Riſponder per pietate i ſaſſi, e l’onde;
E ſoſpirar le fronde
Hò viſto al pianto mio: 5Mà non hò viſto mai
Nè ſpero di vedere
Compaſſion ne la crudele, e bella,
Che non sò s’io mi chiami ò donna, ò fera,
Ma niega d’eſſer donna, 10Poiche nega pietate
À chi non la negaro
Le coſe inanimate.
Tir.Paſce l’agna, l’herbette, il lupo l’agne,
Ma il crudo amor di lagrime ſi paſce, 15Nè ſe ne mostra mai ſatollo, Am. Ahi,laſſo,
Ch’Amor ſatollo è del mio pianto homai,
E ſolo ha ſete del mio ſangue, e tosto
Voglio, ch’egli, e quest’empia il ſangue mio
Beuan con gl’occhi. Tir. Ahi, Aminta, ahi Aminta 20Che parli? ò che vaneggi? hor ti conforta,
Ch’un’altra trouerai, ſe ti disprezza
Questa crudele. Am Ohime, come poß’io
Altri trouar, ſe me trouar non poſſo?
Se perduto hò me ſteſſo, quale acquiſto 25Farò mai, che mi piaccia? Tir. Ò miſerello,
Non disperar, ch’acquisterai costei.
La lunga etate inſegna à l’huom di porre
Freno à i leoni, & à le tigri Hircane. Am.Ma il miſero non puote à la ſua morte 30Indugio ſoſtener di lungo tempo. Tir.Sarà corto l’indugio: in breue spatio
S’adirà, e in breue spatio anco ſi placa
Femina, coſa mobil per natura,
Più che fraſchetta al vento, e più che cima 35Di piegheuole spica. ma, ti prego,
Fà, ch’io ſappia più à dentro de la tua
Dura conditione, e de l’amore:
Che, ſe ben confeſſato m’hai più volte
D’amare, mi taceſti però doue 40Foſſe poſto l’amore. & è ben degna
La fedele amicitia, & il commune
Studio de le Muſe, ch’à me ſcuopra
Ciò ch’à gli altri ſi cela. Am. Io ſon contento,
Tirſi, à te dir ciò, che le ſelue, e i monti, 45E i fiumi ſanno, e gli huomini non ſanno.
Ch’io ſono homai sì proſſimo à la morte,
Ch’è ben ragion, ch’io laſci, chi ridica
La cagion del morire, e che l’incida
Ne la ſcorza d’un faggio, preſſo il luogo, 50Doue ſarà ſepolto il corpo eſangue:
Sì, che tal hor, paſſandoui quell’empia,
Si goda di calcar l’oſſa infelici
Co’l piè ſuperbo, e trà ſe dica, È queſto
Pur mio trionfo; e goda di vedere, 55Che nota ſia la ſua vittoria à tutti
Li pastor paeſani, e pellegrini,
Che quiui il caſo guidi: e forſe (ahi, spero
Troppo alte coſe) un giorno eſſer potrebbe,
Ch’ella, commoſſa da tarda pietate, 60Piangeſſe morto, chi già viuo ucciſe;
Dicendo, O pur quì foſſe, e foſſe mio.
Hor odi. Tir. Segui pur, ch’io ben t’aſcolto,
E forſe à miglior fin, che tu non penſi. Am.Eſſendo io fanciulletto, ſi, che à pena 65Giunger potea con la man pargoletta
À corre i fiutti da i piegati rami
De gli arboſcelli, intrinſeco diuenni
De la più vaga, e cara Verginella,
Che mai spiegaſſe al vento chioma d’oro: 70La figliuola conoſci di Cidippe?
E di Montan ricchiſſimo d’armenti,
Siluia, honor de le ſelue, ardor de l’alme?
Di queſta parlo, ahi laſſo: viſſi à queſta
Coſi unito alcun tempo, che frà due 75Tortorelle più fida compagnia
Non ſarà mai, nè fue.
Congiunti eran gli alberghi,
Ma più congiunti i cori:
Conforme era l’etate, 80Ma’l penſier più conforme:
Seco tendeua inſidie con le reti
À i peſci, & à gli augelli, e ſeguitaua
I cerui ſeco, e le veloci dame;
E’l diletto, e la preda era commune. 85Ma, mentre io fea rapina d’animali,
Fui non sò come à me ſteſſo rapito.
