Anima sola/VI
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Anima mia, mia asilo!
Mia madre — mi diceste una volta — era una donna superiore, un alto intelletto e un cuore puro.
Vi pregai allora, e più volte in seguito, di parlarmi di lei; ciò che faceste con una confidente espansione che resta fra le memorie più dolci dei nostri colloqui. Mi avete permesso di partecipare al culto di vostra madre, per vostro mezzo io la conobbi e l’amai. Questa cara morta di cui avete per un istante sollevato il sudario, è rimasta, ad onta che voi siate partito. Fa parte di quel mondo intimo della mia anima che io paragono ad un tempio.
Non so se ho visto veramente o se ho sognato un tempio gotico eretto nello spazio solitario di una campagna; circondato da boschi, tranquillo e scuro nell’interno, sotto i vetri colorati delle ogive che sembrano accendere un lieve calore nei marmi.
Così mi appare spesso l’anima mia; stanca del mondo, della mia vita, de’ miei simili, entro in essa e mi riposo. Trovo tutte le sensazioni del tempio; una grande pace, un mistero dolce e solenne, un lieve raggio di malinconia elevata, un sentimento poetico ed una acuta ebbrezza di isolamento. Anche a me scende dalle trasparenze del pensiero una luce calda ed eguale, onde i sepolcri che rinchiudo si animano di un dolce tepore e l’eletto popolo de’ miei morti mi circonda, sorgente per me sola dall’eterno oblìo.
Voi sapete bene che qualcuno piange nel mondo, ma non avete mai pianto. Voi non avete nessun sepolcro nell’anima, pure andate tante volte a meditare sulla tomba di vostra madre; quel sasso che mi avete descritto, cui l’edera invadente copre poco a poco le parole fino a formare un velo che voi solo avete il diritto di separare per leggere il caro nome. La nostalgia dei grigi mattini, passati nel cimitero del vostro villaggio, vi assaliva talvolta in questo paese del sole. Seduti sotto gli archi del Colosseo — ve ne rammentate? — mi diceste: “Non sapete cosa vuol dire pensare ad una tomba lontana!„
La sicurezza quasi dolorosa del vostro accento, ferendomi nell’orgoglio, mi impedì di rispondere allora. Ma ecco che vi rispondo. Sapete voi che cosa vuol dire pensare ad una tomba che si ignora, che forse non esiste? Vi immaginate questo profondo, questo insanabile dolore: non conoscere, non poter mai sperare di conoscere di chi si è figli?
Oh! tutto quello che mi diceste di vostra madre! le sue carezze, le sue ansie, le preghiere che vi faceva recitare con le manine giunte sul vostro lettuccio, le lezioni per essere buono, per essere giusto, per essere grande; e quel libro dove essa segnava giorno per giorno i vostri progressi? e il piccolo museo delle vostre piccole spoglie? la prima scarpetta, il primo guanto … e quei suoi dolci occhi fissi nei vostri, occhi vigilanti, amanti, che vi circondavano di una protezione continua, che vi seguono ancora attraverso monti e mari rompendo la pietra del sepolcro? Perfino il sepolcro vi invidio, quel lembo di terra, quel breve sasso sul quale piangendo potete dire: qui riposa mia madre!
Io non ho nulla.
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Quando la vecchia, che si diceva mia zia, morì improvvisamente, le vicine mi annunciarono che ella stessa non sapeva chi fossi. Mi aveva ricevuto in deposito col compenso di una certa somma e siccome non le davo noia, anzi le ero di aiuto e di compagnia, si era quasi persuasa di avere in me una parente; ma per le sue facoltà molto limitate, per indolenza, per ignoranza, non si era mai data la briga di annunciarmi queste mistero della mia nascita; ed era tanto meschino l’ambiente che mi circondava, basso e soffocante ogni prorompimento di ideale, che io stessa non avevo mai sentito il bisogno di sapere di più.
La morte della povera donna mi svegliò come da un sogno pesante e torbido, senonchè prima dei sogni c’è la vita, ed in me invece la vita era stata il sogno stesso.
Chi ero? dove andavo? Che cosa avrei fatto? Ponete questi tre problemi davanti ad una fanciulla di quattordici anni, sola nel mondo. La prima notte, piansi; la seconda, non piansi, ma non dormii. Alla mattina per tempo seguii il feretro della sconosciuta che aveva diviso con me il suo pane ed il suo tetto. Tornata a casa mi posi a sedere in mezzo ai pochi mobili che ornavano le nostre tre camere e lì guardai trasognata, sotto un aspetto nuovo, quei mobili stranieri.
Non si sarebbe aperto improvvisamente un armadio? o non sorgerebbe un’ombra dalla poltrona verde, dallo specchio della caminiera incorniciato di legno lucido dentro il quale si rifletteva la pendola? la pendola, la sola cosa viva che restasse intorno a me, come mi tenne compagnia in quelle prime ore! La lancetta camminava lentamente ai piedi di una donna che se ne stava appoggiata ad una colonna con un’anfora sulle braccia, e la voce interna del meccanismo mi cullava come una nota ninnananna.
Una vicina venne a prendermi e mi condusse in casa sua. Passai alcuni giorni intontita, lasciandomi mettere un velo nero intorno al collo e delle boccole nere nelle orecchie, e rispondendo meccanicamente ad una quantità di requiem. Poi sopraggiunsero delle persone che non conoscevo, che mi fecero scrivere il mio nome e che guardarono in tutti i cassetti della morta.
Pare che la buona donna vivesse con una pensione che cessò subito e pare anche che tutti i mobili di casa fossero venduti a mio profitto, poichè intesi parlare di darmi uno stato. Così fui posta in un collegio di monache, dove rimasi poco più di due anni e dal quale mi levò poi una signora per prendermi a compagna delle sue figlie.
Ma intanto s’era formata nel mio pensiero una completa evoluzione. Finchè avevo creduto di appartenere alla famiglia della vecchia, l’umiliazione ed il dolore di trovarmi in un continuo disaccordo, in un disagio oltre ogni dire penoso, comprimeva qualunque molla del mio organismo. Mi sentivo prigioniera e come molti prigionieri sospiravo alla libertà, ma senza nessun disegno di fuga. Qualunque fossero i miei istinti, col regime a cui ero avvezza, non mi aspettavo che l’atrofia completa. Dove avrei trovato l’energia per insorgere contro tutto un passato di tradizioni, di pregiudizi, di ignoranza, inceppata come ero dalla mia ignoranza stessa?
Tutto cambiò quando seppi che non appartenevo a nessuno, quando il passato fu mio, esclusivamente mio, al pari dell’avvenire.
Questa grande responsabilità cadutami addosso all’improvviso, e cessato lo stordimento del colpo, in mezzo ad una malinconia penetrante ed austera rivelò me a me stessa. Non ero più la figlia e la nipote di gente gretta, degenerata, ridotta ad una vita di puro istinto: ero io, cioè una forza libera, una volontà assoluta, una coscienza intera; perfino il buio impenetrabile che precedeva la mia venuta nel mondo, lungi dall’avvilirmi, in certi momenti mi esaltava. Vedevo in esso dei punti d’oro a cui la mia fantasia attaccava fili misteriosi.
Chi mi avrebbe mai detto di chi sono figlia? Ma veramente un nome è sempre tutto? Io sento di avere degli antenati alti, una scala ascendente verso le migliori idealità umane e tutti i germi del bene mi furono tramandati. Che mi importa il nome? Che mi importano le ricchezze? Chiunque siate, avi degli avi miei, vi benedico!