Aminta (1590)/Atto primo/Scena seconda

Scena seconda

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Atto primo - Scena prima Atto primo - Choro


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SCENA SECONDA.

Aminta. Tirſi.

H
Ò viſto al pianto mio

Riſponder per pietate i ſaſſi, e l’onde;
     E ſoſpirar le fronde
     Hò viſto al pianto mio:
     5Mà non hò viſto mai
     Nè ſpero di vedere
     Compaſſion ne la crudele, e bella,
     Che non sò s’io mi chiami ò donna, ò fera,
     Ma niega d’eſſer donna,
     10Poiche nega pietate
     À chi non la negaro
     Le coſe inanimate.

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     Tir.Paſce l’agna, l’herbette, il lupo l’agne,
     Ma il crudo amor di lagrime ſi paſce,
     15Nè ſe ne mostra mai ſatollo,
     Am.     Ahi,laſſo,
     Ch’Amor ſatollo è del mio pianto homai,
     E ſolo ha ſete del mio ſangue, e tosto
     Voglio, ch’egli, e quest’empia il ſangue mio
     Beuan con gl’occhi.
     Tir.     Ahi, Aminta, ahi Aminta
     20Che parli? ò che vaneggi? hor ti conforta,
     Ch’un’altra trouerai, ſe ti disprezza
     Questa crudele.
     Am     Ohime, come poß’io
     Altri trouar, ſe me trouar non poſſo?
     Se perduto hò me ſteſſo, quale acquiſto
     25Farò mai, che mi piaccia?
     Tir.     Ò miſerello,
     Non disperar, ch’acquisterai costei.
     La lunga etate inſegna à l’huom di porre
     Freno à i leoni, & à le tigri Hircane.

     Am.Ma il miſero non puote à la ſua morte
     30Indugio ſoſtener di lungo tempo.

     Tir.Sarà corto l’indugio: in breue spatio
     S’adirà, e in breue spatio anco ſi placa
     Femina, coſa mobil per natura,
     Più che fraſchetta al vento, e più che cima
     35Di piegheuole spica. ma, ti prego,
     Fà, ch’io ſappia più à dentro de la tua
     Dura conditione, e de l’amore:
     Che, ſe ben confeſſato m’hai più volte
     D’amare, mi taceſti però doue
     40Foſſe poſto l’amore. & è ben degna

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     La fedele amicitia, & il commune
     Studio de le Muſe, ch’à me ſcuopra
     Ciò ch’à gli altri ſi cela.
     Am.     Io ſon contento,
     Tirſi, à te dir ciò, che le ſelue, e i monti,
     45E i fiumi ſanno, e gli huomini non ſanno.
     Ch’io ſono homai sì proſſimo à la morte,
     Ch’è ben ragion, ch’io laſci, chi ridica
     La cagion del morire, e che l’incida
     Ne la ſcorza d’un faggio, preſſo il luogo,
     50Doue ſarà ſepolto il corpo eſangue:
     Sì, che tal hor, paſſandoui quell’empia,
     Si goda di calcar l’oſſa infelici
     Co’l piè ſuperbo, e trà ſe dica, È queſto
     Pur mio trionfo; e goda di vedere,
     55Che nota ſia la ſua vittoria à tutti
     Li pastor paeſani, e pellegrini,
     Che quiui il caſo guidi: e forſe (ahi, spero
     Troppo alte coſe) un giorno eſſer potrebbe,
     Ch’ella, commoſſa da tarda pietate,
     60Piangeſſe morto, chi già viuo ucciſe;
     Dicendo, O pur quì foſſe, e foſſe mio.
     Hor odi.
     Tir.     Segui pur, ch’io ben t’aſcolto,
     E forſe à miglior fin, che tu non penſi.