À poco à poco nacque nel mio petto,
Non sò da qual radice,
Com’herba ſuol, che per ſe steſſa germini, 90Un’incognito affetto,
Che mi fea deſiare
D’eſſer ſempre preſente
À la mia bella Siluia;
E beuea da’ ſuoi lumi 95Un’estranea dolcezza
Che laſciaua nel fine
Un non sò che d’amaro:
Soſpriraua ſouente, e non ſapeua
La cagion de’ ſospiri. 100Così fui prima Amante, ch’intendeſſi,
Che coſa foſſe Amore.
Ben me n’accorſi al fin: &, in qual modo,
Hora m’aſcolta, e nota. Tir. È da notare. Am.À l’ombra d’un bel faggio Siluia, e Filli 105Sedean’un giorno, & io con loro inſieme;
Quando un’ape ingegnoſa, che cogliendo
Sen’giua il mel per que’ prati fioriti,
À le guancie di Fillide volando,
À le guancie vermiglie, come roſa, 110Le morſe, e le rimorſe auidamente;
Ch’à la ſimilitudine ingannata
Forſe un fior le credette. allhora Filli
Cominciò lamentarſi, impatiente
De l’acuta puntura: 115Ma la mia bella Siluia diſſe, Taci,
Taci, non ti lagnar, Filli, perch’io
Con parole d’incanti leuerotti
Il dolor de la picciola ferita.
À me inſegnò già questo ſecreto 120La ſaggi a Areſia, e n’hebbe per mercede
Quel mio corno d’auolio ornato d’oro.
Coſi dicendo, auuicinò le labra
De la ſua bella, e dolciſſima bocca
À la guancia rimorſa, e con ſoaue
125Suſurro mormorò non sò che verſi.
Ò mirabili effetti. ſentì toſto
Ceſſar la doglia, ò foſſe la virtute
Di que’ magici detti, ò, com’io credo,
La virtù de la bocca, 130Che ſana ciò che tocca.
Io che fino à quel punto altro non volſi,
Che’l ſoaue ſplendor de gli occhi belli,
E le dolci parole, aſſai più dolci,
Che’l mormorar d’un lento fiumicello, 135Che rompa il corſo frà minuti ſaſſi,
Ò che’l garrir de l’aura infra le frondi;
Allhor ſentij nel cor nouo deſire
D’appreſſare à la ſua questa mia bocca:
E, fatto non sò come aſtuto, e ſcaltro 140Più de l’uſato, (guarda, quanto Amore
Aguzza l’intelletto) mi ſouuenne
D’un’inganno gentile, co’l qual’io
Recar poteſſi à fine il mio talento:
Che, fingendo, ch’un’ape haueſſe morſo 145Il mio labro di ſotto, incominciai
À lamentarmi di cotal maniera,
Che quella medicina, che la lingua
Non richiedeua, il volto richiedeua.
La ſemplicetta Siluia, 150Pietoſa del mio male,
S’offrì di dar aita
À la finta ferita, ahi laſſo, e fece
Più cupa, e più mortale
La mia piaga verace, 155Quando le labra ſue
Giunſe à le labra mie.
Nè l’api d’alcun fiore
Coglion sì dolce il mel, ch’allhora io colſi
Da quelle freſche roſe, 160Se ben gli ardenti baci,
Che spingeua il deſire à inhumidirſi,
Raffrenò la temenza,
E la vergogna, ò felli
Più lenti, e meno audaci: 165Ma, mentre al cor ſcendeua
Quella dolcezza miſta
D’un ſecreto veleno,
Tal diletto n’hauea,
Che, fingendo, ch’ancor non mi paſſaſſe 170Il dolor di quel morſo,
Fei sì, ch’ella più volte
Vi replicò l’incanto.
Da indi in quà andò in guiſa creſcendo
Il deſire, e l’affanno impatiente, 175Che, non potendo più capir nel petto,
Fù forza, che ſcoppiaſſe; & una volta,
Che in cerchio ſedeuam Ninfe, e Pastori
E faceuamo alcuni nostri giuochi,
Che ciaſcun ne l’orecchio del vicino 180Mormorando diceua un ſuo ſecreto,
Siluia, le diſſi, io per te ardo, e certo
Morrò ſe non m’aiti. À quel parlare
Chinò ella il bel volto, e fuor le venne
Un’improuiſo, inſolito roſſore, 185Che diede ſegno di vergogna, e d’ira:
Nè hebbi altra rispoſta, che un ſilentio
Un ſilentio turbato, e pien di dure
Minaccie. indi ſi tolſe, e più non volle
Nè vedermi, nè udirmi. e già tre volte 190Hà il nudo mietitor tronche le spighe,
Et altretante il verno hà ſcoſſi i boſchi
De le lor verdi chiome: & ogni coſa
Tentata hò per placarla, fuor che Morte.
