Anima sola/VIII
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Monastero.
I due anni passati in convento furono molto dolci. Era un orizzonte nuovo che mi si apriva colle spiegazioni quotidiane, i libri, la parola elevata delle suore, l’ordine, il silenzio, il contegno, che nel suo rigore un po’ duro non aveva nulla che mi urtasse; anche nella luce pallida ed uniforme dei corridoi, nel giardino chiuso, nella chiesetta così raccolta, così silenziosa, sotto i drappeggi di velo bianco frangiato d’argento che le suore distendevano davanti all’altare, trovavo un ambiente simpatico a’ miei sogni.
Le suore, o molto indulgenti o poco penetranti, non badavano alle mie distrazioni; la verità è che non sempre recitavo tutte le preghiere d’obbligo, ma una indistinta preghiera doveva pure uscire dal mio cuore e salire a Dio, in quelle soavi ore di preparazione e di mistero che mi hanno lasciato in fondo all’anima, abbuiata da tanti dolori, come il riflesso di un raggio bianco. Non chiedevo ancora a me stessa “che cosa farò?„ ma mi veniva la vaga persuasione che qualche cosa avrei fatto.
Ero sorpresa di trovarmi sempre così diversa dagli altri. Gli oggetti i più semplici, i più comuni, avevano per me un secondo aspetto; le parole si mutavano spesso in cose vive e concrete; animavo non solo la forma, ma il sogno.
La mia immaginazione era così alata che trasformavo senza nessuno sforzo il giardino del monastero in una specie di Eliso, in un mondo fantastico e primitivo non ancora abitato dagli uomini. L’ombra di tre piantine riunite bastava per farmi credere di essere in una foresta vergine, le albicocche gialleggianti mi sembravano i frutti d’oro delle Esperidi e i sottilissimi fili dei ragni, dondolanti sotto un raggio di sole li credevo veramente i capelli delle driadi e delle ninfe svolazzanti per l’aria.
Mi ricordo un caldo giorno d’agosto, la scolaresca abbattuta, annoiata, oppressa dall’afa che nell’ampia aula sembrava gravitare come piombo fuso; vedo ancora la striscia di luce gialla che penetrava attraverso la fessura delle tende; sento la durezza dei banchi, l’indolenzimento delle ossa per la forzata immobilità e la voce monotona della suora che leggeva le vite dei Santi. A un punto, dove ricorreva la descrizione di una grotta della Tebaide, questa frase mi fece trasalire di piacere: “sgorgava dal sasso una sorgente d’acqua pura, freschissima,„ e per un istante sparve il caldo, sparve l’arsura; io mi sentii felice, trasportata veramente in quella deliziosa regione d’acque e di monti.
Sì poco era bastato perchè la mia immaginazione vincendo la realtà io sentissi quasi gorgogliarmi intorno alle membra e scendere nella gola riarsa la freschezza di quell’acqua. Lo dissi alla mia vicina che si beffò lungamente di me.
Oh! il fascino delle parole... Ricordate quelle che stanno scritte sul frontone di una chiesetta in un quartiere perso di una città a noi cara? Ascendit quasi aurora consurgens. Come noi le amavamo, ricordate? Come le nostre labbra le pronunciavano ad una ad una, deliziosamente, accarezzandole! La vostra voce aveva una nota profonda di simpatia per la prima, ascendit, ed io ripetevo con una dolcezza calda e tremante le altre due quasi aurora; e ci sembrava di salire veramente nel raggio dell’aurora. Questa gioia innenarrabile di godere insieme, colla stessa anima, non l’ho mai avuta prima di conoscervi. Nel mio libro di preghiere, c’erano pure delle frasi che mi toccavano particolarmente; una versione del dies irae che incominciava “In quel dì che le Sibille„ e una canzone del beato Alfonso de Liguori “Selva romita e oscura„. Io le ripetevo per delle giornate intere, estasiata nella misteriosa armonia delle sillabe, nel significato misterioso del simbolo. E ancora le mie compagne si beffavano di me.
Avevamo tutte un gran numero di immagini sacre; per la maggior parte delle ragazze esse rappresentavano un trastullo, per qualcuna un oggetto di santità, come un complemento della preghiera e degli altri riti; per qualcuna pure un mezzo di soverchiare le compagne. Per me ognuna di esse era la rivelazione di un mondo. Ricordo S. Francesco Saverio predicante a uno stuolo di selvaggi; erano figure rozze, mal disegnate, eppure io leggevo l’avidità della nuova parola nelle diverse attitudini dei volti e l’ardore della missione nel Santo che li dominava tutti dall’alto, cinto della tonaca bruna che faceva contrasto colle penne e cogli ornamenti dei selvaggi. Ricordo certe madonne eteree, evanescenti, certi angeli che guidavano le anime per sentieri di fiori, dandomi uno struggimento di tenerezza e un desiderio di quei mondi ignorati ai quali mi sentivo attratta, non per indole ascetica, ma piuttosto per una viva fantasia poetica e per il bisogno irresistibile del bello.