     Am.Eſſendo io fanciulletto, ſi, che à pena
     65Giunger potea con la man pargoletta
     À corre i fiutti da i piegati rami
     De gli arboſcelli, intrinſeco diuenni
     De la più vaga, e cara Verginella,

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     Che mai spiegaſſe al vento chioma d’oro:
     70La figliuola conoſci di Cidippe?
     E di Montan ricchiſſimo d’armenti,
     Siluia, honor de le ſelue, ardor de l’alme?
     Di queſta parlo, ahi laſſo: viſſi à queſta
     Coſi unito alcun tempo, che frà due
     75Tortorelle più fida compagnia
     Non ſarà mai, nè fue.
     Congiunti eran gli alberghi,
     Ma più congiunti i cori:
     Conforme era l’etate,
     80Ma’l penſier più conforme:
     Seco tendeua inſidie con le reti
     À i peſci, & à gli augelli, e ſeguitaua
     I cerui ſeco, e le veloci dame;
     E’l diletto, e la preda era commune.
     85Ma, mentre io fea rapina d’animali,
     Fui non sò come à me ſteſſo rapito.
     À poco à poco nacque nel mio petto,
     Non sò da qual radice,
     Com’herba ſuol, che per ſe steſſa germini,
     90Un’incognito affetto,
     Che mi fea deſiare
     D’eſſer ſempre preſente
     À la mia bella Siluia;
     E beuea da’ ſuoi lumi
     95Un’estranea dolcezza
     Che laſciaua nel fine

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     Un non sò che d’amaro:
     Soſpriraua ſouente, e non ſapeua
     La cagion de’ ſospiri.
     100Così fui prima Amante, ch’intendeſſi,
     Che coſa foſſe Amore.
     Ben me n’accorſi al fin: &, in qual modo,
     Hora m’aſcolta, e nota.
     Tir.     È da notare.
     Am.À l’ombra d’un bel faggio Siluia, e Filli
     105Sedean’un giorno, & io con loro inſieme;
     Quando un’ape ingegnoſa, che cogliendo
     Sen’giua il mel per que’ prati fioriti,
     À le guancie di Fillide volando,
     À le guancie vermiglie, come roſa,
     110Le morſe, e le rimorſe auidamente;
     Ch’à la ſimilitudine ingannata
     Forſe un fior le credette. allhora Filli
     Cominciò lamentarſi, impatiente
     De l’acuta puntura:
     115Ma la mia bella Siluia diſſe, Taci,
     Taci, non ti lagnar, Filli, perch’io
     Con parole d’incanti leuerotti
     Il dolor de la picciola ferita.
     À me inſegnò già questo ſecreto
     120La ſaggi a Areſia, e n’hebbe per mercede
     Quel mio corno d’auolio ornato d’oro.
     Coſi dicendo, auuicinò le labra
     De la ſua bella, e dolciſſima bocca
     À la guancia rimorſa, e con ſoaue

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     125Suſurro mormorò non sò che verſi.
     Ò mirabili effetti. ſentì toſto
     Ceſſar la doglia, ò foſſe la virtute
     Di que’ magici detti, ò, com’io credo,
     La virtù de la bocca,
     130Che ſana ciò che tocca.
     Io che fino à quel punto altro non volſi,
     Che’l ſoaue ſplendor de gli occhi belli,
     E le dolci parole, aſſai più dolci,
     Che’l mormorar d’un lento fiumicello,
     135Che rompa il corſo frà minuti ſaſſi,
     Ò che’l garrir de l’aura infra le frondi;
     Allhor ſentij nel cor nouo deſire
     D’appreſſare à la ſua questa mia bocca:
     E, fatto non sò come aſtuto, e ſcaltro
     140Più de l’uſato, (guarda, quanto Amore
     Aguzza l’intelletto) mi ſouuenne
     D’un’inganno gentile, co’l qual’io
     Recar poteſſi à fine il mio talento:
     Che, fingendo, ch’un’ape haueſſe morſo
     145Il mio labro di ſotto, incominciai
     À lamentarmi di cotal maniera,
     Che quella medicina, che la lingua
     Non richiedeua, il volto richiedeua.
     La ſemplicetta Siluia,
     150Pietoſa del mio male,
     S’offrì di dar aita
     À la finta ferita, ahi laſſo, e fece