Mi resta ſol, che, per placarla, io mora, 195E morrò volontier, pur ch’io ſia certo,
Ch’ella ò ſe ne compiaccia, ò ſe ne doglia;
Nè sò di tai due coſe, qual più brami.
Ben fora la pietà premio maggiore
À la mia fede, e maggior ricompenſa 200À la mia morte: ma bramar non deggio
Coſa, che turbi il bel lume ſereno
À gli occhi cari, e affanni quel bel petto. Tir.È poſſibil però, che, s’ella un giorno
Udiſſe tai parole, non t’amaſſe? Am.205Non sò, nè’l credo; ma fugge i miei detti
Come l’aſpe l’incanto. Tir. Hor ti confida,
Ch’à me dà il cuor di far, ch’ella t’aſcolti. Am.Ò nulla impetrerai, ò, ſe tu impetri,
Ch’io parli, io nulla impetrerò parlando. Tir.210Perche disperi ſi? Am. Giuſta cagione
Hò del mio disperar, che il ſaggio Mopſo
Mi prediſſe la mia cruda ventura,
Mopſo, ch’intende il parlar de gli augelli,
E la virtù de l’herbe, e de le fonti. Tir.215Di qual Mopſo tu dici? di quel Mopſo,
C’hà ne la lingua melate parole,
E ne le labra un’amicheuol ghigno,
E la fraude nel ſeno, & il raſoio
Tien ſotto il manto? Hor sù, ſtà di bon core, 220Che i ſciaurati pronostichi infelici,
Ch’ei vende à mal’accorti, con quel graue
Suo ſupercilio, non han mai effetto;
E per proua sò io ciò che ti dico;
Anzi da questo ſol, ch’ei t’hà predetto, 225Mi gioua di sperar felice fine
À l’Amor tuo. Am. Se ſai coſa per proua,
Che conforti mia speme, non tacerla. Tir.Dirolla volontieri. Allhor, che prima
Mia ſorte mi conduſſe in queſte ſelue, 230Coſtui conobbi, e lo ſtimaua io tale,
Qual tu lo stimi: in tanto un dì mi venne
E biſogno, e talento d’irne doue
Siede la gran Cittade in ripa al fiume,
Et à costui ne feci motto; & egli 235Coſi mi diſſe: Andrai ne la gran Terra,
Oue gli astuti, e ſcaltri Cittadini,
E i cortigian maluagi molte volte
prendonſi à gabbo, e fanno brutti ſcherni
Di noi rustici incauti: Però, figlio, 240Và ſu l’auuiſo, e non t’appreſſar troppo
Oue ſian drappi colorati, e d’oro,
E pennacchi, e diuiſe, e foggie noue:
Ma ſopra tutto guarda, che mal fato,
Ò giouenil vaghezza non ti meni 245Al magazino de le ciancie, ah fuggi,
Fuggi quell’incantato alloggiamento:
Che luogo è queſto? io chieſi: & ei ſoggiunſe,
Quiui habitan le maghe, che incantando
Fan traueder, e traudir ciaſcuno. 250Ciò che Diamante ſembra, & oro fino;
È vetro, e rame: e quelle arche d’argento,
Che stimereſti piene di theſoro;
Sporte ſon piene di veſciche bugge;
Quiui le mura ſon fatte con arte, 255Che parlano, e rispondono à i parlanti;
Nè già rispondon la parola mozza,
Com’Echo ſuole ne le nostre ſelue,
Ma la replican tutta intiera intiera;
Con giunta anco di quel, ch’altri non diſſe. 260I trespidi, le tauole, e le panche,
Le ſcranne, le lettiere, le cortine,
E gli arneſi di camera, e di ſala,
Han tutti lingua, e voce; e gridan ſempre.
Quiui le ciancie in forma di bambine
265Vanno treſcando, e, ſe un muto v’entraſſe
Un muto ciancerebbe à ſuo dispetto.
