osservare con un sorriso d’ironica indulgenza, — e gli volsi le spalle per uscire.
Rapidamente egli mi si pose di fronte con un volto pieno di stupite interrogazioni e mi domandò inquieto: — Come lo può sapere? Chi glie lo disse?
— Lei stesso con quell’aria stravolta, — risposi sorridendo. — Del resto ha ragione, la giovine signora Laurati è bellissima questa sera.
— Ah sì, è bellissima, — egli rise a denti stretti; — difatti vale la pena d’essere bellissima per quell’accolta di scimuniti e di pettegole che le sta intorno.
— Non è indulgente, — osservai benigna.
Egli si passò una mano sugli occhi quasi per cancellarvi una visione torbida e mormorò: — Ma se quello, ma se quello almeno non ci fosse. Un momento fa egli l’ha stretta alla vita, là, nell’angolo della finestra. Vede, fu allora che io mi sentii soffocare e corsi a spalancare i vetri.
Io lo considerai con una vaga inquietudine, e dopo un momento di silenzio arrischiai un’osservazione indiscreta:
— Mi pare che un simile amore raggiunga un leggero grado di esaltazione, quasi direi di manìa. Da una settimana io sono qui e so che la sua vita di questi giorni e certo anche di quelli precedenti non fu che un atto di dedizione e di adorazione continua per quella donna la quale non si cura affatto di lei, la quale non s’accorge forse nemmeno della sua presenza e non sa che farsene del suo amore. E questo, scusi, mi sembra una piccola demenza, oppure una grande malattia.
— È l’una e l’altra, signora, — egli affermò col volto percorso da rapide vibrazioni nervose; — da un anno e mezzo io seguo quella donna da un capo all’altro del mondo soltanto per vederla, soltanto per respirare l’aria che ella respira e guardare il cielo che ella guarda. Viaggio nei piroscafi sui quali ella viaggia, scendo agli alberghi nei quali ella scende, conosco quasi ogni suo atto, ogni suo passo e soffro, soffro terribilmente di sentirla così vicina e così lontana, di pensarla negata a me e forse presso a concedersi ad altri, di sapere che mi respinge con ostilità, con sdegno, con disprezzo, con odio.
— Ma dunque la conosce? — domandai senza reprimere la mia appassionata curiosità dinanzi a quel complicato documento umano.
Egli non rispose subito. Con la destra che leggermente tremava trasse con atto inconsulto l’orologio, lo guardò e vi fece correre il pollice sul cristallo, poi lo rimise nel taschino del panciotto bianco e vi tenne sopra la mano un momento. Pareva che egli dovesse dire una parola eccezionalmente grave, fare una confessione che gli costasse uno sforzo penoso. E le contrazioni della sua faccia si moltiplicavano come se tutti i suoi nervi vibrassero a fior di pelle. Finalmente abbassò il capo e rispose:
— È mia moglie, signora.
Allora il mio interessamento che era stato fino a quel punto piuttosto leggero e quasi un poco beffardo, come m’ispirava la novità assurda di quella passione, divenne d’un tratto pietoso e riverente come s’egli avesse pronunziato con quelle parole la sua più commossa difesa, la sua più efficace giustificazione. E non osai tentare altre domande.
Ma l’uomo aveva rialzato la fronte con un sorriso convulso che gli torceva la bocca ed appoggiato alla parete con le braccia conserte sul petto scuoteva il capo lentamente come commiserando sè stesso.
— Ella aveva vent’anni quando ci sposammo, — raccontò a bassa voce guardando tratto tratto a fronte corrugata la corona di lampadine che pendeva dal soffitto, come se tutta quella luce diffusa sul suo segreto dolore l’offendesse. — Ci sposammo a Nizza un principio d’inverno e restammo insieme due mesi. Un giorno mentre ella si trovava a Montecarlo con sua zia, mi capitò in casa un’antica amica che io avevo lasciato poco prima del matrimonio. Era disperata e furente, minacciava d’uccidersi e di fare uno scandalo se io l’abbandonavo. Per amore di pace cercai di placarla e durante una settimana mi recai di nascosto ogni giorno da lei, così come si va a trovare un ammalato e ci si sottomette ad ogni suo capriccio, pur di dargli un momento di quiete e d’illusione. Mia moglie, avvertita certo da qualcuno, mi spiò e venne una sera a sorprendermi nella casa stessa di quella donna. Ella fu implacabile; non ascoltò ragioni, non concesse perdoni, non volle rimettere piede in casa mia e partì per non più ritornare. Io le giurai che l’avrei seguita dovunque, e da quel giorno ella se ne va in giro per il mondo con quella inesperta megalomane di sua zia, fingendo di non avvedersi di me che la seguo come la sua ombra e che in questa disperante vicinanza l’amo e la desidero sempre di più e sempre più inutilmente. E stasera, vede, io ho sofferto il martirio perchè ella ha accettato il braccio di un uomo e costui ha osato stringerle la vita.
Quasi evocati dalle sue parole la signora Elsa Laurati ed il suo cavaliere s’affacciarono in quel momento nel vano della portiera sollevata a mezzo e gli occhi color d’acciaio della giovine donna avvolsero me e suo marito in un rapido sguardo balenante d’ira e di sospetto.
Egli, appoggiato alla parete con le braccia conserte, sostenne quello sguardo come una sfida, ma non appena ella scomparve si morse le labbra ed i suoi occhi ridivennero foschi.
— L’ha veduta? — egli mormorò fremente. — E ancora al braccio di quell’uomo.
— Non vi badi, — io gli consigliai con serenità, — sua moglie ama lei e non quell’uomo, glie lo affermo io con quella non poca esperienza che posseggo dell’illogicità femminile.
— Non è possibile, — egli rispose sollevando lentamente le spalle. — Ella dovrebbe soltanto fare un cenno perchè io cadessi ai suoi piedi come uno schiavo incatenato.
— Ebbene, sua moglie non farà mai quel cenno; ella è troppo orgogliosa e troppo ostinata, — soggiunsi con convinzione, — sua moglie ha bisogno di vederlo sfuggire alle sue mani, di vederlo sottrarsi al suo dominio per sentire la sua mancanza e correre in cerca del suo amore. Finchè rimarrà legato volontariamente alla sua catena ella lo disprezzerà; spezzi la catena, se ne vada con un’altra donna e procuri che ella lo sappia. Vi sono novantanove probabilità su cento che sua moglie venga a inginocchiarsele dinanzi per implorare il suo ritorno.
Ma il giovine scuoteva ancora desolatamente il capo.
— Forse le sue parole sono giuste, ma io non avrò mai la forza di seguire il suo consiglio. La mia malattia è ancora più profonda di quanto sembri, poichè nessuna donna ormai, per quanto piena di fascini, mi interessa o m’attira o mi piace, tranne quella donna. Tutta la femminilità, tutto l’amore, tutto il desiderio del mondo sono ormai racchiusi e sintetizzati nella sua persona e l’idea soltanto d’avvicinare un’altra creatura mi sgomenta e mi disgusta come una mostruosa profanazione.
— La compiango, — conchiusi avviandomi con un gesto di commiato e di saluto, e mentre mi allontanavo mi rivolsi ad osservare ancora quell’infelice amante, quel marito perfetto fino alla demenza.
Egli aveva già ripreso il suo posto d’osservazione dietro la portiera e frugava con gli occhi torbidi in tutti gli angoli del vasto salone in traccia di quell’unica donna che per lui esisteva sulla terra e che egli era condannato a seguire fedelmente, come un’ombra.