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     Più cupa, e più mortale
     La mia piaga verace,
     155Quando le labra ſue
     Giunſe à le labra mie.
     Nè l’api d’alcun fiore
     Coglion sì dolce il mel, ch’allhora io colſi
     Da quelle freſche roſe,
     160Se ben gli ardenti baci,
     Che spingeua il deſire à inhumidirſi,
     Raffrenò la temenza,
     E la vergogna, ò felli
     Più lenti, e meno audaci:
     165Ma, mentre al cor ſcendeua
     Quella dolcezza miſta
     D’un ſecreto veleno,
     Tal diletto n’hauea,
     Che, fingendo, ch’ancor non mi paſſaſſe
     170Il dolor di quel morſo,
     Fei sì, ch’ella più volte
     Vi replicò l’incanto.
     Da indi in quà andò in guiſa creſcendo
     Il deſire, e l’affanno impatiente,
     175Che, non potendo più capir nel petto,
     Fù forza, che ſcoppiaſſe; & una volta,
     Che in cerchio ſedeuam Ninfe, e Pastori
     E faceuamo alcuni nostri giuochi,
     Che ciaſcun ne l’orecchio del vicino
     180Mormorando diceua un ſuo ſecreto,

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     Siluia, le diſſi, io per te ardo, e certo
     Morrò ſe non m’aiti. À quel parlare
     Chinò ella il bel volto, e fuor le venne
     Un’improuiſo, inſolito roſſore,
     185Che diede ſegno di vergogna, e d’ira:
     Nè hebbi altra rispoſta, che un ſilentio
     Un ſilentio turbato, e pien di dure
     Minaccie. indi ſi tolſe, e più non volle
     Nè vedermi, nè udirmi. e già tre volte
     190Hà il nudo mietitor tronche le spighe,
     Et altretante il verno hà ſcoſſi i boſchi
     De le lor verdi chiome: & ogni coſa
     Tentata hò per placarla, fuor che Morte.
     Mi resta ſol, che, per placarla, io mora,
     195E morrò volontier, pur ch’io ſia certo,
     Ch’ella ò ſe ne compiaccia, ò ſe ne doglia;
     Nè sò di tai due coſe, qual più brami.
     Ben fora la pietà premio maggiore
     À la mia fede, e maggior ricompenſa
     200À la mia morte: ma bramar non deggio
     Coſa, che turbi il bel lume ſereno
     À gli occhi cari, e affanni quel bel petto.

     Tir.È poſſibil però, che, s’ella un giorno
     Udiſſe tai parole, non t’amaſſe?

     Am.205Non sò, nè’l credo; ma fugge i miei detti
     Come l’aſpe l’incanto.
     Tir.     Hor ti confida,
     Ch’à me dà il cuor di far, ch’ella t’aſcolti.

     Am.Ò nulla impetrerai, ò, ſe tu impetri,

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     Ch’io parli, io nulla impetrerò parlando.
     Tir.210Perche disperi ſi?     Am.     Giuſta cagione
     Hò del mio disperar, che il ſaggio Mopſo
     Mi prediſſe la mia cruda ventura,
     Mopſo, ch’intende il parlar de gli augelli,
     E la virtù de l’herbe, e de le fonti.

     Tir.215Di qual Mopſo tu dici? di quel Mopſo,
     C’hà ne la lingua melate parole,
     E ne le labra un’amicheuol ghigno,
     E la fraude nel ſeno, & il raſoio
     Tien ſotto il manto? Hor sù, ſtà di bon core,
     220Che i ſciaurati pronostichi infelici,
     Ch’ei vende à mal’accorti, con quel graue
     Suo ſupercilio, non han mai effetto;
     E per proua sò io ciò che ti dico;
     Anzi da questo ſol, ch’ei t’hà predetto,
     225Mi gioua di sperar felice fine
     À l’Amor tuo.
     Am.     Se ſai coſa per proua,
     Che conforti mia speme, non tacerla.