Ma queſto è’l minor mal, che ti poteſſe
Incontrar: tu potreſti indi reſtarne
Conuerſo in ſalce, in fera, in acqua, ò in foco; 270Acqua di pianto, e foco di ſospiri.
Coſi diß’egli: & io n’andai con queſto
Fallace antiueder ne la Cittade;
Et, come volſe il Ciel benigno, à caſo
Paſſai per là dou’è’l felice albergo. 275Quindi uſcian fuor voci canore, e dolci,
E di Cigni, e di Ninfe, e di Sirene;
Di Sirene celeſti, e n’uſcian ſuoni
Soaui, e chiari; e tanto altro diletto,
Ch’attonito godendo, & ammirando 280Mi fermai buona pezza. Era ſu l’uſcio,
Quaſi per guardia de le coſe belle,
Huom d’aspetto magnanimo, e robuſto,
Di cui, per quanto inteſi, in dubbio ſtaſſi,
S’egli ſia miglior dvce, ò Caualiero; 285Che con fonte benigna inſieme, e graue,
Con regal corteſia, inuitò dentro,
Ei grande, e’n pregio, me negletto, e baſſo.
Ò che ſentij? che vidi allhora? I vidi
Celeſti Dee, Ninfe leggiadre, e belle; 290Noui lumi, & Orfei; & altre anchora
Senza vel, ſenza nube, e quale, e quanta
À gl’immortali appar vergine Aurora
Sparger d’argento, e d’or rugiade, e raggi;
E fecondando illuminar d’intorno 295Vidi Febo, e le Muſe; e frà le Muſe
Elpin ſeder accolto, & in quel punto
Sentij me far di me steſſo maggiore;
Pien di noua virtù; pieno di noua
Deitade, e cantai guerre, & heroi, 300Sdegnando paſtoral ruuido carme.
E, ſe ben poi (come altrui piacque) feci
Ritorno à queste ſelue, io pur ritenni
Parte di quello spirto; nè già ſuona
La mia ſampogna humil come ſoleua; 305Ma di voce più altera, e più ſonora,
Emula de le trombe, empie le ſelue.
Udimmi Mopſo poſcia; e con maligno
Guardo mirando affaſcinommi; ond’io
Roco diuenni, e poi gran tempo tacqui: 310Quando i Pastor credean, ch’io foſſi ſtato
Visto dal Lupo; e’l Lupo era coſtui.
Questo t’ho detto, acciò che ſappi, quanto
Il parlar di costui di fede è degno:
E dei bene sperar, ſol perche ei vuole, 315Che nulla speri. Am. Piacemi d’udire
Quanto mi narri. à te dunque rimetto
La cura di mia vita. Tir. Io n’haurò cura.
Tu frà mez’hora quì trouar ti laſſa.
Risponder per pietate i sassi, e l’onde;
E sospirar le fronde
Ho visto al pianto mio: 5Ma non ho visto mai
Né spero di vedere
Compassion ne la crudele, e bella,
Che non so s’io mi chiami o donna, o fera,
Ma niega d’esser donna, 10Poiché nega pietate
A chi non la negaro
Le cose inanimate.
Tir.Pasce l’agna, l’erbette, il lupo l’agne,
Ma il crudo amor di lagrime si pasce, 15Né se ne mostra mai satollo, Am. Ahi,lasso,
Ch’Amor satollo è del mio pianto omai,
E solo ha sete del mio sangue, e tosto
Voglio, ch’egli, e quest’empia il sangue mio
Bevan con gl’occhi. Tir. Ahi, Aminta, ahi Aminta 20Che parli? O che vaneggi? Or ti conforta,
Ch’un’altra troverai, se ti disprezza
Questa crudele. Am Ohimé, come poss’io
Altri trovar, se me trovar non posso?
Se perduto ho me stesso, quale acquisto 25Farò mai, che mi piaccia? Tir. O miserello,
Non disperar, ch’acquisterai costei.