Sopratutto mi attirava una piccola immagine, dono della superiora, una delicata incisione che rappresentava un giovinetto inginocchiato sopra una nuda croce in mezzo a un paesaggio sublime, tenendo alzate le mani e il volto con una tale intensità di passione che, dimenticando affatto il soggetto quale appariva a’ miei occhi, ero rapita nel mistero di quell’amore doloroso e non potevo gettarvi sopra lo sguardo senza una fortissima commozione. Io ho amato per lungo tempo quel giovinetto, inginocchiato accanto a lui sulla sua croce, alzando come lui le braccia a un sogno divino e lontano.
Un’altra immagine ancora — bersaglio degli scherzi delle mie compagne — era una gabbia, una semplice gabbia contenente un uccellino, e al disopra di essa un cuore fiammante. Il disegno, rudimentale della gabbia, la straordinaria ingenuità dell’insieme, tutto ciò infine che poteva far ridere io non lo vedevo. Io vedevo un essere prigioniero di un altro a lui superiore e il simbolo vinceva la forma; la materialità svaniva sotto l’irruenza dell’ideale.
Questa visione, evocata da così misero apparecchio, trovava nella mia mente degli sfondi a perdita d’occhio, un seguito di scene ardenti e spirituali ad un tempo, tutta una fantasmagoria di desideri latenti, di pensieri incompleti, di febbri, di scoramenti, di ricerche, di attese, di strane chiaroveggenze, involte e quasi inceppate da profonde tenebre, per cui mi succedeva di avere la parola tronca, lo sguardo vitreo, le mani sudate e gelate nello stesso momento, un vero stato di eccitazione nervosa non nuovo in me, che la mia povera zia dichiarava proveniente dai vermi e che sotto il suo regime mi veniva curato invariabilmente con una dose di santonina.
Nei queti vesperi domenicali che le mie compagne passavano volentieri ciarlando o passeggiando io guizzavo furtiva nella chiesetta e se riuscivo a trovarmici sola esultavo.
Non ero molto religiosa, memore delle grette osservanze di mia zia, ma un sentimento di profondo rispetto al mistero, un sentimento serio e solenne mi faceva amare la maestà del tempio. La solitudine di Dio mi appariva cosa alta e divina, il vero stato di perfezione al disopra del mondo e delle sue miserie; così l’adorazione che non usciva dai miei labbri faceva atto di umiltà in fondo alla mia anima.
Non ero artista, eppure i dipinti della vôlta, le trecento Vergini circondate dagli angeli, guidate dai patriarchi sotto un cielo rosato, che il tempo aveva stinto qua e là dandogli una trasparenza immateriale di cosa vista in sogno, mi attiravano invincibilmente. Certe braccia candide, diafane, certi volti di santa, certe pieghe violente delle tuniche che uscivano dalla cornice invadendo i pilastri, tutto quel mondo di personaggi inanimati io lo vivificavo colla mia immaginazione e lo amavo. Non mi appariva qui nessun urto stridente. Essi erano dei silenziosi come me.
Sicuramente non ero poeta; mi sarebbe stato impossibile di trovare un verso, e tuttavia sentivo un’armonia di suoni che mi turbinava deliziosamente nel cervello e che, mi pare, qualcuno avrebbe saputo mettere in versi. Le rose fresche dell’altare, odoranti, così lievi in mezzo ai lini color avorio, mi davano uno struggimento di piacere; seguivo cogli occhi incantati le punteggiature metalliche delle lampade, del tabernacolo incrostato di pietre le cui tinte cangianti serbavano i riflessi del misterioso Oriente al quale erano state tolte. Il raggio di sole che penetrava dalla stretta finestra, tutto pieno del canto degli uccelli, lambiva delicatamente una cortina azzurra prima di giungere nell’interno della chiesetta e vi portava l’allegria dei campi smorzata da un sentimento più intimo e più ideale.
Ma che cosa non mi piaceva di quel divino asilo, quando potevo restarvi sola? L’impressione era ben diversa in compagnia delle educande.
Le avevo interrogate ad una ad una e tutte si erano meravigliate de’ miei entusiasmi; la maggior parte di esse non sapeva neppure che vi fossero dei dipinti sui muri; tutte convennero che bisognava andare in chiesa per dire le orazioni, ma che non ci si divertiva, tanto che si compensavano parlottando a voce bassa e mercanteggiando le immagini dei loro libri da messa.
A furia di osservazioni e di deduzioni arrivai anche a dubitare che le suore, le pie e buone suore che ornavano metodicamente la loro chiesetta di rose e di veli, misurando la navata col loro passo tranquillo, gli occhi socchiusi, le mani fredde sullo scapolare — oh! tanto buone e pie — non comprendessero però, non sentissero in quel modo ardente che sentivo io la poesia dell’invisibile.