     Tir.Dirolla volontieri. Allhor, che prima
     Mia ſorte mi conduſſe in queſte ſelue,
     230Coſtui conobbi, e lo ſtimaua io tale,
     Qual tu lo stimi: in tanto un dì mi venne
     E biſogno, e talento d’irne doue
     Siede la gran Cittade in ripa al fiume,
     Et à costui ne feci motto; & egli
     235Coſi mi diſſe: Andrai ne la gran Terra,
     Oue gli astuti, e ſcaltri Cittadini,

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     E i cortigian maluagi molte volte
     prendonſi à gabbo, e fanno brutti ſcherni
     Di noi rustici incauti: Però, figlio,
     240Và ſu l’auuiſo, e non t’appreſſar troppo
     Oue ſian drappi colorati, e d’oro,
     E pennacchi, e diuiſe, e foggie noue:
     Ma ſopra tutto guarda, che mal fato,
     Ò giouenil vaghezza non ti meni
     245Al magazino de le ciancie, ah fuggi,
     Fuggi quell’incantato alloggiamento:
     Che luogo è queſto? io chieſi: & ei ſoggiunſe,
     Quiui habitan le maghe, che incantando
     Fan traueder, e traudir ciaſcuno.
     250Ciò che Diamante ſembra, & oro fino;
     È vetro, e rame: e quelle arche d’argento,
     Che stimereſti piene di theſoro;
     Sporte ſon piene di veſciche bugge;
     Quiui le mura ſon fatte con arte,
     255Che parlano, e rispondono à i parlanti;
     Nè già rispondon la parola mozza,
     Com’Echo ſuole ne le nostre ſelue,
     Ma la replican tutta intiera intiera;
     Con giunta anco di quel, ch’altri non diſſe.
     260I trespidi, le tauole, e le panche,
     Le ſcranne, le lettiere, le cortine,
     E gli arneſi di camera, e di ſala,
     Han tutti lingua, e voce; e gridan ſempre.
     Quiui le ciancie in forma di bambine

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     265Vanno treſcando, e, ſe un muto v’entraſſe
     Un muto ciancerebbe à ſuo dispetto.
     Ma queſto è’l minor mal, che ti poteſſe
     Incontrar: tu potreſti indi reſtarne
     Conuerſo in ſalce, in fera, in acqua, ò in foco;
     270Acqua di pianto, e foco di ſospiri.
     Coſi diß’egli: & io n’andai con queſto
     Fallace antiueder ne la Cittade;
     Et, come volſe il Ciel benigno, à caſo
     Paſſai per là dou’è’l felice albergo.
     275Quindi uſcian fuor voci canore, e dolci,
     E di Cigni, e di Ninfe, e di Sirene;
     Di Sirene celeſti, e n’uſcian ſuoni
     Soaui, e chiari; e tanto altro diletto,
     Ch’attonito godendo, & ammirando
     280Mi fermai buona pezza. Era ſu l’uſcio,
     Quaſi per guardia de le coſe belle,
     Huom d’aspetto magnanimo, e robuſto,
     Di cui, per quanto inteſi, in dubbio ſtaſſi,
     S’egli ſia miglior dvce, ò Caualiero;
     285Che con fonte benigna inſieme, e graue,
     Con regal corteſia, inuitò dentro,
     Ei grande, e’n pregio, me negletto, e baſſo.
     Ò che ſentij? che vidi allhora? I vidi
     Celeſti Dee, Ninfe leggiadre, e belle;
     290Noui lumi, & Orfei; & altre anchora
     Senza vel, ſenza nube, e quale, e quanta
     À gl’immortali appar vergine Aurora

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     Sparger d’argento, e d’or rugiade, e raggi;
     E fecondando illuminar d’intorno
     295Vidi Febo, e le Muſe; e frà le Muſe
     Elpin ſeder accolto, & in quel punto
     Sentij me far di me steſſo maggiore;
     Pien di noua virtù; pieno di noua
     Deitade, e cantai guerre, & heroi,
     300Sdegnando paſtoral ruuido carme.
     E, ſe ben poi (come altrui piacque) feci
     Ritorno à queste ſelue, io pur ritenni
     Parte di quello spirto; nè già ſuona
     La mia ſampogna humil come ſoleua;
     305Ma di voce più altera, e più ſonora,
     Emula de le trombe, empie le ſelue.
     Udimmi Mopſo poſcia; e con maligno
     Guardo mirando affaſcinommi; ond’io
     Roco diuenni, e poi gran tempo tacqui:
     310Quando i Pastor credean, ch’io foſſi ſtato
     Visto dal Lupo; e’l Lupo era coſtui.
     Questo t’ho detto, acciò che ſappi, quanto
     Il parlar di costui di fede è degno:
     E dei bene sperar, ſol perche ei vuole,
     315Che nulla speri.
     Am.     Piacemi d’udire
     Quanto mi narri. à te dunque rimetto
     La cura di mia vita.
     Tir.     Io n’haurò cura.
     Tu frà mez’hora quì trouar ti laſſa.