La lunga etate insegna a l’uom di porre
Freno a i leoni, ed a le tigri ircane. Am.Ma il misero non puote a la sua morte 30Indugio sostener di lungo tempo. Tir.Sarà corto l’indugio: in breve spazio
S’adirà, e in breve spazio anco si placa
Femina, cosa mobil per natura,
Più che fraschetta al vento, e più che cima 35Di pieghevole spica. ma, ti prego,
Fa’, ch’io sappia più a dentro de la tua
Dura condizione, e de l’amore:
Che, se ben confessato m’hai più volte
D’amare, mi tacesti però dove 40Fosse posto l’amore. Ed è ben degna
La fedele amicizia, ed il commune
Studio de le Muse, ch’a me scuopra
Ciò ch’a gli altri si cela. Am. Io son contento,
Tirsi, a te dir ciò, che le selve, e i monti, 45E i fiumi sanno, e gli uomini non sanno.
Ch’io sono omai sì prossimo a la morte,
Ch’è ben ragion, ch’io lasci, chi ridica
La cagion del morire, e che l’incida
Ne la scorza d’un faggio, presso il luogo, 50Dove sarà sepolto il corpo esangue:
Sì, che tal or, passandovi quell’empia,
Si goda di calcar l’ossa infelici
Co’l piè superbo, e tra se dica, È questo
Pur mio trionfo; e goda di vedere, 55Che nota sia la sua vittoria a tutti
Li pastor paesani, e pellegrini,
Che quivi il caso guidi: e forse (ahi, spero
Troppo alte cose) un giorno esser potrebbe,
Ch’ella, commossa da tarda pietate, 60Piangesse morto, chi già vivo uccise;
Dicendo, O pur qui fosse, e fosse mio.
Or odi. Tir. Segui pur, ch’io ben t’ascolto,
E forse a miglior fin, che tu non pensi. Am.Eſſendo io fanciulletto, ſi, che à pena 65Giunger potea con la man pargoletta
À corre i fiutti da i piegati rami
De gli arboſcelli, intrinſeco diuenni
De la più vaga, e cara Verginella,
Che mai spiegasse al vento chioma d’oro: 70La figliuola conosci di Cidippe?
E di Montan ricchissimo d’armenti,
Silvia, onor de le selve, ardor de l’alme?
Di questa parlo, ahi lasso: vissi a questa
Così unito alcun tempo, che fra due 75Tortorelle più fida compagnia
Non sarà mai, né fue.
Congiunti eran gli alberghi,
Ma più congiunti i cori:
Conforme era l’etate, 80Ma’l pensier più conforme:
Seco tendeva insidie con le reti
A i pesci, ed a gli augelli, e seguitava
I cervi seco, e le veloci dame;
E’l diletto, e la preda era commune. 85Ma, mentre io fea rapina d’animali,
Fui non so come a me stesso rapito.
A poco a poco nacque nel mio petto,
Non so da qual radice,
Com’erba suol, che per se stessa germini, 90Un’incognito affetto,
Che mi fea desiare
D’esser sempre presente
A la mia bella Silvia;
E bevea da’ suoi lumi 95Un’estranea dolcezza
Che lasciaua nel fine
Un non so che d’amaro:
Sosprirava sovente, e non sapeva
La cagion de’ sospiri. 100Così fui prima Amante, ch’intendessi,
Che cosa fosse Amore.
Ben me n’accorsi al fin: ed, in qual modo,
Ora m’ascolta, e nota. Tir. È da notare. Am.A l’ombra d’un bel faggio Silvia, e Filli 105Sedean un giorno, ed io con loro insieme;
Quando un’ape ingegnosa, che cogliendo
Sen’ giva il mel per que’ prati fioriti,
A le guancie di Fillide volando,
A le guancie vermiglie, come rosa, 110Le morse, e le rimorse avidamente;
Ch’a la similitudine ingannata
Forse un fior le credette. Allora Filli
Cominciò lamentarsi, impaziente
De l’acuta puntura: 115Ma la mia bella Silvia disse, Taci,
Taci, non ti lagnar, Filli, perch’io
Con parole d’incanti leverotti
Il dolor de la picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto 120La saggi a Aresia, e n’ebbe per mercede
Quel mio corno d’avolio ornato d’oro.
Così dicendo, avvicinò le labra
De la sua bella, e dolcissima bocca
A la guancia rimorsa, e con soaue
125Susurro mormorò non so che versi.
O mirabili effetti. Sentì tosto
Cessar la doglia, o fosse la virtute
Di que’ magici detti, o, com’io credo,
La virtù de la bocca, 130Che sana ciò che tocca.
Io che fino a quel punto altro non volsi,
Che’l soave splendor de gli occhi belli,
E le dolci parole, assai più dolci,
Che’l mormorar d’un lento fiumicello, 135Che rompa il corso fra minuti sassi,
O che’l garrir de l’aura infra le frondi;
Allor sentii nel cor novo desire
D’appressare a la sua questa mia bocca:
E, fatto non so come astuto, e scaltro 140Più de l’usato, (guarda, quanto Amore
Aguzza l’intelletto) mi sovvenne
D’un inganno gentile, co’l qual’io
Recar potessi à fine il mio talento:
Che, fingendo, ch’un’ape avesse morso 145Il mio labro di sotto, incominciai
A lamentarmi di cotal maniera,
Che quella medicina, che la lingua
Non richiedeva, il volto richiedeva.
La semplicetta Silvia, 150Pietosa del mio male,
S’offrì di dar aita
A la finta ferita, ahi lasso, e fece
Più cupa, e più mortale
La mia piaga verace, 155Quando le labra sue
Giunse a le labra mie.
Nè l’api d’alcun fiore
Coglion sì dolce il mel, ch’allora io colsi
Da quelle fresche rose, 160Se ben gli ardenti baci,
Che spingeva il desire a inumidirsi,
Raffrenò la temenza,
E la vergogna, o felli
Più lenti, e meno audaci: 165Ma, mentre al cor scendeva
Quella dolcezza mista
D’un secreto veleno,
Tal diletto n’avea,
Che, fingendo, ch’ancor non mi passasse 170Il dolor di quel morso,
Fei sì, ch’ella più volte
Vi replicò l’incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo
Il desire, e l’affanno impaziente, 175Che, non potendo più capir nel petto,
Fu forza, che scoppiasse; ed una volta,
Che in cerchio sedevam Ninfe, e Pastori
E facevamo alcuni nostri giuochi,
Che ciascun ne l’orecchio del vicino 180Mormorando diceva un suo secreto,
Silvia, le dissi, io per te ardo, e certo
Morrò se non m’aiti. A quel parlare
Chinò ella il bel volto, e fuor le venne
Un’improviso, insolito rossore, 185Che diede segno di vergogna, e d’ira:
Né ebbi altra risposta, che un silenzio
Un silentio turbato, e pien di dure
Minaccie. Indi si tolse, e più non volle
Né vedermi, né udirmi. E già tre volte 190Ha il nudo mietitor tronche le spighe,
Ed altretante il verno ha scossi i boschi
De le lor verdi chiome: ed ogni cosa
Tentata ho per placarla, fuor che Morte.
Mi resta sol, che, per placarla, io mora, 195E morrò volontier, pur ch’io sia certo,
Ch’ella o se ne compiaccia, o se ne doglia;
Né so di tai due cose, qual più brami.
Ben fora la pietà premio maggiore
A la mia fede, e maggior ricompensa 200A la mia morte: ma bramar non deggio
Cosa, che turbi il bel lume sereno
A gli occhi cari, e affanni quel bel petto. Tir.È possibil però, che, s’ella un giorno
Udisse tai parole, non t’amasse? Am.205Non so, né’l credo; ma fugge i miei detti
Come l’aspe l’incanto. Tir. Or ti confida,
Ch’a me dà il cuor di far, ch’ella t’ascolti. Am.O nulla impetrerai, o, se tu impetri,
Ch’io parli, io nulla impetrerò parlando. Tir.210Perché disperi si? Am. Giusta cagione
Ho del mio disperar, che il saggio Mopso
Mi predisse la mia cruda ventura,
Mopso, ch’intende il parlar de gli augelli,
E la virtù de l’erbe, e de le fonti. Tir.215Di qual Mopso tu dici? Di quel Mopso,
C’ha ne la lingua melate parole,
E ne le labra un amichevol ghigno,
E la fraude nel seno, ed il rasoio
Tien ſotto il manto? Or su, sta di bon core, 220Che i sciaurati pronostichi infelici,
Ch’ei vende a mal’accorti, con quel grave
Suo supercilio, non han mai effetto;
E per prova so io ciò che ti dico;
Anzi da questo sol, ch’ei t’ha predetto, 225Mi giova di sperar felice fine
A l’Amor tuo. Am. Se sai cosa per prova,
Che conforti mia speme, non tacerla. Tir.Dirolla volontieri. Allor, che prima