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SCENA SECONDA.

Aminta. Tirsi.

H
Ò visto al pianto mio

Risponder per pietate i sassi, e l’onde;
     E sospirar le fronde
     Ho visto al pianto mio:
     5Ma non ho visto mai
     Né spero di vedere
     Compassion ne la crudele, e bella,
     Che non so s’io mi chiami o donna, o fera,
     Ma niega d’esser donna,
     10Poiché nega pietate
     A chi non la negaro
     Le cose inanimate.

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     Tir.Pasce l’agna, l’erbette, il lupo l’agne,
     Ma il crudo amor di lagrime si pasce,
     15Né se ne mostra mai satollo,
     Am.     Ahi,lasso,
     Ch’Amor satollo è del mio pianto omai,
     E solo ha sete del mio sangue, e tosto
     Voglio, ch’egli, e quest’empia il sangue mio
     Bevan con gl’occhi.
     Tir.     Ahi, Aminta, ahi Aminta
     20Che parli? O che vaneggi? Or ti conforta,
     Ch’un’altra troverai, se ti disprezza
     Questa crudele.
     Am     Ohimé, come poss’io
     Altri trovar, se me trovar non posso?
     Se perduto ho me stesso, quale acquisto
     25Farò mai, che mi piaccia?
     Tir.     O miserello,
     Non disperar, ch’acquisterai costei.
     La lunga etate insegna a l’uom di porre
     Freno a i leoni, ed a le tigri ircane.

     Am.Ma il misero non puote a la sua morte
     30Indugio sostener di lungo tempo.

     Tir.Sarà corto l’indugio: in breve spazio
     S’adirà, e in breve spazio anco si placa
     Femina, cosa mobil per natura,
     Più che fraschetta al vento, e più che cima
     35Di pieghevole spica. ma, ti prego,
     Fa’, ch’io sappia più a dentro de la tua
     Dura condizione, e de l’amore:
     Che, se ben confessato m’hai più volte
     D’amare, mi tacesti però dove
     40Fosse posto l’amore. Ed è ben degna

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     La fedele amicizia, ed il commune
     Studio de le Muse, ch’a me scuopra
     Ciò ch’a gli altri si cela.
     Am.     Io son contento,
     Tirsi, a te dir ciò, che le selve, e i monti,
     45E i fiumi sanno, e gli uomini non sanno.
     Ch’io sono omai sì prossimo a la morte,
     Ch’è ben ragion, ch’io lasci, chi ridica
     La cagion del morire, e che l’incida
     Ne la scorza d’un faggio, presso il luogo,
     50Dove sarà sepolto il corpo esangue:
     Sì, che tal or, passandovi quell’empia,
     Si goda di calcar l’ossa infelici
     Co’l piè superbo, e tra se dica, È questo
     Pur mio trionfo; e goda di vedere,
     55Che nota sia la sua vittoria a tutti
     Li pastor paesani, e pellegrini,
     Che quivi il caso guidi: e forse (ahi, spero
     Troppo alte cose) un giorno esser potrebbe,
     Ch’ella, commossa da tarda pietate,
     60Piangesse morto, chi già vivo uccise;
     Dicendo, O pur qui fosse, e fosse mio.
     Or odi.
     Tir.     Segui pur, ch’io ben t’ascolto,
     E forse a miglior fin, che tu non pensi.

     Am.Eſſendo io fanciulletto, ſi, che à pena
     65Giunger potea con la man pargoletta
     À corre i fiutti da i piegati rami
     De gli arboſcelli, intrinſeco diuenni
     De la più vaga, e cara Verginella,

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     Che mai spiegasse al vento chioma d’oro:
     70La figliuola conosci di Cidippe?
     E di Montan ricchissimo d’armenti,
     Silvia, onor de le selve, ardor de l’alme?
     Di questa parlo, ahi lasso: vissi a questa
     Così unito alcun tempo, che fra due
     75Tortorelle più fida compagnia
     Non sarà mai, né fue.
     Congiunti eran gli alberghi,
     Ma più congiunti i cori:
     Conforme era l’etate,
     80Ma’l pensier più conforme:
     Seco tendeva insidie con le reti
     A i pesci, ed a gli augelli, e seguitava
     I cervi seco, e le veloci dame;
     E’l diletto, e la preda era commune.
     85Ma, mentre io fea rapina d’animali,
     Fui non so come a me stesso rapito.
     A poco a poco nacque nel mio petto,
     Non so da qual radice,
     Com’erba suol, che per se stessa germini,
     90Un’incognito affetto,
     Che mi fea desiare
     D’esser sempre presente
     A la mia bella Silvia;
     E bevea da’ suoi lumi
     95Un’estranea dolcezza
     Che lasciaua nel fine

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     Un non so che d’amaro:
     Sosprirava sovente, e non sapeva
     La cagion de’ sospiri.
     100Così fui prima Amante, ch’intendessi,
     Che cosa fosse Amore.
     Ben me n’accorsi al fin: ed, in qual modo,
     Ora m’ascolta, e nota.
     Tir.     È da notare.
     Am.A l’ombra d’un bel faggio Silvia, e Filli
     105Sedean un giorno, ed io con loro insieme;
     Quando un’ape ingegnosa, che cogliendo
     Sen’ giva il mel per que’ prati fioriti,
     A le guancie di Fillide volando,
     A le guancie vermiglie, come rosa,
     110Le morse, e le rimorse avidamente;
     Ch’a la similitudine ingannata
     Forse un fior le credette. Allora Filli
     Cominciò lamentarsi, impaziente
     De l’acuta puntura:
     115Ma la mia bella Silvia disse, Taci,
     Taci, non ti lagnar, Filli, perch’io
     Con parole d’incanti leverotti
     Il dolor de la picciola ferita.
     A me insegnò già questo secreto
     120La saggi a Aresia, e n’ebbe per mercede
     Quel mio corno d’avolio ornato d’oro.
     Così dicendo, avvicinò le labra
     De la sua bella, e dolcissima bocca
     A la guancia rimorsa, e con soaue

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     125Susurro mormorò non so che versi.
     O mirabili effetti. Sentì tosto
     Cessar la doglia, o fosse la virtute
     Di que’ magici detti, o, com’io credo,
     La virtù de la bocca,
     130Che sana ciò che tocca.
     Io che fino a quel punto altro non volsi,
     Che’l soave splendor de gli occhi belli,
     E le dolci parole, assai più dolci,
     Che’l mormorar d’un lento fiumicello,
     135Che rompa il corso fra minuti sassi,
     O che’l garrir de l’aura infra le frondi;
     Allor sentii nel cor novo desire
     D’appressare a la sua questa mia bocca:
     E, fatto non so come astuto, e scaltro
     140Più de l’usato, (guarda, quanto Amore
     Aguzza l’intelletto) mi sovvenne
     D’un inganno gentile, co’l qual’io
     Recar potessi à fine il mio talento:
     Che, fingendo, ch’un’ape avesse morso
     145Il mio labro di sotto, incominciai
     A lamentarmi di cotal maniera,
     Che quella medicina, che la lingua
     Non richiedeva, il volto richiedeva.
     La semplicetta Silvia,
     150Pietosa del mio male,
     S’offrì di dar aita
     A la finta ferita, ahi lasso, e fece