Mia sorte mi condusse in queste seve, 230Costui conobbi, e lo stimava io tale,
Qual tu lo stimi: in tanto un dì mi venne
E bisogno, e talento d’irne dove
Siede la gran Cittade in ripa al fiume,
Et a costui ne feci motto; ed egli 235Così mi disse: Andrai ne la gran Terra,
Ove gli astuti, e scaltri Cittadini,
E i cortigian malvagi molte volte
prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni
Di noi rustici incauti: però, figlio, 240Va su l’avviso, e non t’appressar troppo
Ove sian drappi colorati, e d’oro,
E pennacchi, e divise, e foggie nove:
Ma sopra tutto guarda, che mal fato,
O giovenil vaghezza non ti meni 245Al magazzino de le ciancie, ah fuggi,
Fuggi quell’incantato alloggiamento:
Che luogo è questo? Io chiesi: ed ei soggiunse,
Quivi abitan le maghe, che incantando
Fan traveder, e traudir ciascuno. 250Ciò che diamante sembra, ed oro fino;
È vetro, e rame: e quelle arche d’argento,
Che stimeresti piene di tesoro;
Sporte son piene di vesciche bugge;
Quivi le mura son fatte con arte, 255Che parlano, e rispondono a i parlanti;
Né già rispondon la parola mozza,
Com’Echo suole ne le nostre selve,
Ma la replican tutta intiera intiera;
Con giunta anco di quel, ch’altri non disse. 260I trespidi, le tavole, e le panche,
Le scranne, le lettiere, le cortine,
E gli arnesi di camera, e di sala,
Han tutti lingua, e voce; e gridan sempre.
Quivi le ciancie in forma di bambine
265Vanno trescando, e, se un muto v’entrasse
Un muto ciancerebbe a suo dispetto.
Ma questo è’l minor mal, che ti potesse
Incontrar: tu potresti indi restarne
Converso in selce, in fera, in acqua, o in foco; 270Acqua di pianto, e foco di sospiri.
Cosi diss’egli: ed io n’andai con questo
Fallace antiveder ne la Cittade;
E, come volse il Ciel benigno, a caso
Passai per là dov’è’l felice albergo. 275Quindi uscian fuor voci canore, e dolci,
E di Cigni, e di Ninfe, e di Sirene;
Di Sirene celesti, e n’uscian suoni
Soavi, e chiari; e tanto altro diletto,
Ch’attonito godendo, ed ammirando 280Mi fermai buona pezza. Era su l’uscio,
Quasi per guardia de le cose belle,
Uom d’aspetto magnanimo, e robusto,
Di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi,
S’egli sia miglior dvce, o Cavaliero; 285Che con fonte benigna insieme, e grave,
Con regal cortesia, invitò dentro,
Ei grande, e’n pregio, me negletto, e basso.
I che sentii? che vidi allora? I vidi
Celesti Dee, Ninfe leggiadre, e belle; 290Novi lumi, ed Orfei; ed altre ancora
Senza vel, senza nube, e quale, e quanta
A gl’immortali appar vergine Aurora
Sparger d’argento, e d’or rugiade, e raggi;
E fecondando illuminar d’intorno 295Vidi Febo, e le Muse; e fra le Muse
Elpin seder accolto, ed in quel punto
Sentii me far di me stesso maggiore;
Pien di nova virtù; pieno di nova
Deitade, e cantai guerre, ed eroi, 300Sdegnando pastoral ruvido carme.
E, se ben poi (come altrui piacque) feci
Ritorno a queste selve, io pur ritenni
Parte di quello spirto; né già suona
La mia sampogna umil come soleva; 305Ma di voce più altera, e più sonora,
Emula de le trombe, empie le selve.
Udimmi Mopso poscia; e con maligno
Guardo mirando affascinommi; ond’io
Roco divenni, e poi gran tempo tacqui: 310Quando i Pastor credean, ch’io fossi stato
Visto dal Lupo; e’l Lupo era costui.
Questo t’ho detto, acciò che sappi, quanto
Il parlar di costui di fede è degno:
E dei bene sperar, sol perché ei vuole, 315Che nulla speri. Am. Piacemi d’udire
Quanto mi narri. A te dunque rimetto
La cura di mia vita. Tir. Io n’avrò cura.
Tu fra mezz’ora qui trovar ti lassa.