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     Più cupa, e più mortale
     La mia piaga verace,
     155Quando le labra sue
     Giunse a le labra mie.
     Nè l’api d’alcun fiore
     Coglion sì dolce il mel, ch’allora io colsi
     Da quelle fresche rose,
     160Se ben gli ardenti baci,
     Che spingeva il desire a inumidirsi,
     Raffrenò la temenza,
     E la vergogna, o felli
     Più lenti, e meno audaci:
     165Ma, mentre al cor scendeva
     Quella dolcezza mista
     D’un secreto veleno,
     Tal diletto n’avea,
     Che, fingendo, ch’ancor non mi passasse
     170Il dolor di quel morso,
     Fei sì, ch’ella più volte
     Vi replicò l’incanto.
     Da indi in qua andò in guisa crescendo
     Il desire, e l’affanno impaziente,
     175Che, non potendo più capir nel petto,
     Fu forza, che scoppiasse; ed una volta,
     Che in cerchio sedevam Ninfe, e Pastori
     E facevamo alcuni nostri giuochi,
     Che ciascun ne l’orecchio del vicino
     180Mormorando diceva un suo secreto,

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     Silvia, le dissi, io per te ardo, e certo
     Morrò se non m’aiti. A quel parlare
     Chinò ella il bel volto, e fuor le venne
     Un’improviso, insolito rossore,
     185Che diede segno di vergogna, e d’ira:
     Né ebbi altra risposta, che un silenzio
     Un silentio turbato, e pien di dure
     Minaccie. Indi si tolse, e più non volle
     Né vedermi, né udirmi. E già tre volte
     190Ha il nudo mietitor tronche le spighe,
     Ed altretante il verno ha scossi i boschi
     De le lor verdi chiome: ed ogni cosa
     Tentata ho per placarla, fuor che Morte.
     Mi resta sol, che, per placarla, io mora,
     195E morrò volontier, pur ch’io sia certo,
     Ch’ella o se ne compiaccia, o se ne doglia;
     Né so di tai due cose, qual più brami.
     Ben fora la pietà premio maggiore
     A la mia fede, e maggior ricompensa
     200A la mia morte: ma bramar non deggio
     Cosa, che turbi il bel lume sereno
     A gli occhi cari, e affanni quel bel petto.

     Tir.È possibil però, che, s’ella un giorno
     Udisse tai parole, non t’amasse?

     Am.205Non so, né’l credo; ma fugge i miei detti
     Come l’aspe l’incanto.
     Tir.     Or ti confida,
     Ch’a me dà il cuor di far, ch’ella t’ascolti.

     Am.O nulla impetrerai, o, se tu impetri,

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     Ch’io parli, io nulla impetrerò parlando.
     Tir.210Perché disperi si?     Am.     Giusta cagione
     Ho del mio disperar, che il saggio Mopso
     Mi predisse la mia cruda ventura,
     Mopso, ch’intende il parlar de gli augelli,
     E la virtù de l’erbe, e de le fonti.

     Tir.215Di qual Mopso tu dici? Di quel Mopso,
     C’ha ne la lingua melate parole,
     E ne le labra un amichevol ghigno,
     E la fraude nel seno, ed il rasoio
     Tien ſotto il manto? Or su, sta di bon core,
     220Che i sciaurati pronostichi infelici,
     Ch’ei vende a mal’accorti, con quel grave
     Suo supercilio, non han mai effetto;
     E per prova so io ciò che ti dico;
     Anzi da questo sol, ch’ei t’ha predetto,
     225Mi giova di sperar felice fine
     A l’Amor tuo.
     Am.     Se sai cosa per prova,
     Che conforti mia speme, non tacerla.

     Tir.Dirolla volontieri. Allor, che prima
     Mia sorte mi condusse in queste seve,
     230Costui conobbi, e lo stimava io tale,
     Qual tu lo stimi: in tanto un dì mi venne
     E bisogno, e talento d’irne dove
     Siede la gran Cittade in ripa al fiume,
     Et a costui ne feci motto; ed egli
     235Così mi disse: Andrai ne la gran Terra,
     Ove gli astuti, e scaltri Cittadini,

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     E i cortigian malvagi molte volte
     prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni
     Di noi rustici incauti: però, figlio,
     240Va su l’avviso, e non t’appressar troppo
     Ove sian drappi colorati, e d’oro,
     E pennacchi, e divise, e foggie nove:
     Ma sopra tutto guarda, che mal fato,
     O giovenil vaghezza non ti meni
     245Al magazzino de le ciancie, ah fuggi,
     Fuggi quell’incantato alloggiamento:
     Che luogo è questo? Io chiesi: ed ei soggiunse,
     Quivi abitan le maghe, che incantando
     Fan traveder, e traudir ciascuno.
     250Ciò che diamante sembra, ed oro fino;
     È vetro, e rame: e quelle arche d’argento,
     Che stimeresti piene di tesoro;
     Sporte son piene di vesciche bugge;
     Quivi le mura son fatte con arte,
     255Che parlano, e rispondono a i parlanti;
     Né già rispondon la parola mozza,
     Com’Echo suole ne le nostre selve,
     Ma la replican tutta intiera intiera;
     Con giunta anco di quel, ch’altri non disse.
     260I trespidi, le tavole, e le panche,
     Le scranne, le lettiere, le cortine,
     E gli arnesi di camera, e di sala,
     Han tutti lingua, e voce; e gridan sempre.
     Quivi le ciancie in forma di bambine

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     265Vanno trescando, e, se un muto v’entrasse
     Un muto ciancerebbe a suo dispetto.
     Ma questo è’l minor mal, che ti potesse
     Incontrar: tu potresti indi restarne
     Converso in selce, in fera, in acqua, o in foco;
     270Acqua di pianto, e foco di sospiri.
     Cosi diss’egli: ed io n’andai con questo
     Fallace antiveder ne la Cittade;
     E, come volse il Ciel benigno, a caso
     Passai per là dov’è’l felice albergo.
     275Quindi uscian fuor voci canore, e dolci,
     E di Cigni, e di Ninfe, e di Sirene;
     Di Sirene celesti, e n’uscian suoni
     Soavi, e chiari; e tanto altro diletto,
     Ch’attonito godendo, ed ammirando
     280Mi fermai buona pezza. Era su l’uscio,
     Quasi per guardia de le cose belle,
     Uom d’aspetto magnanimo, e robusto,
     Di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi,
     S’egli sia miglior dvce, o Cavaliero;
     285Che con fonte benigna insieme, e grave,
     Con regal cortesia, invitò dentro,
     Ei grande, e’n pregio, me negletto, e basso.
     I che sentii? che vidi allora? I vidi
     Celesti Dee, Ninfe leggiadre, e belle;
     290Novi lumi, ed Orfei; ed altre ancora
     Senza vel, senza nube, e quale, e quanta
     A gl’immortali appar vergine Aurora

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     Sparger d’argento, e d’or rugiade, e raggi;
     E fecondando illuminar d’intorno
     295Vidi Febo, e le Muse; e fra le Muse
     Elpin seder accolto, ed in quel punto
     Sentii me far di me stesso maggiore;
     Pien di nova virtù; pieno di nova
     Deitade, e cantai guerre, ed eroi,
     300Sdegnando pastoral ruvido carme.
     E, se ben poi (come altrui piacque) feci
     Ritorno a queste selve, io pur ritenni
     Parte di quello spirto; né già suona
     La mia sampogna umil come soleva;
     305Ma di voce più altera, e più sonora,
     Emula de le trombe, empie le selve.
     Udimmi Mopso poscia; e con maligno
     Guardo mirando affascinommi; ond’io
     Roco divenni, e poi gran tempo tacqui:
     310Quando i Pastor credean, ch’io fossi stato
     Visto dal Lupo; e’l Lupo era costui.
     Questo t’ho detto, acciò che sappi, quanto
     Il parlar di costui di fede è degno:
     E dei bene sperar, sol perché ei vuole,
     315Che nulla speri.
     Am.     Piacemi d’udire
     Quanto mi narri. A te dunque rimetto
     La cura di mia vita.
     Tir.     Io n’avrò cura.
     Tu fra mezz’ora qui trovar ti lassa.